L’ARCHITETTURA ROMANICA A VENEZIA: SPAZIO ARCHITETTONICO CROMATICO – SPAZIO ARCHITETTONICO PLASTICO
LA PRIMA BASILICA ROMANICA A VENEZIA
DESCRIZIONE DELLA BASILICA DI SAN MARCO
IL ROMANICO A FIRENZE
IL ROMANICO A LUCCA
IL ROMANICO NELL’ITALIA CENTRALE
IL ROMANICO NELL’ITALIA MERIDIONALE
IL ROMANICO ISOLANO
LA SCULTURA ROMANICA: PARMA
BENEDETTO ANTELAMI

BENEDETTO ANTELAMI ARCHITETTO
LA SCULTURA ROMANICA NELL’ITALIA DEL SUD
L’ALBA DELLA PITTURA ROMANICA
L’ARTE FIGURATIVA IN SICILIA


L’ARCHITETTURA ROMANICA A VENEZIA: SPAZIO ARCHITETTONICO CROMATICO – SPAZIO ARCHITETTONICO PLASTICO

Venezia, piazza San Marco
VEDUTA DELLA PIAZZA DALL’ALTO (XI/XIV sec.)

Con l’avvento del Romanico cambia radicalmente la concezione dello spazio architettonico che da cromatico diventa plastico. L’architettura bizantina è orientata verso una concezione dello spazio in senso volumetrico cromatico, non in senso volumetrico plastico, cioè le strutture preposte alla definizione dello spazio non sono individuate attraverso gli effetti dello scorrere della luce sulla loro superficie, ovvero mediante modulazioni chiaroscurali, bensì tramite le qualità assorbenti o riflettenti dei materiali, ovvero mediante i riflessi cromatici generati dalla luce. Il modo di recepire l’ambiente è completamente diverso: un sistema di piani colorati nell’arte bizantina; un sistema di volumi illuminati nell’arte romanica.
Nell’architettura bizantina, contrariamente a quanto avviene in quella romanica, anche lo spazio in ombra si qualifica come spazio colorato; le colonne delle basiliche ravennati, più che elementi cilindrici affusolati, sono macchie chiare allungate che si stagliano sullo sfondo porpora dell’ombra proiettata dalle contropareti delle navate laterali. La stessa cosa avviene tra le articolazioni dei vari elementi costruttivi: ad esempio fra la colonna (bianca) e le soprastanti arcate (blu, verdi, oro). Nell’architettura romanica le articolazioni fra un elemento costruttivo e l’altro sono evidenziate, invece, con l’accentuazione del modellato: ad esempio rimarcando le arcate con lo sdoppiamento dell’estradosso, o, nel caso della suddivisione fra colonnato e trabeazione, con forti cornicioni aggettanti; insomma con tutto ciò che sia in grado di far scivolare i raggi luminosi, non rifletterli.
In poche parole nell’architettura bizantina lo spazio è interpretato in maniera pittorica, in quella romanica in maniera plastica.

LA PRIMA BASILICA ROMANICA A VENEZIA

Venezia, cattedrale di Torcello
VEDUTA DELLA FACCIATA (XI sec.)

A Venezia la trascendenza orientale si fa realtà empirica; a Venezia la strutturalità romanica si fonde con la raffinatezza lineare e cromatica bizantina; scopo: dissolvere l’effetto volumetrico in superficie disegnata e colorata.
Venezia è una città speciale; diversa da tutte le altre. È una città costruita sull’acqua, al centro di una laguna, sulla costa nord del mare Adriatico. La sua economia non è fondata sulla terra che non c’è, ma sui commerci. Il potere a Venezia non è nelle mani di feudatari prepotenti e arroganti, ma in mano a borghesi scaltri e coraggiosi a cui la fortuna ha sorriso. Venezia è in stretto contatto con l’Oriente da cui importa merci preziose e una cultura ricca e raffinata.
Venezia è una delle poche città che non può vantare radici romane. La Serenissima non esisteva ancora fino a quando le invasioni barbariche costrinsero gli abitanti delle città rivierasche come Aquileia, Altino, Concordia e Padova ad abbandonare le loro comode dimore per andare a vivere sulle barene, popolate fino ad allora solo da povere famiglie di pescatori. Qui, adottando un sistema di costruzione primitivo ma sempre attuale, iniziano a costruire le prime case. Dovendo fondare i propri stabili su sabbia, instabile, si fa ricorso a platee costituite da pali di legno piantati nel fondo sabbioso, a stretto contatto l’un l’altro: una sorta di palafitte con molti pali compressi, spinti oltre il deposito di sabbia a incontrare la dura roccia sottostante. Un sistema in uso ancora oggi quando si deve costruire su terreni cedevoli; l’unica differenza è che oggi i pali sono di cemento armato.
Le fondazioni su terreno instabile comportano qualche inconveniente: ad esempio non ci si può spingere troppo in alto, cosa che causerebbe un carico di punta eccessivo. Ciò implica andare alla ricerca di tutto quanto può servire ad alleggerire le murature, come abbondare con le aperture. Poi, stante la variabilità morfologica degli isolotti, risulta molto difficile per i costruttori conferire un assetto geometrico ai singoli fabbricati. Altro elemento da considerare consiste nel fatto che Venezia è protetta dal mare, quindi non ha bisogno di mura di difesa, cosa questa assolutamente discriminante per conferire alla città un aspetto completamente diverso da quello di ogni altra realtà urbana dell’epoca. Ne deriva che la Serenissima non è una città chiusa; le case continuano nelle strade, nelle calli, nei campi e campielli, ma soprattutto sui canali. E proprio i canali rappresentano l’elemento che meglio identifica la sua personalità. Sono le strade della città; ce ne sono un’infinità; grandi e piccoli, lunghi e corti, in una rete intricatissima che penetra in ogni dove. Insomma Venezia è i suoi canali; senza i suoi canali Venezia non sarebbe.
Canali vogliono dire acqua; acqua vuol dire riflessi; riflesso vuol dire sdoppiamento dell’immagine, riverberi di luce, luce colore. Per poter capire l’arte a Venezia non si può prescindere da questo contesto; dalla presenza dell’acqua. Così per l’architettura: molto di quello che si vede a Venezia di architettura lo si vede sdoppiato; un’immagine fissa e l’altra mobile.
Per chi lavora a Venezia è facile arrivare ad includere nell’ambito dell’immagine artistica anche l’immagine riflessa, per cui ogni edificio va visto pensando alla sua copia rovesciata: il che traspone la realtà fissa in un contesto virtuale mobile. La magia di Venezia in fondo è tutta qua: uno scambio continuo fra concretezza e astrazione, realtà e virtualità. A causa dei riflessi cangianti a Venezia l’architettura sembra non avere appoggio, sembra sospesa. Masse e volumi prospettici in laguna non hanno senso. La Serenissima non è altro che una serie di diaframmi colorati sospesi fra acqua e cielo.
La prima Venezia a sorgere è Torcello. La sua cattedrale è del 1008. L’impianto riprende lo stile ravennate del vecchio edificio del VII secolo. Di nuovo ci sono le solite partiture lombarde che movimentano con i loro risalti la piatta facciata di mattoni.
Nel 1063 si da inizio ai lavori di costruzione di San Marco, per realizzare il quale si fanno arrivare architetti direttamente dall’Oriente. Il loro obiettivo è quello di creare una struttura che sembra levitare nell’aria cosicché tappezzano le pareti di tessere d’oro che smaterializzano la muratura e conferiscono agli spazi interni l’aspetto di vuoti immensi rigonfi di atmosfera luminosa, mentre all’esterno la smaterializzazione si ottiene facendo interagire le strutture con la luce densa e mobile della laguna. L’attenzione all’effetto comunque non fa dimenticare agli architetti i problemi statici. Per alleggerire le strutture senza comprometterne la saldezza si procede a gettare grandi arcate strombate. Queste se impostate su pilastri darebbero il senso dell’effettivo spessore dei muri di sostegno, ma si vuole ottenere l’effetto esattamente opposto, si vuole dare l’idea di una massa priva di peso, per cui si frammenta la consistenza reale dei pilastri con l’espediente della sovrapposizione di innumerevoli colonnine. Ne risulta la sensazione di una massa appoggiata su sostegni assolutamente inadeguati a sorreggerla per cui interpretata come priva di peso. Tutto a San Marco è studiato per annullare il senso della gravità. Ad esempio l’abbondante presenza di paramenti decorativi impedisce all’occhio di capire il profilo dell’edificio in un unico sguardo.

DESCRIZIONE DELLA BASILICA DI SAN MARCO

Venezia, San Marco
VEDUTA DELLA CHIESA DALL’ALTO (XI/XIV sec.)

L’attuale San Marco sorge su una costruzione precedente fatta erigere nel IX secolo per accogliere le spoglie dell’evangelista. Queste si trovavano ad Alessandria d’Egitto e li sarebbero rimaste se due mercanti veneziani non l’avessero trafugata. Danneggiata da un incendio nel 976 il doge Domenico Contarini (1041-1071) la fa ricostruire. I lavori di ricostruzione terminano nel 1093, sotto il dogato di Vitale Falièr (1084-1093). Nel 1106 s’incendia anche questo rifacimento cosicché si rendono necessari nuovi lavori per metterla di nuovo in piedi. Nel 1178 si può dire finalmente terminata. Nel corso dei secoli successivi viene completata con la costruzione dell’atrio e l’installazione dei quattro cavalli di bronzo provenienti da Costantinopoli, nonché ampliata la piazza antistante.
Il campanile alto 96 mt. e 80 cm. viene eretto negli stessi anni della basilica. È di tipo veneto, cioè privo delle suddivisioni orizzontali e di aperture. I ricorsi paralleli al piano di posa sono sostituiti da sottilissime lesene che lo percorrono per tutta l’altezza. Inavvertitamente il 14 luglio 1902 crolla. Al suo posto oggi c’è quello completamente ricostruito appena 10 anni dopo.
La pianta della chiesa è a croce greca; ripete quella della basilica giustinianea dei Santi Apostoli a Costantinopoli. Ogni braccio è diviso in tre navate ed è sormontato da una cupola. Una cupola campeggia anche al centro della croce, sicché in tutto le cupole sono cinque, di cui quella centrale più grande. Esse sono costituite da due calotte, una esterna ad arco rialzato che conferisce alla costruzione la sua tipica personalità orientaleggiante, ed una interna ad arco ribassato. Quelle esterne sono le vere cupole, cioè in possesso di una vera e propria struttura di sostegno; quelle interne sono invece sostanzialmente dei controsoffitti, servono solo ad accogliere i mosaici. Tutt’intorno ai tre lati del primo braccio della croce si articola un atrio suddiviso in campatelle cupolate. La moltiplicazione delle volte ha uno scopo preciso: decentralizzare lo spazio centralizzato dell’architettura romanico-lombarda. Inoltre tutte le articolazioni che in Lombardia si vanno condensando in evidenti elementi plastici, qui spariscono per opera del paramento musivo che si distende sulle pareti senza soluzione di continuità, cosicché la sequenza di cavità e tratti di botte invece che accentuare il senso di spazio strutturato lo attenuano.
Sempre allo stesso fine di dispersione della solidità materiale concorre l’arredo. Le iconostasi, ad esempio, sono inserite proprio a questo scopo, per impedire all’occhio di percorrere tutto, in un sol sguardo, lo spazio della navata fino alla sua conclusione naturale, nell’abside dell’altare maggiore.
L’alzato consta di due piani di cui quello superiore è costituito dal matroneo, quindi ancora i pavimenti, che con la loro multicromia rientrano nel gioco di riflessi che rendono cangiante l’insieme e impedisce loro di levarsi a polo di riferimento visivo.

Murano, duomo
ABSIDE (1140 circa)

Lo stesso ideale perseguito nella basilica marciana è perseguito nel duomo di Murano, del 1140 circa. Lo si vede specialmente nell’abside che all’esterno si dispiega nella tenue luce della laguna, umida di colori, proseguendo nelle ali laterali digradanti, con le quali si collega senza cesure tramite la galleria superiore e le arcate cieche inferiori.

IL ROMANICO A FIRENZE

Firenze, battistero di San Giovanni
ESTERNO (XI sec.)

La vocazione per il classicismo di Firenze è antica quanto la città stessa. Scrittori del passato azzardando un po’ troppo ritenevano il battistero opera tardo antica. L’ipotesi più attendibile che spiega questo feeling di Firenze con le epoche trascorse la si trova nel tipo di orientamento che domina la vita religiosa del periodo. Punto fondamentale di questo indirizzo è la tesi di san Pier Damiani (1007-1072) per cui la verità si da ai sensi in tutta la sua evidente razionalità nel momento stesso dell’enunciazione. Tradotta in termini visivi la cosa suona presso a poco così: manifestare in forme razionali un contenuto, ad esempio un sistema costruttivo, equivale a dimostrarne la funzionalità. Di qui la logica deduzione che in architettura lo spazio dovrà avere forma geometrica. Dunque a Firenze la strutturalità romanica non si da come complesso di forze, ma come complesso di forme geometriche. Tutto questo nel concreto si traduce nella scansione delle pareti esterne del battistero. Queste si ricollegano al ritmo delle partiture prospettiche del duomo di Modena, ma là le arcate delle gallerie che alleggeriscono il paramento murario sono elementi plastici che ricalcano l’andamento delle forze reali agenti nelle strutture, qui invece sono puri segni grafici, disegno. Se le forze che agiscono nella materia sono anch’esse creazione divina allora va con sé che rivelarle nel disegno è come rivelare la presenza di Dio nella natura. È questo pensiero che forma la base ideologica dell’espressività fiorentina, ma anche la innegabile affinità con la cultura classica, ovvero la cultura della forma-verità. Inoltre c’è da aggiungere che, in questa visione, la verità non è complicata, è sempre semplice per cui la strutturalità fiorentina si traduce sempre in forme molto semplificate, onde la propensione per i modelli paleocristiani.

Firenze, San Miniato al Monte
FACCIATA (XI/XII sec.)

Firenze, Santi Apostoli
INTERNO (XI sec.)

Quanto detto oltre che nel Battistero è facile ritrovarlo in San Miniato al Monte. San Miniato al Monte viene iniziata nel 1013 e finita nel 1063. Lo spazio interno è disegnato come l’esterno da tarsie marmoree che ne misurano l’estensione. Ma il vuoto dentro non si proietta sulla parete al di fuori; al contrario, le arcate della parte inferiore portano le impronte di un fantomatico nartece rientrato sul piano della facciata.
Le cose vanno un po’ diversamente nella chiesa dei Santi Apostoli della metà dell’XI secolo.
L’interno si richiama esplicitamente alle spoglie basiliche paleocristiane, ma ci sono delle differenze. Le navate laterali sono alte quanto le arcate che le dividono dalla maggiore e i sostegni benché sembrino delle colonne in realtà sono dei pilastri fatti di blocchi: e questo significa inequivocabilmente che c’è la volontà di trasformare masse e forze in essenza universale, cioè forma geometrica.

IL ROMANICO A LUCCA

Lucca, San Martino
Guidetto da Como
FACCIATA (1204)

Lucca, San Frediano
FACCIATA (1147)

Lucca è sotto l’influenza di Pisa, ma non solo. Nella cattedrale di San Martino la porzione superiore della facciata è di chiara ispirazione pisana, mentre la porzione inferiore si richiama alle ampie arcate ambrosiane. Nella facciata di San Frediano del 1147 sembra invece di vedere il fronte originale del duomo di Modena.
Sotto l’influenza di Pisa sono anche Arezzo e Pistoia, ma città marinara la cultura della terra del Campo dei Miracoli arriva anche in Sardegna.

IL ROMANICO NELL’ITALIA CENTRALE

Roma, San Clemente
INTERNO (XII sec.)

Roma, Santa Maria In Trastevere
ESTERNO (1138/1148)

Montefiascone, Lazio, San Flaviano
ESTERNO (XII/XIII sec. con aggiunte del XVI sec.)

Assisi, San Rufino
FACCIATA INFERIORE(XII sec.)

Spoleto, San Pietro
FACCIATA (1220/1225)

Ancona, San Ciriaco
ESTERNO (fine XI/XIII sec.)

Roma, città di papi, rimane tagliata fuori dal radicale rinnovamento che interessa i comuni del resto d’Italia e d’Europa. Le due più importanti chiese del periodo, San Clemente e Santa Maria in Trastevere, rimangono fedeli agli schemi paleocristiani. Le influenze lombarde invece giungono in provincia, a Montefiascone dove c’è San Flaviano e a Tarquinia dove c’è Santa Maria di Castello.
In Umbria la tradizione tardo-romana è ancora viva per i tramiti del tempietto del Clitunno e del San Salvatore di Spoleto. Se ne vedono gli effetti sul San Rufino di Assisi e l’altra chiesa di Spoleto, San Pietro.
Nelle Marche prevale la tendenza a sperimentare soluzioni lombarde con schemi a pianta centrale. Ne fa fede Santa Maria in Portonuovo e l’impianto planimetrico di San Ciriaco.

IL ROMANICO NELL’ITALIA MERIDIONALE

Amalfi, cattedrale
CHIOSTRO DEL PARADISO (1266/1268)

L’architettura dell’Italia meridionale, Sicilia compresa, va considerata un capitolo a sé. La cosa è dovuta alla particolarissima situazione storica in cui si viene a trovare questa parte della penisola. Bizantini, Longobardi, Arabi e Normanni, tutti passano per i lidi del sud, tutti lasciano, chi più chi meno, un’impronta. L’incontro di diverse culture con le tradizioni locali danno origine ad un’architettura ibrida dove motivi settentrionali si vanno a fondere con motivi orientali. Ad Amalfi nel chiostro della cattedrale, detto del paradiso, realizzato fra il 1266 e il 1268, archi intrecciati in stile moresco si inseriscono in un impianto di tipo romanico così come avviene nel cortile di casa Rufolo a Ravello.

Bari, basilica di San Nicola
ESTERNO (1087/1197)

La basilica di San Nicola di Bari è stata iniziata nel 1087, ma consacrata nel 1197, più di 100 anni dopo. Si tratta di uno dei più eloquenti esempi di eclettismo nella cui definizione convergono elementi di cultura classica, cultura lombarda, cultura bizantina e cultura normanna. Sebbene non rappresenti la più bella delle chiese pugliesi, è senza dubbio il prototipo dell’architettura romanica dell’Italia Meridionale.
La chiesa è stata realizzata utilizzando la candida pietra di Trani, la stessa adoperata per la costruzione del duomo dell’omonima cittadina. Il suo aspetto esteriore complessivo ricorda più che le cattedrali italiane quelle d’oltralpe, tedesche in particolare. La sensazione è da imputare soprattutto al profilo acuto della facciata, carattere che gli viene conferito dall’elevazione dei comparti esterni, corrispondenti alle navate laterali, e dal prevalere dell’altezza sulla larghezza. Lo sviluppo nel senso dell’altezza doveva essere sicuramente accentuato dalla presenza di almeno quattro torri campanarie: due poste ai lati della facciata, costruite per metà, e due poste nella parte posteriore del transetto, mai realizzate. È senz’altro attribuibile alla presenza di questi elementi, oltre che alla scarna decorazione esterna, l’influenza della componente normanna nella definizione architettonica della chiesa.
Alla componente lombarda si deve far risalire la decorazione parietale esterna costituita da archetti pensili, allineati poco al di sotto delle cornicette che coronano la copertura a tre livelli, nonché dalle partiture architettoniche della torre di sinistra, commisurate sul ritmo degli archetti. Lombarda è anche la concezione della facciata, pensata come un’unica parete plastica articolata, traforata da bifore e monofore.
Curiosità: La facciata, come quella di San Frediano, ci aiuta a immaginare come doveva essere il prospetto della cattedrale di Modena, prima dell’apertura del grande rosone centrale.
Di chiara ispirazione romana è la decorazione ad arconi delle pareti esterne laterali delle navate minori che ricordano molto da vicino le grandi arcate a tutto sesto degli acquedotti romani.
Alla cultura bizantina si deve far risalire la presenza del matroneo, rivelato all’esterno dalla successione di una serie di esafore che corrono allineate, ma non in asse, sopra agli arconi.
Per quanto riguarda l’interno c’è da segnalare la presenza di tre absidi affiancate sulla stessa parete di fondo di chiara ascendenza lombarda; lo strano raccordo fra volte a crociera, anch’esse lombarde, e colonne abbinate, con tanto di base e capitello, ovviamente classiche; la suddivisione in campate aperte che riprende esperienze dell’Italia centrale; e il matroneo che cinge su tre lati il perimetro interno della chiesa. Infine, osservando la pianta, si nota che il transetto prende corpo solo se si oltrepassa la quota della navata laterale, mentre, fatto assai curioso, le tre absidi sono nascoste all’esterno dalla presenza di un muro di cinta.
La struttura originaria è stata fortemente deturpata nei secoli successivi da interventi di irrobustimento e rifinitura. Ne è testimonianza l’inserimento delle arcate trasversali a tre aperture, resosi necessario nel 1451 per contrastare l’incipiente cedimento delle pareti verso l’interno. Nessuna necessità statica giustifica, invece, la cupola dipinta nel XVII secolo, al centro dell’intersezione fra la navata centrale e il transetto.

Trani, cattedrale
ESTERNO (1098/metà XIII sec.)

Simile a San Nicola di Bari nell’impianto planimetrico, ma ben diversa nell’aspetto estetico è la cattedrale di Trani. La cattedrale di Bitonto ricorda molto da presso quella di Lanfranco, mentre quella di Ruvo di Puglia, quella di Troia e Santa Maria di Siponto si avvicinano maggiormente a precedenti padani non meglio specificati. Il Romanico pugliese arriva anche sulla sponda opposta dell’Adriatico, a Trau e Zara dando origine al Romanico balcanico.

Stilo, Reggio Calabria, Cattolica di Stilo
ESTERNO (X/XI sec.)

In Calabria resiste la tradizione bizantina. La Cattolica di Stilo in provincia di Reggio ricalca schemi tipicamente levantini. Su una pianta quadrata dove s’incunea una croce greca spuntano cinque tamburi cilindrici che nascondono altrettante cupolette emisferiche. Molto simile è la chiesa di San Marco di Rossano in provincia di Cosenza, costruita sempre fra il X e l’XI secolo: cubica, tamburata e triabsidata. L’aggiunta di un corpo basilicale ne ha alterato l’aspetto originario.

IL ROMANICO ISOLANO

Palermo San Giovanni degli Eremitani
ESTERNO (1132)

Cefalù, cattedrale
ESTERNO (1131/1240)

Monreale, duomo
ABSIDE (1182)

In Sicilia l’arte bizantina incontra prima l’araba e poi la normanna. San Giovanni degli Eremitani, fondata nel 1132 circa, è tutta araba con il suo nitore volumetrico, ottenuto dalla combinazione di un cubo con un prisma sormontato da mezze sfere rialzate, mentre la Martorana, del 1143, è mezza araba e mezza bizantina: bizantina nella pianta cruciforme, araba nelle arcate rialzate sui piedritti e nella decorazione interna.
Più araba che bizantina per via dell’incredibile copertura a stalattiti risulta la eterea cappella palatina di re Ruggero (1130-1154), del 1140. Nella cattedrale di Cefalù fanno la loro comparsa alla metà del XII secolo elementi lombardi, arrivati probabilmente dalla Puglia. Nel duomo di Monreale del 1182 torna a dominare lo stile bizantino, ma la parte absidale esterna è in eloquente stile moresco, con archi incrociati e pittoresche decorazioni, come ortodossia comanda.

LA SCULTURA ROMANICA: PARMA
BENEDETTO ANTELAMI

Parma, duomo
Benedetto Antelami (notizie dal 1178)
DEPOSIZIONE (1178)
Breccia rosa di Verona, con intarsio metallico a niello sul fondo
Altezza mt. 1,20 – lunghezza mt. 2,30

Con Benedetto Antelami, architetto e scultore, si chiude la fase romanica dell’arte medievale e si apre quella gotica.
Che la scultura continui ad essere concepita alla stessa stregua dell’architettura dalla generazione di artisti operanti alla fine del XII secolo è evidente nell’opera di Benedetto Antelami, scultore e architetto insieme, autore del battistero di Parma, così come sono altrettanto evidenti i passi in avanti compiuti dalla sua arte nella ricerca espressiva della trasmutazione della materia in modulazione luminosa. Questo obiettivo porta Benedetto a curare ancor più dei suoi predecessori quei particolari che hanno come compito precipuo quello di impegnare, trattenere più a lungo la luce sulle masse. Con lui, dunque, la raffigurazione si complica; sembrerebbe quasi un ritorno alla tradizione bizantina, ma in realtà si tratta sempre di tramutare forze travestite da masse plastiche a forma di personaggi in effetti di chiaroscuro.
Nella deposizione che si trovava sul pontile del duomo di Parma, chiaramente, il corpo di Cristo non ha all’apparenza nulla a che vedere con i costoloni di una crociera, eppure la concezione estetica che lo disegna è la medesima. Nell’architettura le nervature dei pilastri cruciformi dopo esser salite in verticale, affiorando dalle pareti scarne sotto la spinta ascensionale delle forze che si oppongono al peso della volta, si piegano per raccordarsi con i costoloni della volta, che spingono in senso opposto. Così il corpo di Gesù, ritto sulla croce fino al bacino, dal busto in poi inizia a piegarsi fino a raccordarsi con la Madonna che gli sorregge pietosamente il braccio. Così come un contrafforte si oppone ad un grande arco di sostegno, il servitore alla sinistra, più che rappresentare un uomo nell’atto di sorreggere un corpo ormai privo di vita, si oppone al corpo di Cristo come uno sperone ad una struttura portante.
L’impianto generale della sacra rappresentazione è alquanto schematico. Il legno verticale della croce è anche asse di simmetria dell’intero bassorilievo, mentre quello orizzontale ne limita l’estensione in altezza. I personaggi si dispongono tutti seguendo queste due direzioni ortogonali, ma così serrata la composizione rischierebbe l’immobilità assoluta se non fosse per la lieve curvatura delle figure, che si fa sempre più accentuata in prossimità del grande corpo di Cristo, giganteggiante nel mezzo. La scena si staglia su un fondo decorato a niello, che qui serve a dare maggior risalto alle figure. Ai due estremi, nei due tondi che aprono e chiudono la teoria di personaggi, ci sono effigiati due volti che alludono al giorno e alla notte. Sono due immagini che simboleggiano la temporalità; la loro presenza scandisce il tempo di compimento del rito.
Il niello è una tecnica che si usa soprattutto in oreficeria e serve a controllare l’esattezza delle incisioni destinate a decorare le lamine di metallo prezioso. I bizantini se ne servivano per dare al fondo dei rilievi l’aspetto di una pagina miniata.
La deposizione del duomo di Parma è un’opera fondamentale dal punto di vista iconografico. Si tratta infatti di una delle primissime interpretazioni del tema del supplizio di Cristo in cui il distacco dalla croce avviene al cospetto di una nutritissima schiera di personaggi. Per inciso, non bisogna dimenticare che in questo periodo molte opere rappresentano delle novità assolute in fatto di iconografia, e questo perché non hanno avuto modelli diretti. Quindi i loro artefici si possono definire dei veri e propri pionieri, essendo stati i primi ad aver percorso e sperimentato inedite possibilità di raffigurazione dei temi cristiani.
È chiaro che per Benedetto i rilievi non vanno giudicati in relazione alla loro somiglianza con la realtà, ma vanno giudicati in rapporto alla loro funzione strutturale nell’ambito della composizione generale. Scolpire il marmo comporta una tecnica, ma questa tecnica non va valutata sulla base dell’abilità con cui l’artefice riesce a trasformare un blocco di pietra in un’immagine che si confonde con la realtà, bensì va misurata sulla base dell’abilità con cui egli riesce ad ottenere un’immagine inedita con una tecnica tramandata di generazione in generazione. Nella deposizione in particolare si misura col fatto che Benedetto riesce a dominare una struttura molto complessa, costituita da innumerevoli figure, proprio grazie alla sua sapienza tecnica, la stessa che gli permette di rendere più viva, più sensibile la materia, attraverso l’intaglio di numerose pieghe il cui scopo è quello di mettere in movimento le superfici delle masse. Per arrivare alle pieghe bisogna seguire un ordine ben preciso, questo ordine si impara lavorando; s’impara a fare i capelli e le mani in marmo così come si impara a fare la calzetta o a lavorare a maglia. La scultura è un lavoro come tanti altri, che procede seguendo modelli e tecniche ben precise, ma artista è solo colui che supera sia gli uni che le altre.
Il modello a cui si ispira il lavoro dello scultore medievale non è la natura, ma la cultura. La cultura dell’Antelami è la cultura della tradizione, impersonata da tutti quegli artisti, noti e meno noti, che facevano gli scultori prima di lui, su su, a comprendere Wiligelmo e tutti gli altri, fino a perdersi nella notte dei tempi, che nel caso di Benedetto è l’arte tardo-romana. Benedetto si ferma ai tardo-antichi; spetterà a chi verrà dopo di lui, Nicola Pisano, risalire ancora più su, fino alla cultura figurativa classica.
La cultura della tradizione tramanda insieme ai modelli formali le tecniche capaci di vincere l’inerzia della materia. Benedetto Antelami vince l’inerzia della materia con i vuoti che riesce a creare, con lo spazio che libera intorno alle figure, uno spazio creato dall’intaglio sapiente della pietra, finalizzato al ricavo di zone d’ombra tra una figura e l’altra, oltre che col sapiente governo della luce, indirizzato a rendere evidente il ritmo delle pieghe delle vesti che ammantano i personaggi.
Benedetto Antelami rappresenta una tappa dello sviluppo della cultura tecnica medievale, cultura che proseguirà con Nicola Pisano, sia come sviluppo della tradizione che come sviluppo della ricerca delle radici storiche del linguaggio borghese. Nel pulpito della cattedrale di Pisa, opera del 1260, Nicola Pisano è riuscito a conquistare la sovrapposizione delle figure, ma la sua conquista si inserisce nell’ambito della stessa tradizione che ha visto la scultura progredire verso nuove conquiste tecniche. Da Wiligelmo, in cui il movimento risulta dalla contrapposizione delle figure che si articolano su uno sfondo architettonico, a Benedetto Anelami che coordina nella flessibilità della materia il movimento generale, a Nicola Pisano che sovrappone le figure nello spazio, il processo è unico, come unico è il fine: la conquista tecnica dello spazio reale.

BENEDETTO ANTELAMI ARCHITETTO

Parma, battistero
Benedetto Antelami
ESTERNO (1196/1216)

Come accade spesso nel Medioevo, ma anche in molte altre epoche, chi è scultore è anche architetto. Benedetto è un ingegno versatile. Egli oltre ad eccellere nella scultura eccelle anche in architettura. Come costruttore vive il passaggio dalla concezione romanica di architettura come equilibrio di forze alla nuova concezione gotica di architettura come prevalenza delle spinte ascensionali su quelle gravitazionali. Suo è il battistero di Parma e Sant’Andrea di Vercelli; suo è probabilmente anche il duomo di Fidenza, ancora romanico nell’impostazione. Benedetto è il primo artista della vecchia guardia ad accorgersi delle novità provenienti dall’île de France e le applica con sottile dialettica alla tradizione romanica lombarda sulla quale si è formato. La sua opera più famosa è il battistero di Parma, ritenuto uno dei massimi capolavori dell’arte romanica.
Il battistero di Parma viene costruito fra il 1196 e il 1216. Ha pianta ottagonale. Tre delle sue otto facce sono scavate da grandi portali a tutto sesto, strombati. Le superfici laterali sono alleggerite da quattro ordini di loggette sovrapposti. L’ultima fascia, a contatto con la cornice terminale, è formata da arcatelle cieche: fin qui il fabbricato è ancora Romanico lombardo. Ma le arcate del portale sono come proiettate su un piano obliquo onde far sentire una profondità che non c’è, quindi le loggette sono architravate e gli spigoli della superficie laterale figurano come tante nervature di contenimento delle pareti che puntano decisamente verso l’alto: e questo lo avvicina la Gotico.
Non si sa da dove Benedetto abbia tratto il modello per il suo battistero. Forse da qualche miniatura in cui compaiono edifici immaginari, oppure dall’arte romanica di provincia. Tuttavia il motivo romanico della massa plastica traforata si ricompone sul piano in un disegno gotico fatto di lievi modulazioni di luce. Qui non ci sono ogive, né rosoni, ma è còlta l’essenza della nuova tendenza: l’elevazione, la spinta verso il cielo.
All’interno i lati si raddoppiano, diventano sedici. Gli spigoli sono rimarcati da colonnine sottili e allungate; i lati non sono piani ma incavati, salvo quelli con le aperture. In alto il prisma si conclude con una cupola ogivale nervata. La struttura parrebbe perfettamente geometrica eppure osservandola bene ci si accorge che la larghezza e la profondità delle nicchie non sono uniformi, né gli archi tutti uguali: è evidente che Benedetto non vuole una simmetria statica, ma dinamica.

Vercelli, Sant’Andrea
Benedetto Antelami
ESTERNO (1219/1227)

Se nel battistero c’è la percezione del nuovo che avanza in Sant’Andrea di Vercelli c’è la certezza. A contatto con la nuova moda Benedetto non si lascia fuorviare, al contrario cerca soluzioni per ridurre la materia nelle strutture portanti senza che queste abbiano a soffrire un’attenuazione delle energie reattive. La facciata della chiesa è uno schermo teso e dimensionato dalle due torri campanarie; lo spessore di questo diaframma è misurato dai portali e dal loggiato che si dispone di traverso in doppio ordine. Con ciò Benedetto riprende e approfondisce l’esperienza di Parma, ma la storia è già cambiata.

LA SCULTURA ROMANICA NELL’ITALIA DEL SUD

Benevento, biblioteca Capitolare
FORMELLA DELLA PORTA ISTORIATA (dal duomo di Benevento) (XII/XIII sec.)
Bronzo

Ravello, Salerno, duomo
Barisano da Trani
FORMELLE DELLA PORTA (1179)
Bronzo

Come nell’architettura anche nella disciplina plastica l’Italia meridionale si distingue per il permanere della tradizione bizantina. Nel portale del duomo di Benevento, della fine del XII secolo, prima metà del XIII secolo, i personaggi raffigurati sembrano sospesi sul piano di fondo, liscio.
In Barisano da Trani la modulazione luminosa è morbida e il rilievo bassissimo: segno evidente che vuole risolvere il rilievo sul piano del disegno.

L’ALBA DELLA PITTURA ROMANICA

Roma, San Clemente
LEGGENDA DI SANT’ALESSIO (fine XI sec.)
Affresco

Galliano, chiesa di San Vincenzo
RITROVAMENTO E SEPPELLIMENTO DEL CORPO DI SAN VINCENZO (1007)
Affresco

Le prime pagine di pittura scritte dopo l’anno mille sono redatte nella stessa lingua con cui sono state redatte le pagine conclusive del primo millennio; non si avvertono sostanziali novità come nelle altre discipline, solo sfumature. Per la sua natura specifica, l’arte romanica trova nell’architettura e nella scultura il suo ambito espressivo che le è più congeniale, così come l’arte bizantina lo trovava nella pittura. Questo però non ha impedito che si producessero opere di architettura e di scultura nel periodo bizantino né opere di pittura nel periodo romanico.
L’aspetto di maggior interesse presentato dalla cultura pittorica romanica consiste nel vedere come si realizzino gli ideali di concretezza spaziale e di movimento in un ambito simulatorio come quello della raffigurazione bidimensionale. Nell’arte del dipingere alle linee è demandato il delicato compito di suggerire il movimento, e il movimento determina lo spazio. A sua volta il movimento lo determinano le forze interne alla materia colore, che traggono vita, come in scultura, dalle necessità narrative. Nella pittura abbiamo così un nuovo modo di definire lo spazio: non più tramite vibrazioni di luci, ma tramite il movimento reale della mano che costruisce l’immagine. E questa la si costruisce con gli elementi strutturali delle immagini: punti, linee, superfici. Ma le linee romaniche non sono più elementi di mediazione fra porzioni di superfici intensamente luminose, bensì elementi di contenimento di forze che agiscono nello spazio e che ne determinano la forma; spazio fatto di azioni più che di metriche astratte, eroico più che mistico.
La pittura romanica sembra molto più sensibile all’iconismo immanente delle correnti bizantine provinciali piuttosto che a quello trascendente della corrente aulica. Le prime raffigurazioni inquadrabili in un ambito culturale borghese sembrano infatti giocare sulla bivalenza simbolica e espressiva, aggiungendo al richiamo allusivo naturalistico quello etico del lavoro dell’uomo.
Nel periodo romanico persiste la moda degli artisti girovaghi. Alcuni di essi lasciano opere in cui è possibile ravvisare i segni di un mutamento di stile in linea con quello dei tempi. In alcuni personaggi affrescati nel 1007, probabilmente da un maestro siriano, nella chiesa di San Vincenzo a Galliano, presso Como, quale il profeta Geremia, si percepisce netta la sensazione di uno spazio concepito come luogo di forze che scuotono un’unica sostanza, il colore, il quale a sua volta rimanda, con la diversità dei suoi toni, a densità diverse di materia. Questo contrasto si fa meno evidente negli affreschi che decorano la facciata della basilica inferiore di San Clemente a Roma, opera realizzata sul finire dell’XI e l’inizio del XII secolo da un maestro anonimo, molto raffinato e colto, greco probabilmente, ispirata alle pagine miniate. In questo affresco le figure sono porzioni di piano ritagliate da una linea fluida e continua, fatte della stessa sostanza di cui è fatto il vuoto, disposte secondo l’ordine narrativo della vicenda storica, senza accelerazioni nel ritmo del racconto, né accentuazioni drammatiche, ma riportano, come in una miniatura gigantesca, la vicenda di sant’Alessio.

Capua, Caserta, basilica di Sant’Angelo in Formis
CRISTO E L’ADULTERA (dopo il 1072)
Affresco

Per capire più approfonditamente in che modo si trovano espressi in pittura i principali valori del pensiero artistico romanico c’è un luogo straordinario a cui far visita, una di quelle rare testimonianze della rinascita romanica in cui architettura e pittura sono rimaste insieme, sul posto.
Si tratta di Sant’Angelo in Formis, chiesetta che si trova vicino Capua, in cui si è conservato in buone condizioni il più completo ciclo pittorico medievale prima del Gotico (si parla dell’XI secolo). In esso viene sperimentato per la prima volta uno schema distributivo iconografico che rimarrà immutato per secoli. Sulle pareti della navata centrale sono accolte le storie dell’Antico e del Nuovo Testamento; su quelle della parete absidale Cristo fra angeli e personaggi storici (fra cui l’abate Desiderio, committente della costruzione); sulla controfacciata il giudizio finale.
L’entusiasmo per l’eccezionalità del reperto è ridimensionato però dal fatto che c’è molta incertezza sulla datazione degli affreschi. È certo che i lavori di costruzione siano stati intrapresi nel 1072, sedici anni prima della ristrutturazione della prima basilica romanica, Sant’Ambrogio, e terminati nel 1087, un anno avanti, ma non si sa se a quella data il ciclo fosse completo. Questa dilazione dei tempi di esecuzione spiegherebbe l’abisso esistente fra alcune immagine ed altre all’interno dello stesso ciclo. Tale diversità si spiega anche con la presenza in situ di maestranze provenienti dall’Oriente accanto ad altre formatesi sul posto. Infatti ci è noto attraverso Leone Ostiense (1046-1115 circa) come Desiderio (1058-1086), abate dell’abbazia di Montecassino, lamentandosi della decadenza delle arti in Italia, inviò dei legati a ingaggiare maestri orientali per risollevare le sorti della cultura figurativa peninsulare.
Per molti versi questo ciclo di affreschi può essere ricondotto ad esperienze di tipo bizantino siriache, ma non mancano al suo interno novità degne di attenzione. Fra gli aspetti più interessanti di questi dipinti c’è senz’altro quello che riguarda l’interpretazione della trascendenza divina e in modo particolare quello che concerne il rapporto fra luce e materia.
Fermo restando l’obiettivo precipuo della raffigurazione di alludere al mondo celeste, qui la luce trasmutatrice sembra luce naturale, proveniente dall’esterno, non già albore spirituale emesso dai corpi stessi. Eppure i personaggi sembrano rilucere di energia propria, come se fossero loro stessi luminosi. Il lume divino, qui lume naturale, penetra nei corpi diafani dei personaggi, li inonda, ne riempie i volumi vuoti, fatti della stessa sostanza impalpabile e trasparente di cui sono fatti cielo, nimbi, terra, cioè l’universo intero, come se la totalità delle cose fosse fatta di cristallo.
Altro aspetto notevole è che sebbene natura e vicende umane vengano sempre considerate segni di Dio, il simbolo non allude più soltanto alla presenza di una realtà ultraterrena, distinta dal mondo dell’esperienza umana, ma fa riferimento anche ad una realtà naturale e umana con cui quella divina entra in stretta relazione. Il suo valore espressivo non sta più nelle qualità dissimulanti della materia, ma nella destrezza tecnica del pittore, capace di evocare immagini trascendentali attraverso l’utilizzo dei materiali più umili.
Nell’episodio raffigurato nel terzo riquadro della prima fascia della parete destra della navata centrale, quello con Cristo e l’adultera, la prima cosa che salta agli occhi è il senso di profondità tattile provocato dalla presenza dello sfondo azzurro dietro le due figure principali. La sensazione è evocata dalla comune esperienza visiva per cui il cielo naturale sembra stare sempre dietro tutte le altre cose, molto lontano, sullo sfondo. L’accenno di chiaroscuro sulle gote della peccatrice e le pieghe avvolgenti del panneggio rimandano alla solidità del corpo umano di contro al fondo piatto, azzurro, che rimanda alla incorporeità dell’aria. La seconda cosa sono le linee di contorno, le quali ancorché imprimere alle figure il senso del moto, sembrano iniettarle una intensa energia vitale. Queste stesse linee vengono utilizzate per far sentire l’anatomia al di sotto delle vesti, cosa quanto mai straordinaria per l’epoca, come d’altro canto l’espressione trepidante che trapela dal volto dell’adultera.

Ferentillo, Terni, San Pietro in Valle
ADAMO NOMINA GLI ANIMALI
o ADAMO NEL PERADISO TERRESTRE (XII sec.)
Particolare di decorazione pittorica
Affresco

Per vedere ulteriori elementi attraverso cui si configurano i principali valori della pittura romanica nel corso del XII secolo, occorre spostarsi dalla Campania all’Umbria e far visita alla chiesa abbaziale di San Pietro in Valle. Qui esamineremo due riquadri estratti dal ciclo di affreschi eseguiti all’interno da maestranze ignote: il quarto del primo registro, raffigurante Adamo che da il nome agli animali, e il terzo del secondo registro, che ha per soggetto l’avviso a Noè, entrambi collocati sulla parete sinistra dell’unica navata del santuario.
Sugli affreschi si sa poco. Non si sa con certezza chi li abbia eseguiti, né il periodo preciso della loro stesura. Stando all’alta qualità dell’opera si pensa a maestranze umbre operanti nell’Italia centrale, così come dalle analogie iconografiche e stilistiche con il ciclo di affreschi che si trova nella chiesa di San Giovanni a porta Latina, datato 1191, si pensa ad una collocazione cronologica prossima agli ultimissimi decenni del XII secolo. Questo è quanto ci dicono i testi. Qualcosa di più si sa invece sull’edifico abbaziale che li ospita.
L’abbazia benedettina di San Pietro in Valle sorge su un pianoro che si trova a 360 mt. di quota, alle falde del Monte Solenne, un bastione calcareo di 1.286 mt., svettante sulla valle del Nera, a circa 25 km. da Terni. Il monastero non dista molto da Ferentillo, un piccolo paese ricordato soprattutto per le sue mummie, oggi custodite nella chiesa di Santo Stefano.
La chiesa abbaziale è composta da un’unica navata priva di colonnato, larga mt. 8 e profonda mt. 34. Le decorazioni del XII secolo si dislocano sulle due pareti secondo tre registri, suddivisi orizzontalmente e verticalmente da finte intelaiature architettoniche raffigurate in prospettiva, in modo tale che guardandole si ha la sensazione che sporgano all’infuori. Scopo: movimentare plasticamente e ampliare artificiosamente lo spazio reale della navata. Il finto telaio marmoreo inquadra una serie di quinte sceniche che fanno da sfondo ai protagonisti delle vicende testamentarie, vecchie e nuove, oggetto tematico del ciclo pittorico. Sulla parete di sinistra, procedendo dall’ingresso verso l’altare, si susseguono, su tre registri sovrapposti, gli episodi del Vecchio Testamento; sulla parete di destra, seguendo lo stesso ordine, ci sono raffigurate storie del Nuovo Testamento.
Dall’analisi stilistica dei due brani emerge che uno dei fini precipui prefissati dall’ignoto autore o autori è quello di comunicare in un modo più intuitivo la trascendenza catartica dell’immagine iconica del Creato. Questo modo pur tenendo fede ai principi linguistici bizantini non si limita a raffinarne l’aspetto stilistico ma procede oltre, va verso il nuovo, l’originale, verso il superamento del passato, senza però ignorare il lavoro delle generazioni precedenti.
L’obiettivo si esplicita con l’esclusione dalle immagini di ogni residuo bizantinismo; le figure riflettono un modo di vedere più consono all’esperienza visiva, esperienza controllata dalla ragione per cui ogni singola figura occupa una porzione di spazio che non può essere occupata contemporaneamente da nessun‘altra congenere, come avveniva invece negli esemplari aulici. Nel primo brano preso in esame, Adamo poggia in modo evidente su un rialzo del terreno da dove sgorgano rivoli d’acqua (i quattro fiumi paradisiaci), la cui presenza al centro della composizione potrebbe voler alludere alla montagna come sorgente di vita. Nel secondo brano, Noè, còlto nell’atto di slanciarsi verso Dio (qui rappresentato con un braccio proteso in segno di comando), tiene i piedi saldamente ancorati a terra. Questa si presenta come un piano inclinato che si unisce sul davanti al piano della parete e sul retro ad una quinta arborea, in modo da creare il senso di un vuoto prospettico, come se l’intera scena si svolgesse all’interno di una scatola aperta, poggiata su un fianco. A rafforzare la sensazione di vuoto praticabile contribuisce in modo alquanto notevole la figura di Noè stesso, il quale si presenta come un corpo ben definito nella sua struttura tridimensionale. Nel riquadro con Adamo il paradiso terrestre è un mondo molto più vicino a quello naturale e umano. Ogni singola figura sembra animata dal fremito della vita e tutti partecipano all’azione principale che si sta svolgendo e che vede protagonista il primo uomo. Tutto è movimento, nulla è stasi.
Per quanto concerne la configurazione della sublimazione della corporeità fisica in modulazione di toni di luce occorre tornare sulla figura di Noè. Questa si esplica nel passaggio dalla opacità cromatica dei corpi materiali alla trasparenza tonale della forma. La realizzazione in chiave chiaroscurale cromatica della figura del patriarca non rende affatto l’immagine pittorica piatta, ma fa venire in mente più che altro un volume di cristallo pervaso di luce; una luce misteriosa, divina ma dalle caratteristiche naturali, proveniente dall’esterno della rappresentazione, dallo spazio reale della navata: il trascendente si dichiara dunque nei termini di traduzione del sensibile in concetto.
Sempre a Noè occorre guardare per avere un’idea di come si ottiene figurativamente la trasformazione dell’inerzia degli elementi strutturali in movimento. Le linee di contenimento delle superfici si assottigliano: ora spetta al dosaggio chiaroscurale il compito di distinguere le figure dallo spazio, le figure tra loro, nonché le singole parti di cui sono composte. Ma non basta. Alle linee è demandato il compito di rendere evidente il movimento e questo si esprime trasformando le linee da cornici descrittive di forme in vettori. Il terzo elemento, la trasformazione della materia in spazio reale, si configura come vuoto intelligibile fra una figura e l’altra.
Passando al discorso delle tensioni, esse scaturiscono dall’azione dinamica delle linee di contorno originata dalle necessità narrative: massima nello slancio di Noè, minima in Adamo. Passando infine al valore della progressività, è alquanto evidente la volontà espressa dagli autori di riappropriarsi del senso concreto del movimento e dello spazio proprio dell’arte tardo-romana. La tecnica costruttiva si definisce nel passaggio dal colore piatto delle tinte stese sulla parete, agli effetti tonali attraverso cui si definisce la forma delle cose in rapporto allo spazio.
Dal punto di vista stilistico questi affreschi sono da mettersi in rapporto con la cultura romana e la miniaturistica. Il loro aspetto più sorprendente è senz’altro la forza plastica delle figure, nonché l’intelaiatura prospettica in finte edicole fregiate con cui si è reso unitario l’insieme. Questa invenzione, tratta dai sarcofagi tardo-romani, compreso il senso di tattilità dello spazio figurativo, ci danno l’esatta misura di quanto fosse forte l’influenza della cultura greco-romana nelle regioni del centro Italia.
L’opera è coeva ai lavori dell’Antelami per il duomo di Parma, ai crocifissi lignei di Sarzana, di Maestro Guglielmo, e di Santa Chiara d’ignoto autore ma famoso perché si vuole abbia parlato a San Francesco. Il ciclo è coevo alla Torre di Pisa, alla porta di San Ranieri della cattedrale di Buscheto e al portale della cattedrale di Monreale, ed è altresì coevo alla decorazione musiva di San Marco e della cattedrale di Torcello, nonché della deposizione che si trova nella cripta della cattedrale di Aquileia, presso Udine. Di qui deve essere passato sicuramente Giotto.

L’ARTE FIGURATIVA IN SICILIA

Cefalù, Palermo, duomo
CRISTO PANTOCRATOR (1148)

Nella Sicilia di Ruggero II e Guglielmo I (1154-1166) domina incontrastato il mosaico. Nella calotta dell’abside del duomo di Cefalù giganteggia il Cristo Pantocrator (governatore del mondo) in atto di benedire. Sotto di lui, in una doppia fascia sovrapposta campeggia la Vergine Maria fra i quattro arcangeli e un gruppo di sei santi. Si tratta di icone, immagini ieratiche, frontali, isolate, allineate e stagliate su un fondo d’oro, come nella più ortodossa tradizione aulica.
Nell’epoca successiva con i due Guglielmi alla fredda presentazione di immagini statiche e fuori del tempo fisico si preferisce la rappresentazione di vicende bibliche.
I mosaici del duomo di Monreale sono sorprendentemente simili a quelli che decorano la basilica di San Marco. Non è solo una coincidenza di date (sono infatti entrambi del XII secolo) né forse una convergenza evolutiva. È probabile che maestri veneti siano stati preferiti a maestri bizantini, e non certo per una questione di bandiera, ma perché anche la Sicilia ormai stava entrando nell’orbita della cultura occidentale.


Bibliografia arte medievale

Italo Faldi, Tuscania, Bonechi edizioni «Il turismo» Firenze, 1982

Giulio Carlo Argan, Storia dell’arte italiana 1, Sansoni per la scuola, 1988

Autori vari, Storia universale dell’arte – il Basso Medioevo – Il Romanico il Gotico, Istituto Geografico de Agostini, 1990

Piero Adorno, L’arte italiana – volume primo – tomo secondo – Dall’Alto Medioevo al Gotico, Casa editrice G. D’Anna, Nuova edizione 1992

Pierluigi De Vecchi, Elda Cerchiari, Arte nel tempo – Dalla Preistoria al Medioevo, Bompiani/per le scuole superiori, ristampa 1995

Cerchiai, Di Benedetto, Gatto, Mainardis, Manodori, Matera, Rendina, Zaccaria, STORIA DI ROMA dalla fondazione all’inizio del terzo millennio, Newton & Compton Editori, 1998

Francesco Saverio Paradiso, Sant’Angelo in Formis – il tempio di Diana – la basilica, 1998

Arnold Hauser, Storia sociale dell’arte – Volume primo – Preistoria Antichità Medioevo, Giulio Einaudi editore, 2001

Rossana Bossaglia, Storia dell’arte – dall’Antichità al Gotico Internazionale, Casa editrice Principato S.p.a., 2003

Bruno Schettino, Francesco Duonnolo, La via del Golgota, quaderni dell’Istituto Superiore Scienze Religiose S. Roberto Bellarmino – Capua, 2006

Giorgio Vasari, Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue, insino a’ tempi nostri – Nell’edizione per i tipi di Lorenzo Torrentino, Firenze 1550 – Volume primo, Casa editrice Einaudi, 2006

Carlo Maria Livoni, L’abbazia di S. Pietro in Valle in Valnerina, Carlo Maria Livoni Editore

Loretta Santini, Cinzia Valigi, Spoleto Arte e Storia, Casa editrice Perseus – collana plurigraf