LE ORIGINI DELL’ARCHITETTURA GOTICA
ARCHITETTURA GOTICA
IL GOTICO CISTERCENSE IN ITALIA
COME SI SPIEGA LA TENDENZA ITALIANA
L’ARCHITETTURA GOTICA ITALIANA
PITTURA GOTICA ITALIANA: ANALISI DEL CICLO PITTORICO DELLA BASILICA DI SAN FRANCESCO D’ASSISI
L’ESORDIO DI GIOTTO NEGLI AFFRESCHI DELLA BASILICA SUPERIORE DI ASSISI
IL SOGGETTO DEI PRIMI AFFRESCHI DI GIOTTO NELLA BASILICA SUPERIORE DI ASSISI
ANALISI STILISTICA DELL’AFFRESCO RAFFIGURANTE ISACCO CHE RESPINGE ESAÙ
GLI AFFRESCHI CON LE STORIE DI SAN FRANCESCO
LA LEGENDA MAIOR
GLI AFFRESCHI GIOTTESCHI NELLA BASILICA SUPERIORE D’ASSISI
SVILUPPO DELLA PITTURA DURANTE IL XIII SECOLO
LA RIFORMA DI CIMABUE
ANALISI COMPARATA TRA IL CROCIFISSO DI SAN DOMENICO D’AREZZO DI CIMABUE E IL CROCIFISSO DI SAN DOMENICO DI BOLOGNA DI GIUNTA PISANO
ALTRI ARTISTI FUORI FIRENZE: DUCCIO DI BUONINSEGNA
ARTISTI ROMANI ALL’EPOCA DI GIOTTO
MATURITÀ E ULTIME OPERE DI GIOTTO


LE ORIGINI DELL’ARCHITETTURA GOTICA

Parigi, Saint Denis
CORO DELLA CHIESA ABBAZIALE (1140/1144)

Il Gotico non è un nuovo linguaggio che va a sostituirne un altro, il Romanico, caduto in disuso, è il naturale sviluppo dell’arte borghese, dal periodo comunale al periodo delle Signorie e degli Stati Nazionali. Il linguaggio gotico dà il meglio di sé in architettura. Il suo esordio ufficiale risale al 1140 (dunque in pieno periodo romanico) ed avviene in occasione della costruzione del coro della chiesa di Saint Denis, chiesa fondata nell’Ile de France presso l’antica Lutetia (Lutèce, ovvero Parigi), oggi inglobata nel tessuto urbano della città. Lasciamo dunque per un’attimo l’Italia e a bordo della Nuova Argo facciamo rotta per Parigi. Promotore del nuovo stile è il potente abate Suger (1081-1151), consigliere, nonché reggente del trono di Francia in assenza del re di turno Luigi VII (1137-1180), impegnato nella crociata del 1147/1149. Benché il 1140 sia la sua data di nascita ufficiale in realtà il Gotico aveva fatto già la sua apparizione come sistema strutturale sperimentale in varie costruzioni quali la cattedrale di Sens e, soprattutto, nei numerosissimi complessi abbaziali che stavano sorgendo in ogni parte della Francia per opera dei monaci benedettini, parte dei quali divenuti cistercensi con Roberto di Champagne (1028-1111).

ARCHITETTURA GOTICA

Reims, Francia, cattedrale
FACCIATA (1254 c.)

Amiens, Francia, cattedrale
PIANTA ED ELEMENTI STRUTTURALI (iniziata nel 1220)

L’architettura gotica rappresenta lo sviluppo delle soluzioni tecniche sperimentate nell’architettura romanica. Lo scopo è sempre lo stesso: esprimere la trascendenza, l’elevazione spirituale liberando oggettivamente la sostanza spirituale, lo spazio, dalla materia per mezzo della tecnica, trasformando le forze statiche in forze dinamiche. Più della romanica, la tecnica gotica è ardita e riesce a creare spazi immensi impiegando il minimo del materiale. Per suscitare la sensazione di elevazione verso Dio si aumenta l’altezza delle navate e se ne diminuisce la larghezza. Per dare più slancio al soffitto si utilizza l’ogiva, o arco a sesto acuto (un arco con due centri coassiali), inoltre si riduce il rapporto proporzionale fra campate maggiori e campate minori da 1:4 a 1:2 e si aumenta la lunghezza della chiesa, creando così un più serrato contatto percettivo fra gli svolgimenti lineari dei sostegni verticali e orizzontali. Tali soluzioni portano l’osservatore a perdersi fra l’addensamento dei pilastri cruciformi e delle volte, sempre più fitto man mano che lo sguardo procede verso il fondo. L’effetto di smarrimento aumenta con l’aumentare della lunghezza della chiesa e il numero di lobi dei pilastri: per questo motivo, nelle campate gotiche, i pilastri cruciformi si trasformano in pilastri polistili. Questi sostegni non sono altro che pilastri cruciformi arricchiti di fasci, nervature, lobi, perciò vengono detti anche pilastri polilobati o polilobi. Il pilastro polistilo dal punto di vista statico non rappresenta niente di nuovo rispetto al pilastro cruciforme; più che altro si qualifica come soluzione prevalentemente stilistica di una necessità prevalentemente espressiva. Infatti i fasci di cui si arricchisce il pilastro polistilo tendono a risolvere sul piano degli effetti la reale pesantezza architettonica di questo elemento strutturale di sostegno. Le crociere, altro elemento fondamentale nella nomenclatura medievale, rimangono del tutto simili a quelle romaniche, solo che non si mantengono a tutto sesto ma diventano a sesto acuto e al posto dei sei archi semicircolari vengono a determinarsi sei ogive.
Tutti gli elementi tipici dell’architettura romanica tendono a complicarsi dunque, col risultato finale di un maggior senso di diffusa spazialità, una maggiore assenza di peso.
Una delle cattedrali più spettacolari del gotico francese è la cattedrale di Reims, sulla cui facciata domina il rosone, un grosso finestrone a forma circolare che, almeno nelle forme primitive, ricorda la forma della rosa di macchia. Con l’aumentare dei pilastri diminuisce la funzione di sostegno del muro, per cui si rende sempre meno problematico aprire finestre sulle pareti portanti senza diminuire la resistenza dei divisori. Con l’aumentare delle finestre aumenta la quantità di luce che penetra all’interno della chiesa, ma diminuiscono drasticamente gli spazi riservati agli affreschi. Non potendo rinunciare al ruolo dottrinale delle raffigurazioni si sostituiscono le pareti istoriate ad affresco con le vetrate, ovvero immensi finestroni a vetri colorati. Un altro problema legato all’assottigliamento delle pareti portanti è la stabilità dei muri esterni che con l’aumentare dell’altezza degli edifici si trovano a dover affrontare dei gravosi problemi di autosostegno. Questi vengono risolti con i contrafforti, setti di muro inseriti nella struttura il cui fine consiste nel contrastare la spinta verso l’esterno della massa muraria perimetrale. Successivamente, con l’eccessivo sviluppo verso l’alto delle chiese, per equilibrare l’enorme peso delle mura esterne si inventa l’arco rampante, un arco a doppio centro e a doppio asse.

IL GOTICO CISTERCENSE IN ITALIA

Fossanova, Lazio, abbazia
PIANTA DEL COMPLESSO ABBAZIALE (1163/1206)

Visitati i capolavori francesi facciamo ritorno in Italia. Nella penisola il Gotico compare per la prima volta nell’abbazia di Fossanova, la prima abbazia cistercense costruita sul territorio peninsulare. Il Gotico cistercense si distingue da quello dell’Ile de France per il suo carattere razionale che lo rende molto meno coinvolgente dal punto di vista emotivo, ma molto più da quello contemplativo. In esso non si vuole suscitare il senso di trascendenza spirituale, il sentimento di elevazione verso Dio ricorrendo ad espedienti che procurino smarrimento e perdita di controllo, ma si punta allo stesso obiettivo ricorrendo a soluzioni che suscitino piacere intellettuale. Per questo motivo nell’architettura cistercense si abbrevia la lunghezza delle chiese, si riduce l’altezza, s’interrompe la continuità della facciata unica con l’inserimento di cornici trasversali, si riducono al minimo i lobi delle strutture portanti. Tali accorgimenti danno come risultato percettivo un diradamento della maglia strutturale delle campate, dunque una maggiore leggibilità dello spazio; l’occhio dell’osservatore non si perde nella miriade di linee che si dipartono dalle strutture di sostegno verticali, ma segue lo svolgersi degli andamenti lineari senza confondersi. È un fatto della massima importanza: l’infinito si esprime in termini finiti, dunque è misurabile. Non è il preludio al Rinascimento, ma il Rinascimento non si potrebbe spiegare in un ambito storico diverso.

COME SI SPIEGA LA TENDENZA ITALIANA

La tendenza italiana si spiega con la particolare situazione storica della penisola. Siamo all’epoca delle grandi lotte fra impero e comuni per la sovranità territoriale, il linguaggio artistico borghese, cioè il volgare figurativo, ha raggiunto ormai la sua piena maturità: il che significa esser pronto a sostituire le vecchie strutture, quelle del linguaggio bizantino, con nuove strutture, quelle del linguaggio dei borghi. Il battesimo del volgare a linguaggio artistico richiede però la consapevolezza delle radici storiche della tradizione figurativa. Per gli artisti dell’epoca si apre così il problema della ricerca delle antiche fondamenta del linguaggio figurativo borghese. Tutti i fronti dell’avanguardia artistica sono impegnati nella definizione del volto del linguaggio moderno, o gotico. La ricerca di queste radici avviene in tempi diversi nei vari settori delle arti visive maggiori. Alla metà del XIII secolo, in architettura e scultura l’arte bizantina si avvia ad essere solo più un ricordo; non così, però, in pittura.
In scultura si deve decidere fra ascendenza latina classica e volgare anticlassico; in pittura un linguaggio moderno ancora non si è formato, resiste l’impostazione bizantina. Bisognerà aspettare Giotto (1266 c. – 1337) e Simone Martini (1284 c. – 1344) perché anche in questa disciplina compaia un linguaggio moderno. Alla metà del XIII secolo il problema è quello fra struttura plastica o cromatica (latina o greca) del linguaggio bizantino. Mentre l’architettura si trova a dover scegliere fra progresso tecnologico finalizzato all’espressione dell’irrazionale, come è nella tendenza europea, e progresso tecnologico finalizzato all’espressione del razionale, come si vuole nella tendenza cistercense.

L’ARCHITETTURA GOTICA ITALIANA

Espressione diretta della vita monastica è l’abbazia. Con il termine abbazia si indica un complesso cenobitico costituito da una serie di edifici organizzati razionalmente intorno ad un cortile porticato detto chiostro. I vari ambienti si dispongono in sequenza secondo un ordine funzionale allo svolgimento della vita di relazione all’interno del convento. Il chiostro discende direttamente dal quadriportico delle basiliche paleocristiane e come tale è costituito da una corte quadrata circondata da quattro portici, perfettamente orientata in direzione dei quattro punti cardinali, al centro della quale si trova un pozzo. In corrispondenza dei suoi lati si dispongono nell’ordine: a nord la chiesa, a sud un complesso di ambienti con al centro il refettorio, la sala da pranzo collettiva, a ovest il dispensario (il magazzino) e a est la sala capitolare, al piano terra, e il dormitorio, al piano superiore. La sala capitolare è il luogo dove si riunisce l’intera comunità monastica insieme all’abate per svolgere una serie di mansioni fondamentali per la vita del convento quali: prendere decisioni importanti, discutere questioni amministrative, partecipare al capitolo delle colpe, dare lettura ad un capitolo delle regole di san Benedetto. Il nome le deriva molto probabilmente dal fatto che al suo interno si svolgeva il cosiddetto capitolo delle colpe, pratica consistente nel prender atto, a turno, di fronte ai “fratelli”, delle proprie infrazioni alle regole monastiche. Per quanto concerne il ricovero notturno dei frati è singolare il fatto che in molti casi risulta collegato direttamente alla chiesa per mezzo di uno scalone, il quale si presenta come un grosso volume gradonato che si fa avanti dalla parete di fondo del braccio destro del transetto.
In mezzo a questi ambienti più grandi, si trovano altri spazi più contenuti. A destra del refettorio c’è la cucina, con il gigantesco camino che occupa un’intera parete, a sinistra c’è il calefactorium, sala utilizzata dai monaci per riscaldarsi durante le giornate invernali. Ai lati della sala capitolare si trova, a destra, un corridoio per i contatti con l’esterno, a sinistra, la sagrestia. In alcuni casi, si riscontra il locutorium, un locale destinato al ricevimento delle persone esterne al convento, di solito parenti. Infine, sempre ad ovest, si trova la foresteria e, qualche volta, il magazzino dei conversi, cioè di tutte quelle persone, solitamente artigiani e contadini delle zone limitrofe, che si sono trovati ad avviare relazioni economico–commerciali con i monaci senza essere obbligati a vestire l’abito monacale. Nelle abbazie più organizzate, oltre agli ambienti descritti, figurano anche officine, forni e cappelle destinate ai pellegrini.
Curiosità: i bagni, o meglio le latrine, si trovavano distaccati dal resto degli edifici, solitamente a ridosso delle mura di cinta dello spazio abbaziale, a nord della portineria. Osservazione: per recarcisi d’inverno doveva essere un vero e proprio castigo espiatorio.

Fossanova, Lazio, abbazia
CHIESA ABBAZIALE (1163/1206)

La prima chiesa gotica italiana è quella dell’abbazia di Fossanova, consacrata da Innocenzo III (1198-1216) nel 1208, ma iniziata nel 1163. In essa la visione monastica della vita spirituale ha la sua massima espressione. Punti nodali di questa visione sono il lavoro e la preghiera (non bisogna dimenticare che i cistercensi evolvono dai benedettini), e il lavoro, come la vita d’altro canto, è condotto alla luce dei principi di semplicità e razionalità: infatti l’abbazia è un organismo strutturato in modo semplice e razionale, dove si vive e si lavora in umiltà e preghiera. I criteri estetici instaurati dalla severa disciplina dell’ordine sono l’esatto opposto di quelli seguiti dal clero cattolico: niente decorazioni e complicazioni strutturali, riduzione del verticalismo col contenimento delle altezze e l’ampliamento delle larghezze per rendere più “quadrate” le proporzioni generali.
La pianta è a croce latina, suddivisa in tre navate. Ogni navata è divisa in campate, secondo un rapporto di 1:2, cioè le campate della navata centrale del braccio principale sono grandi il doppio di quelle delle navate laterali. Le proporzioni cambiano quando si giunge al centro dell’area del transetto e nel presbiterio. Infatti qui le maglie rettangolari delle campate del braccio principale si allargano ed ogni campata dell’area transetto/presbiterio contiene fino a quattro campate minori; nei due bracci del transetto invece le campate rettangolari ruotano di 90 gradi e si dispongono trasversalmente rispetto alle altre. Ogni campata è coperta da una crociera ogivale a lieve sesto acuto; l’abside della chiesa non è costituita dal tradizionale catino absidale, ma fa tutto uno spazio con il presbiterio. I pilastri sono polistili, ma presentano una struttura semplificata al massimo, con gli archi trasversali che poggiano su un capitello pensile a forma di cono rovescio. La sezione del pilastro tende a riaccostarsi alla forma cruciforme della tradizione romanica; c’è di nuovo una sola aggiunta, che riguarda il lobo in più d’imposta alla sovrarcata ogivale, inserita per snellire quella di separazione fra la nave maggiore e la minore.
La facciata si presenta semplice e articolata in tre zone sovrapposte o tre ordini. Il primo doveva essere occupato da un portico, per lo meno da quel che è dato capire dai segni lasciati sui muri. Il portale principale, costituito da una strombatura ogivale a tre archi digradanti, è ricavato nello spessore di un corpo sporgente, una specie di protiro, che si conclude con un timpano classico. Il secondo ordine è interamente occupato dal grande rosone, probabilmente costruito in un secondo tempo per sostituire il precedente, molto più semplice, a sei lobi, in tutto simile a quello che si trova tutt’ora nella chiesa dell’abbazia di Casamari. Il terzo ordine è costituito da un frontone di tipo classico, con tanto di timpano e cornici, al centro del quale si trova un oculo ottagonale. A contenimento dello sviluppo orizzontale della parete frontale della navata maggiore, ma anche a conclusione e raccordo dei contrafforti posti sulle pareti laterali, ai lati della facciata si ergono due speroni murari. Infine al centro dell’incrocio fra i due corpi ortogonali della navata maggiore e del transetto si innalza il tiburio ottagono, con la base rinforzata da contrafforti, cosa questa che da alla struttura un aspetto assai caratteristico.

Assisi, basilica superiore di San Francesco
INTERNO (1228/1253)

In Italia non sono solo i cistercensi ad adottare il nuovo linguaggio gotico, lo fanno anche i francescani, ma il gotico francescano è alquanto diverso da quello cistercense. L’occasione per costruire in stile gotico viene offerta loro dalla decisione di fondare una chiesa sul luogo prescelto da san Francesco per la sua sepoltura.
Ci sono luoghi in cui la storia dell’arte è passata una sola volta, ma in quell’unica volta che è passata ha lasciato un segno indelebile. Assisi è uno di questi luoghi. Ad Assisi, alla fine del XIII secolo, si opera il passaggio dalle forme del linguaggio orientale a quelle del linguaggio occidentale. L’artista che compie questo passaggio è Giotto; con lui nasce la storia dell’arte del mondo occidentale moderno.
Anche in questo caso ad invitare l’arte a passare in un posto piuttosto che in un altro è la storia. È la sera del 3 ottobre 1226, un sabato, in un ricovero posto accanto alla Porziuncola, una cappellina campestre, vecchia di circa 200 anni, muore, corroso da un cancro alle ossa e ormai cieco, nudo sulla nuda terra, san Francesco. Al momento del decesso Francesco ha 44 anni (o 45). La malattia lo aveva già colpito da qualche anno e a nulla erano valse le cure dei medici personali del papa. In un primo momento il suo corpo trova sepoltura nel piccolo oratorio di San Giorgio, scomparso poco dopo per far posto alla chiesa di Santa Chiara, quindi il 25 maggio del 1230 viene trasferito per la tumulazione definitiva nella cripta della basilica, eretta appositamente per ospitare le sue spoglie. Oggi san Francesco è ancora nella basilica a lui dedicata, in un pozzo di cemento, abbracciato da una robusta maglia di ferro, circondato dai suoi quattro fedelissimi fratelli: Rufino, che lo raggiunge per primo, nel 1249, Angelo, che lo segue nel 1258, Leone, morto nel 1271, e Masseo arrivato per ultimo, nel 1280.
Passati appena due anni dalla morte del “poverello”, a tempo di record si decide di farlo santo e dargli degna sepoltura nella cripta di una basilica che fosse all’altezza del suo carisma. Il gran maestro, il coordinatore della fantastica impresa, il tessitore della trama creativa è un frate, frate Elia Bombarone (1180-1253), ministro generale dell’Ordine dal 1232 al 1239. È lui a far pressione sul papa per la canonizzazione immediata di Francesco; è lui a contattare l’architetto, ancora anonimo, per far innalzare la basilica; è ancora lui a contattare i pittori per far realizzare i crocifissi e far decorare le pareti interne.
La basilica, come già detto, sorge nello stesso punto indicato da Francesco quale luogo della sua sepoltura, luogo dove i frati minori avevano costruito un oratorio per portar conforto ai condannati. Il 29 marzo 1228, frate Elia riceve dalle mani di un certo Simone di Pucciarello, inviato di Gregorio IX (1227-1241), un appezzamento di terra, a ponente della città. Qui egli si vede recapitare l’ordine di costruire la chiesa santuario dedicata a Francesco. La zona, costituita da un’ampia zolla di terra digradante, è conosciuta con il nome di “colle dell’inferno”, in quanto sul suo suolo si ergono “le forche deli malfattori”, lasciate di proposito bene in vista allo scopo di frenare qualsivoglia impulso alla malvivenza. La prima pietra della basilica viene benedetta e posata da papa Gregorio IX il 17 luglio 1228, il giorno dopo la canonizzazione del santo, avvenuta ad Assisi presso la tomba che aveva accolto le sue spoglie subito dopo la morte. Il 25 maggio del 1230 la basilica inferiore è terminata, dunque vi possono essere già trasferiti i resti mortali con le reliquie. Nel 1232 si decide di procedere alla costruzione della basilica Superiore; nel 1239 anche questa è realizzata nelle sue strutture essenziali, completa di campanile. Nel 1253 Innocenzo IV (1243-1254) la consacra; nel 1280 il complesso architettonico si può dire terminato.
L’accordo su queste date non è unanime. C’è chi sposta gli anni di edificazione della basilica Superiore fra il 1250 e il 1260, facendo rilevare che il 1239 coincide con la scomunica di Federico II (1211-1250) e con l’allontanamento di frate Elia dall’Ordine. Ma a parte questo il motivo per cui viene edificata una basilica così sontuosa non è certo per rispetto della volontà di san Francesco. Fosse stato per lui si sarebbe accontentato della nuda terra, o tutto al più, per fare un favore ai confratelli, si sarebbe accomodato volentieri per l’eternità nella sua amata Porziuncola. La basilica attuale è il risultato della risoluzione di un conflitto nato all’interno dei francescani confratelli suoi discepoli sul luogo dove far riposare le spoglie mortali di Francesco. Ci sono i conventuali che vogliono un santuario, ci sono gli spirituali che le vogliono lasciare alla Porziuncola, apparentemente una più che normale divergenza di pareri sul luogo più adatto per il suo riposo eterno. Ma la vera ragione del dissidio è un’altra; è sul modo di proseguire l’esperienza francescana. I primi vogliono costituirsi in Ordine con tanto di regole e strutture; i secondi non vogliono costituirsi in Ordine e non vogliono darsi regole fisse né strutture, ma vogliono seguire esclusivamente la propria vocazione come gli aveva insegnato Francesco. Tra i due contendenti ad avere la meglio sono i conventuali poiché costituendosi in Ordine sono più controllabili dalla curia papale, ma anche perché la proclamazione di Francesco a santo rende necessaria la costruzione di un luogo di accoglienza dei pellegrini.
Il progetto iniziale molto probabilmente è meno pretenzioso di quello che si traduce poi in manufatto concreto. La chiesa va ampliandosi man mano che la figura di Francesco cresce, fino a diventare un vero e proprio monumento nel momento dall’istante in cui ha iniziato ad attirare l’interesse di re e imperatori. Prima Federico II e poi i d’Angiò sono intervenuti nella strutturazione dell’intero complesso, con conseguenze per niente trascurabili sull’aspetto estetico definitivo.
Autore dell’architettura potrebbe essere stato lo stesso frate Elia Bombarone da Cortona, vicario di san Francesco, cioè colui che diede l’annuncio della morte del santo, ma la cosa non è certa. Il frate dovrebbe aver svolto solo il ruolo di promotore e responsabile amministrativo dei lavori di costruzione della basilica, mentre la parte tecnica dovrebbe essere stata svolta da un architetto ingaggiato per l’occasione.
L’intero complesso architettonico consta di due corpi principali: la basilica Inferiore e la basilica Superiore, che si succedono in altezza, l’uno facendo da fondamenta all’altro; entrambi si impostano sulla cripta. L’impianto risulta essere molto semplice e razionale, così come semplice e solare è stata la vita e la passione di san Francesco. La sovrapposizione degli spazi allude chiaramente all’opera di sostegno dato dal santo alla Chiesa.
La pianta della basilica Inferiore ricalca esattamente quella della basilica Superiore. È costituita da un endonartece d’ingresso, suddiviso in tre campate, a cui si accede attraverso il portale gemino (a due aperture uguali) sito sul lato sud. L’endonartece rappresenta, forse (la questione è molto controversa), la struttura più antica pensata per la basilica, subito sostituita da una costruzione ben più ampia. Il corpo basilicale inferiore è formato da quattro campate a crociera realizzate con arcature a tutto sesto. Le vele sono semplicemente dipinte di blu costellato d’oro a evocare il cielo notturno. Solo il soffitto della quarta campata (quinta se si conteggia anche quello dell’endonartece), al centro del transetto, è decorato da composizioni allegoriche. Ai lati di ogni comparto si aprono tutta una serie di cappelle, 13, fittamente affrescate, aggiunte fra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo, per volontà delle autorità laiche e religiose.
La basilica Superiore è costituita da un’unica navata, divisa in cinque campate gotiche formate da arcature ogivali. Delle cinque crociere solo la prima, la terza e la quinta sono decorate, le altre due riportano il cielo stellato; più in particolare, la terza è arricchita da imago clipeate. Il primo spicchio della prima crociera, il terzo spicchio della quarta e il primo della quinta sono rovinati al suolo durante il terremoto del 1997. Trasversalmente alla navata s’innesta il transetto a tre campate, su cui si affaccia la tribuna absidale a cinque lobi. La facciata è divisa in tre ordini: il primo accoglie il grande portale d’ingresso, il secondo il rosone e il terzo, triangolare, l’oculo cieco. Le pareti laterali sono caratterizzate dalla presenza di evidenti contrafforti semicircolari che ricordano nel loro aspetto esteriore dei mezzi silos rurali.

PITTURA GOTICA ITALIANA: ANALISI DEL CICLO PITTORICO DELLA BASILICA DI SAN FRANCESCO D’ASSISI

Assisi, basilica superiore di San Francesco
Cimabue
CROCIFISSIONE (1277/1280)
Affresco, altezza mt. 3,50 – larghezza mt. 6,90

La basilica francescana di Assisi è molto più che una semplice chiesa dedicata ad uno dei maggiori santi della storia, è il luogo dove a partire dalla seconda metà del Duecento si svolge una rassegna di stelle dell’arte, intervenute qui per cantare in immagini la gloria del frate poverello. In questo festival della pittura duecentesca fa il suo debutto il giovane talento che riporterà tutta l’attività figurativa del tempo alle radici classiche, ponendo le basi per la rinascita della cultura occidentale: Giotto. Assisi, dunque, il cui nome sembra derivare da ascesi, a indicare già dai tempi più remoti la sua vocazione naturale alla trascendenza, non è importante soltanto dal punto di vista storico religioso per aver dato i natali a san Francesco e per essere stata teatro della sua straordinaria vicenda umana e spirituale, ma anche per quanto riguarda la storia dell’arte, per essere stata sede del primo passo verso l’umanesimo.
L’occasione per farla assurgere a tempio storico della cultura gotica è rappresentata dalla decorazione delle pareti interne del complesso architettonico francescano. Questo avvenimento di portata eccezionale vede riuniti entro le stesse mura un gran numero di insigni talenti, fra i più rappresentativi della cultura d’avanguardia dell’epoca. Un simile fenomeno non può essere spiegato semplicemente con l’interessamento diretto della curia romana e di due monarchi. È stato sicuramente l’enorme fascino esercitato da san Francesco a stimolare la fantasia e a richiamare qui tutti quegli artisti per offrire il meglio di sé e dare vita alla prima grande stagione artistica del Gotico italiano.
Non si sa quando sia stato fissato l’imponente programma di decorazione pittorica dell’intero complesso assisiate. Certo è che la decisione di costruire la basilica Superiore ha dirottato le forze impegnate al momento verso la parte di sopra, tralasciando per un po’ quella di sotto.
Il ciclo di affreschi della basilica Superiore è diviso in tre registri: i primi due, in alto, rappresentano storie del vecchio testamento nella parete nord e del nuovo testamento nella parete sud, il ciclo più in basso raffigura storie del santo. Nella basilica Inferiore, ad ulteriori storie riguardanti sempre san Francesco, si vanno aggiungendo, nelle cappelle laterali, storie di altri santi.
Fra i primi, importanti maestri ad essere interpellati figura Giunta Pisano (1190-1260), a cui viene chiesto di eseguire uno, o forse tutta una serie di crocifissi, i quali, molto verosimilmente, dovevano pendere giù dal soffitto per adornare le singole campate dell’unica navata: è l’anno 1236 e la basilica Superiore è ancora in corso di costruzione. L’opera del maestro è andata perduta nel 1623, ma a darcene un’idea abbastanza vicina al vero c’è un altro crocifisso, dello stesso Giunta e dello stesso periodo, conservato nel Museo della basilica di Santa Maria degli Angeli, nonché il crocifisso su tavola conservato nel Museo-Tesoro della Basilica, opera di un suo allievo detto Maestro dei Crocifissi azzurri, per via della predilezione per il colore azzurro.
Verso il 1260 è invitato a lavorare per la basilica un non meglio identificato Maestro di san Francesco. Questo anonimo artista, di probabili origini umbre, è il primo ad affrescare storie della passione di Cristo e del santo, disponendole in parallelo. Il tema è svolto sulle pareti della navata della basilica Inferiore, collocando dalla parte sinistra alcuni episodi della vita di san Francesco e dalla parte destra quelli di Cristo. Il parallelismo sta ad indicare in modo chiaro e immediato l’analogia fra la vocazione di Francesco e gli ultimi momenti della vicenda terrena di Gesù. La sequenza degli episodi è bruscamente interrotta dall’apertura delle cappelle gotiche non previste dal progetto originale.
Le figure di questo maestro, presentano molti aspetti che le qualificano come appartenenti ancora all’area culturale bizantina, ma le loro movenze sono naturali e l’espressione dei volti è umana e diretta; non seguono i canoni della tradizione, tuttavia non si sottraggono nemmeno all’influenza della figurazione orientale.
Nel 1270 giungono appositamente da Francia e Germania i maestri vetrai per adornare di finestroni colorati le pareti della basilica Superiore: si tratta delle prime vetrate gotiche in Italia.
Intorno alla fine degli anni Settanta e all’inizio degli Ottanta viene chiamato ad Assisi per affrescare le pareti delle due basiliche, Cimabue (1240-1302), in rappresentanza della scuola fiorentina. Poco dopo vengono invitati altri maestri rappresentanti della scuola romana e della scuola senese. La cittadina francescana diviene così alla fine del Duecento e gli inizi del Trecento il teatro dove si svolge il confronto fra le più avanzate scuole italiane.
Ad Assisi Cimabue interviene personalmente nella realizzazione di una Madonna in Maestà, affrescata nell’ala destra del transetto della basilica Inferiore, poi nelle due crocifissioni, una nel braccio di sinistra del transetto della basilica Superiore e l’altra in quello di destra, nelle storie dell’apocalisse, sempre nel braccio sinistro, senonché negli atti degli apostoli in quello destro, nelle storie della vergine nell’abside, e, infine, nei quattro evangelisti nelle vele della crociera della campata centrale del transetto. All’epoca del suo intervento Cimabue è già un maestro maturo e affermato, noto per le sue indagini sui segreti del modo di dipingere degli antichi Greci. Ma le datazioni incerte e lo stato degli affreschi non permettono una valutazione esatta dello stadio evolutivo della sua ricerca durante il periodo assisiate. Certo è che specialmente nel san Francesco accanto alla Madonna in trono troviamo un artista molto più saturo di esperienze Pisanee che non nella drammaticissima Crocifissione, epica, ma ancora ipertesa nel contorcimento del corpo gigantesco del Gesù morente in croce. Fatto sta che Cimabue dimostra di essere un artista profondamente impegnato sul fronte del rinnovamento e dell’emancipazione della pittura italiana dalla cultura bizantina. Contrariamente ai suoi conterranei non si limita ad esasperare in senso passionale la struttura lineare delle icone bizantine, ma risale alle origini comuni a tutto il linguaggio della sua epoca, ovvero alla matrice classica. Curiosità: la tradizione vorrebbe che l’immagine del san Francesco della Maestà in trono, sia il ritratto del santo stesso, ottenuto dal maestro sulla base di una descrizione dettagliata della fisionomia del poverello fornitagli dal suo biografo: insomma un identikit in piena regola. Va con sé che la cosa non è per niente sicura; negli affreschi del transetto, a causa di un’alterazione chimica del nitrato d’argento contenuto nel bianco, tutte le parti lumeggiate si sono annerite, così come si sono modificati tutti i colori contenenti il bianco. Risultato? Un effetto particolare che richiama alla mente il negativo fotografico.

L’ESORDIO DI GIOTTO NEGLI AFFRESCHI DELLA BASILICA SUPERIORE DI ASSISI

Assisi, basilica superiore di San Francesco
SCHEMA DELLA DECORAZIONE PITTORICA DELLA NAVATA

Assisi, basilica superiore di San Francesco
ISACCO CHE RESPINGE ESAÙ (1290 c.)
Affresco, altezza mt. 3,00 – larghezza mt. 3,00 c
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Benché Cimabue è così importante per la definizione delle fonti storiche del linguaggio gotico la sua ricerca non ha seguito. Questo perché il problema non si può risolvere solo sul piano intellettuale, occorre trovare fonti più radicate nella realtà storica della società borghese. Il volgare deve rimanere un linguaggio popolare, ma non per questo rozzo e vernacolo. Bisogna sviluppare le sue potenzialità epiche più che nobilitarlo con il richiamo alle antiche radici ellenistiche. A trasformare il Gotico da linguaggio per pochi a linguaggio per tutti ci pensa il suo maggiore allievo, Giotto.
I primi lavori attribuiti a Giotto dagli esperti riguardano il primo affresco del registro superiore della parete destra della seconda campata della basilica Superiore, raffigurante un episodio tratto dalle storie di Isacco, nonché la decorazione a mosaico, delle vele della volta della prima campata, con i quattro dottori della Chiesa latina, Gregorio, Agostino, Ambrogio e Girolamo. Le date di realizzazione di questi lavori oscillano fra il 1290 e il 1292: Giotto all’epoca avrebbe dovuto avere un’età compresa fra i 23 e i 26 anni, un’età in cui i segni di una forte personalità come la sua si sarebbero già dovuti rendere evidenti. C’è anche un altro affresco, sempre nella basilica Superiore, il secondo del registro mediano, sulla parete sinistra (guardando verso l’altare) della prima campata, raffigurante il compianto sul corpo del Cristo morto, che la tradizione lo vuole suo da sempre, ma che solo oggi gli esperti gli riconoscono. L’esordio di Giotto rimane comunque avvolto nel mistero. Non c’è affatto unanimità di giudizio sia per quanto riguarda i riquadri a cui avrebbe lavorato, sia per quanto riguarda l’entità della portata del suo intervento. Una cosa però è certa, ed è che se Giotto ha iniziato a lavorare ad Assisi a 23-24 anni non era certo più al seguito di Cimabue come allievo, ma probabilmente era lì con la carica di aiuto, se non forse come sostituto.
Infatti la permanenza di Cimabue nella basilica di San Francesco si conclude nel 1282 (o 1285), quando è possibile che il maestro si sia recato a Roma portando con sé il giovane Giotto, allora quindicenne o sedicenne. Se così fosse, allora si spiegherebbero con un contatto diretto fra il giovane Giotto e Arnolfo di Cambio (1235 c. – 1310 c.), nonché fra lui e Pietro Cavallini (1240 c. -1330 c.), prima dell’incontro ad Assisi, avvenuto nel 1290, le fonti contestuali che hanno agito in modo indelebile sulla sua formazione. Ma c’è anche un’altra versione riguardo al periodo in questione.
Dopo il 1282 Cimabue, pur rimanendo il responsabile del ciclo decorativo della basilica Superiore, lascia nelle mani dei suoi allievi migliori (o sarebbe meglio dire discepoli) il prosieguo dei lavori, soprattutto dei romani Jacopo Torriti (metà XIII sec.–inizio XIV sec.), Pietro Cavallini e Filippo Rusuti (1255 c. – 1325 c.), mentre lascia Giotto come aiutante. In questo caso dunque l’incontro fra il fiorentino e i romani si sarebbe verificato ad Assisi.
Ma, certo non meno di quelli del suo maestro, i buchi neri nella storia professionale di Giotto non finiscono qui. Ce n’è un altro che va dal 1292 al 1296, che riguarda il cosa ha fatto in questo periodo e il dove è stato. È possibile un secondo soggiorno a Roma, oppure è rimasto ad Assisi ad attendere alla decorazione del registro superiore.
Tutte domande per ora senza risposta. Questo significa che non si sa come e attraverso quali incontri si sia rafforzata la sua identità stilistica, nonché maturata la sua idea di un’inscindibile relazione tra fonti latine e linguaggio medievale. Comunque stiano le cose risulta che a partire dal 1296 Giotto è il nuovo direttore dei lavori di decorazione del registro inferiore delle pareti laterali della navata della basilica francescana superiore.

IL SOGGETTO DEI PRIMI AFFRESCHI DI GIOTTO NELLA BASILICA SUPERIORE DI ASSISI

Il soggetto dell’affresco in cui gli esperti ravvisano l’esordio del giovane Giotto è l’inganno di Giacobbe. Isacco, figlio e successore di Abramo, ebbe due gemelli, Giacobbe ed Esaù. Il primo a venire alla luce fu Esaù; era rosso di capelli e villoso come un adulto, per questo venne chiamato Esaù, che vuol dire appunto uomo maturo. Giacobbe seguì il fratello tenendolo ben stretto per un piede. In seguito a ciò Rebecca, la prima moglie di Isacco, lo chiamò Giacobbe, che vuol dire soppiantatore. Isacco aveva un debole per Esaù perché apprezzava la sua cucina, mentre Rebecca lo aveva per Giacobbe. Divenuto ormai vecchio e quasi cieco Isacco volle nominare il suo successore prima che il Signore lo chiamasse a sé. Per regola, presso gli Ebrei si usava nominare il proprio successore dandogli la propria benedizione, e questa di solito spettava al primogenito. Così avvenne che un giorno il vecchio patriarca chiese al suo primogenito di andar fuori a caccia e portargli qualcosa di buono da mangiare, cucinato come piaceva a lui, e in quell’occasione lo avrebbe benedetto. La richiesta fu udita da Rebecca, la quale iniziò subito a pensare a come trasformare il fatto in opportunità a favore del suo figlio prediletto. Così lo convinse a prendersi lui la benedizione al posto del fratello facendo ricorso ad un piccolo stratagemma. Approfittando dell’assenza di Esaù cucinò due capretti come piacevano al marito e glieli fece portare da Giacobbe travestito da Esaù. Isacco stupito dal tempo estremamente breve impiegato da Esaù per andare a caccia, cucinare e portargli il cibo pronto per essere consumato e insospettito inoltre dalla voce del vivandiere che gli sembrava essere quella di Giacobbe, volle per sincerarsi che tutto fosse regolare toccare le mani del figlio per sapere chi dei due fosse. Dato che Esaù, come già detto, era particolarmente villoso, le mani pelose avrebbero rivelato inequivocabilmente la sua identità. Ma Rebecca aveva previsto questa eventualità e furbescamente si era premurata di coprire il dorso delle mani e il collo di Giacobbe con pelli di capretto. Il trucchetto riuscì e in beffa alle regole fu benedetto il secondo genito. Quando si presentò Esaù, Isacco credendolo l’altro figlio lo respinse. Scoperto l’inganno il legittimo successore andò su tutte le furie e giurò di uccidere il fratello una volta morto il padre. Isacco da parte sua toccato dalla vicenda benedì anche Esaù predicendogli la sua futura carriera di feroce guerriero, ma anche la sudditanza verso Giacobbe, al quale spetterà il titolo di primo re di Israele.

ANALISI STILISTICA DELL’AFFRESCO RAFFIGURANTE ISACCO CHE RESPINGE ESAÙ

Passando dalla storia all’analisi stilistica si vede bene come il linguaggio giottesco si manifesta già in questo saggio giovanile in modo inequivocabile. Tale evidenza gli esperti la ravvisano in alcuni caratteri particolari quali la forte costruzione volumetrica dello spazio, la magnificazione delle forme attraverso il chiaroscuro cromatico, la dimensionalità monumentale della figura umana, la misura, l’equilibrio, la solidità terrena. A questi elementi rivelatori di una forte personalità artistica, vanno aggiunti i fattori chiave dello stile giottesco: un’intensa, vera, naturalissima espressività umana, nonché una strutturazione epica del tempo storico.

GLI AFFRESCHI CON LE STORIE DI SAN FRANCESCO

Assisi, basilica superiore di San Francesco
Giotto
IL DONO DEL MANTELLO AL NOBILE DECADUTO (1290/1296)
Affresco, altezza mt. 2,70 – larghezza mt. 2,30

Nell’ultima decade del XIII secolo la stella di Giotto inizia la sua ascesa sull’orizzonte della pittura italiana, e inizia con l’impresa della decorazione delle pareti della navata della basilica Superiore. Il ciclo decorativo intrapreso da Giotto e i suoi aiuti racconta la vita di san Francesco tratta dalla Legenda Maior redatta da san Bonaventura (1221-1274) fra il 1260 e il 1263. La storia è suddivisa in tre momenti fondamentali: quelli che riguardano le vicende accadute prima che Francesco indossasse i panni da frate; quelli che riguardano gli episodi relativi al suo apostolato; quelli che riguardano i miracoli avvenuti dopo la sua morte. Gli episodi raffigurati sono 28, ripartiti in altrettanti riquadri che corrono lungo tutte le pareti della navata, nell’ordine di 3 per campata; fanno eccezione la parete della prima campata e quella della controfacciata. Nel primo caso i pannelli sono 4, mentre nel secondo caso sono 2. I brani sono pensati come “quadri” autonomi, ognuno chiuso nella sua struttura spaziale particolare. Unici legami fra una scena e l’altra il senso di svolgimento del racconto che segue un ordine cronologico e le cornici, pensate come segmenti di uno stesso telaio, esteso a tutta la chiesa.
L’idea della suddivisione in formelle intelaiate da false modanature aggettanti e colonnine è da far risalire al ciclo di affreschi lasciati sulle pareti delle navate della chiesa abbaziale di San Pietro in valle, a Ferentillo, sul finire del 1100, da maestri ignoti.
Il senso di lettura va dal primo pannello di destra all’ultimo pannello di sinistra, entrambi a ridosso del transetto; i riquadri hanno tutti la stessa misura, tranne quelli sulla controfacciata, che sono leggermente più stretti.

LA LEGENDA MAIOR

La Legenda Maior non racconta la vera vita di san Francesco, non risulta dalle testimonianze lasciateci dal santo in persona, ma è la versione della vita del frate secondo l’Ordine francescano. Il testo è scritto con l’obiettivo di smussare, limare gli aspetti più spigolosi della vicenda umana e dottrinale del poverello, aspetti riportati invece in altre interpretazioni.
Dopo la morte di san Francesco fioriscono una serie di vite, che tendono tutte a mettere in rilievo la via alla salvezza eterna da lui proposta, poco concorde a quella della Chiesa su certi punti caldi, come quelli riguardanti la questione del possesso di beni materiali. Per ridimensionare la distanza su questi nodi cruciali, pena la condanna dell’Ordine per eresia, il Capitolo dei francescani incarica Bonaventura di Bagnoregio di stendere una versione ufficiale della vita del santo. Le altre “vite” sembra siano state tutte date alle fiamme.
Questa precisazione spiega perché negli affreschi “approvati” si pone particolare attenzione su quei passaggi in cui l’operato del santo entra in collisione con l’operato della Chiesa. Ma non è solo questo. La “revisione maior” si rende necessaria anche per un discorso di inserimento dell’esperienza francescana all’interno del cammino della Chiesa verso la redenzione finale.
Riguardo a questo punto non bisogna dimenticare che il ciclo di affreschi della basilica assisiate ricalca un programma comune a tutte le basiliche cristiane. Si inizia con l’Antico Testamento, con gli avvenimenti che precedono la prima venuta di Cristo, si prosegue con le storie del Messia fino alla fondazione della Chiesa, quindi si inserisce la missione della Chiesa nelle persone dei suoi capi, i papi e i suoi dottori, rappresentata nel caso specifico dalla realtà vivente del corpo ecclesiale, per finire con il secondo avvento di Cristo, alla fine dei tempi. La vicenda francescana si colloca proprio qui, in questo dialogo fra realtà e memoria storica, promosso per la salvezza eterna.
La revisione della vita di san Francesco non è solo una questione di contenuti. L’esigenza di presentare un santo nuovo, un cavaliere della fede e non un asceta, fa preferire il linguaggio giottesco a quello di Cimabue e dei maestri romani. Non è dunque per niente un caso che il Consiglio dell’Ordine abbia preferito il giovane fiorentino al più anziano maestro, Cimabue. È fuor di dubbio che la pittura di Giotto sia più moderna di quella di Cimabue (intendendo per più moderna più realistica nel linguaggio, meno trascendente), ma è anche vero che l’epica giottesca avvicina molto più la figura del santo a quella di un crociato, promulgatore di una rinnovata vocazione all’apostolato ecclesiale. In altri termini il san Francesco di Giotto è molto più realistico anche se meno vero del san Francesco di Cimabue, in cui ritroviamo il santo nella sua fisionomia più verosimile: corporatura esile, statura media, abbigliamento dimesso. Insomma un’immagine troppo ascetica per andare bene al messaggio che si vuole comunicare e che contiene forse un riferimento di troppo allo stile di vita religiosa intrapreso dal personaggio.

GLI AFFRESCHI GIOTTESCHI NELLA BASILICA SUPERIORE D’ASSISI

Il ciclo inizia con l’episodio che narra di un assisano, il quale al passaggio del giovane Francesco gli stende davanti ai piedi il suo mantello, a significare il riconoscimento in lui di un uomo da riverire, e si conclude con la scarcerazione di uno sconosciuto accusato di eresia, quando egli era già asceso al cielo.
Uno dei pannelli giudicato fra i migliori dai critici è il penultimo di destra (il secondo in ordine di sequenza narrativa), cioè quello che raffigura Francesco mentre si appresta a donare il proprio mantello ad un nobile ridotto in miseria. Recita testualmente san Bonaventura: «…quando il beato Francesco si incontrò con un cavaliere, nobile ma povero e malvestito, dalla cui indigenza mosso a compassione, per affettuosa pietà, quello, subito spogliatosi, lo rivestì».
Il significato del riquadro è esplicito: la rinuncia alle ricchezze terrene. Scopo? Sottolineare la perfetta aderenza dell’azione di Francesco al precetto evangelico di vestire gli ignudi, oltre al parallelismo fra la figura del santo con quella del buon samaritano e di san Martino. Tuttavia occorre notare due cose: la prima è che non ci sono né ignudi né poveri, la seconda è che l’episodio in realtà non è mai avvenuto, in quanto nel testamento di Francesco si parla di lebbrosi non di poveri. Infatti qui al posto dei lebbrosi e dei poveri ignudi appare un personaggio ben vestito, con tanto di copricapo, mancante solo di mantello. Come mai? Non c’è alcun dubbio, si vuole mitigare l’eversività contenuta nel messaggio francescano: donare tutto a chi non ha niente rischia di creare un turbamento eccessivo.
Giotto interpreta il suo san Francesco non già come un asceta, bensì come un giovane eroe cristiano, campione di generosità e attenzione verso i più bisognosi. Ma al di là di questa diversa dimensione etica della santità che fa del Francesco giottesco un eroe moderno, e non antico, ciò che rende straordinariamente nuovo il linguaggio espressivo dell’artista fiorentino è l’intero impianto figurativo.
I personaggi hanno un aspetto pienamente umano: hanno proporzioni umane, volti umani, espressioni umane, agiscono da uomini fra gli uomini. Lo spazio appare insolitamente profondo ed ha un’estensione chiaramente definita, intelligibilmente apprezzabile; la sua struttura è geometrica, semplice ma di grande respiro: è un cubo aperto sulla navata. La superficie anteriore di questo cubo corrisponde al piano della parete, la superficie posteriore al cielo che campeggia sul fondo, le due facce laterali non si vedono ma si intuiscono. I piani anteriore e posteriore sono collegati tra loro per mezzo di due grandi diagonali formate dalle pendici delle alture che si ergono alle spalle della scena principale; la faccia anteriore è impostata sulle linee strutturali principali del quadrato, le altre due diagonali e i due assi, orizzontale e verticale. Questi ultimi sono evocati dalla disposizione delle figure in primo piano, la cui struttura si può ridurre ad una sequenza di segmenti disposti parallelamente o ortogonalmente, il cavallo, san Francesco, il povero dal bacino in giù, collegati da altri segmenti inclinati, come il collo del cavallo e il mantello. Il centro del quadrato è costituito dalla testa del santo.
Per rompere la rigidezza dello schema geometrico, che condannerebbe alla totale paralisi l’azione, Giotto, quasi avesse intuito già il segreto degli antichi artefici, si serve di una serie di piccoli accorgimenti, quali: l’asse che percorre la figura di Francesco non si sovrappone a quello verticale del riquadro, ma se ne discosta di poco; i profili delle pendici montane non ricalcano perfettamente le diagonali; l’intersezione dei due profili rocciosi, così come la testa di san Francesco sono leggermente spostati rispetto al centro geometrico del dipinto; il collo del cavallo si flette lievemente verso il basso, così come la linea che congiunge le braccia del santo, il mantello e le braccia del povero formano una curva che si rivolge con la sua concavità verso l’alto. La figura di Francesco è solida, ancorata al suolo con fermezza, misurata nel gesto, proporzionata nel corpo, ricorda con quelle sue braccia stese in avanti e leggermente divaricate l’Auriga di Delfi.
La vicenda è carica di enfasi morale: il giovane ricco che si spoglia dei suoi averi per accorrere in soccorso dei più bisognosi. Non ci sono figure allegoriche, il significato è tutto spiegato in quello che si vede, né ci sono allusioni a realtà trascendenti, tutto è rappresentato in chiare forme naturali. Queste sono espressione dello spazio universale, spazio che, come abbiamo visto, non è estensione illimitata, grandezza incommensurabile, vuoto informe, ma volumetria esplicita, contenitore limitato di cose, e le cose altro non sono che porzioni di spazio delimitate e individuate singolarmente per mezzo di una superficie.
Ma le superfici che distinguono le cose particolari e che, nel loro insieme, qualificano lo spazio non sarebbero visibili senza una luce che le illumina. La luce giottesca non è una luce concentrata in fasci lamellari, è una luce diffusa; non disperde, condensa; non confonde, chiarisce; non rivela un mondo enigmatico, incomprensibile, bensì rivela un mondo solare, perspicuo, certo. La luce di Giotto non è luce divina, ma naturale, è la luce del Sole che diffondendosi rende chiare le cose. Questa luce giunta alle soglie della materia si distribuisce uniformemente su di essa, inondandone la superficie fino a farla rilucere di luce propria.
La luce diffusa fa si che non solo nelle forme ma anche nei colori non ci siano contrasti, non ci siano esagerazioni; tutto è misurato, tutto è dosato, tutto si risolve in equilibrio: e questo non è classicismo, ma classicità pura. La luce plasma i volumi, i volumi hanno una propria tinta, quindi la luce plasma anche le tinte dei volumi. Il colore per il Giotto assisiate, fresco ancora degli insegnamenti del maestro Cimabue, è un elemento che si sovrappone al volume, non lo satura, ne riveste la superficie. Esplicita questa sua concezione il modo stesso di procedere alla stesura dei dipinti. Il primo stadio del dipingere è costituito dall’operazione di delineamento dei contorni delle figure, quindi si passa al riempimento delle porzioni di intonaco fresco con le tinte base, infine si tirano fuori i volumi, schiarendo con il bianco, o con tinte chiare, le parti che devono risultare in luce, scurendo con il nero, o con tinte scure, le parti che devono risultare in ombra.

Assisi, basilica superiore di San Francesco
APPROVAZIONE DELLA REGOLA (1290/1296)
Affresco, altezza mt. 3,00 – larghezza mt. 3,00 c
.

Che la vita di san Francesco sia “aggiustata” per scopi politici lo dimostra in modo quanto mai eloquente il settimo riquadro, in cui viene raffigurato papa Innocenzo III (1198-1216) che approva la regola. L’episodio si riferisce molto probabilmente alla prima regola, quella del 1210. Ne seguiranno altre due: una del 1221, l’altra del 1223 (che è poi la stessa del 1221, solo profondamente modificata nel testo e nel tono).
La scena presenta san Francesco inginocchiato in testa a undici confratelli dinnanzi a Innocenzo III, il quale è effigiato nel duplice atto di restituire la regola al santo e benedire il drappello di convenuti; di fronte sei ecclesiastici della curia si dispongono a tenaglia intorno al Papa.
Anche in questo frangente le cose non sono andate così come vengono rappresentate. Il riquadro nulla ci dice sui sospetti ingenerati nel Papa e nella curia dalla costituzione del movimento francescano. A tal proposito occorre ricordare che il movimento francescano si inserisce in un momento storico particolarmente drammatico per la vita della Chiesa. L’Europa è scossa da un insolito numero di movimenti ereticali come i Valdesi, gli Umiliati e gli Albigesi. Al momento della presentazione della regola per sottoporla all’approvazione del Papa è ancora fresco il ricordo del massacro degli Albigesi, avvenuto nel 1198, proprio sotto il pontificato di Innocenzo III. Si può ben capire allora come pur intitolandosi l’approvazione della regola non ci sia esplicitato nessun suggello scritto, ma solo un acconsentimento orale. Tuttavia ciò che interessa ai francescani al momento della realizzazione degli affreschi è far intendere la completa ortodossia della regola, nonché l’inquadramento dei frati minori nell’ordinamento ecclesiale. Per quanto riguarda questo aspetto particolare è da notare come i seguaci che accompagnano Francesco risultino in divisa da frati, cosa questa che non rende giustizia alla realtà dei fatti. A tal proposito nella “Legenda dei tre compagni” si ricorda come i seguaci di Francesco fossero immediatamente riconoscibili in quanto dissimili da tutti per via del loro abbigliamento tanto trascurato da farli parere simili a selvaggi.

Assisi, basilica superiore di San Francesco
PREDICA AGLI UCCELLI (1290/1296)
Affresco, altezza mt. 3,00 – larghezza mt. 3,00 c
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Uno dei riquadri più noti del ciclo assisiate è quello in cui san Francesco parla agli uccelli. L’affresco, ritenuto fra i più felici dell’intero racconto, nasce da uno dei momenti meno felici della vita del santo. L’episodio vede come sfondo Bevagna; l’anno è il 1215. La scena si riferisce al volontario isolamento in cui Francesco si ritira a causa delle continue contese sorte in seno al suo gruppo. Oltre a questo l’episodio affronta anche un altro argomento piuttosto spinoso della vita e dell’opera del poverello, quello della predicazione. Ora non tutti sanno che Francesco pur essendo un religioso non era un ecclesiastico; era un laico, e in quanto tale non gli era consentito predicare pubblicamente, come non gli era consentito celebrare messa né liberare il prossimo dal demonio. Ciononostante Francesco predica, fatto questo che stride con l’intento generale dell’intero ciclo in cui si vuole rimarcare l’inquadramento dell’operato francescano nell’ambito dei precetti della Chiesa ufficiale. Questo spiega perché la predicazione agli uccelli sottintende anche, per chi ce la vuole leggere, la volontà del santo di attenersi ad un passo del Vangelo in cui si vuole l’annuncio della buona novella a tutte le creature.

SVILUPPO DELLA PITTURA DURANTE IL XIII SECOLO

Bologna, chiesa di San Domenico
Giunta Pisano
CROCIFISSO (1250/1254)
Tempera su tavola, altezza mt. 3,16 – larghezza dei bracci della croce mt. 2,85

Arezzo, chiesa di San Domenico
Cimabue
CROCIFISSO (1260/1270)
Tempera su tavola, altezza mt. 3,36 – larghezza dei bracci della croce mt. 2,67

Cimabue e Giotto sono due figure della massima importanza per la storia del linguaggio occidentale; prima con l’uno e ancor più con l’altro la pittura dell’epoca cambia rotta. Vediamo ora in che maniera si ritrova configurato il pensiero artistico di questi due giganti in alcune opere da loro realizzate.
Come per la scultura così per la pittura l’emancipazione dalla figuratività bizantina avviene in Toscana, e più precisamente a Firenze, intorno alla metà del Duecento. I tempi sono ormai maturi per accogliere un rivolgimento culturale sull’intero territorio italiano. Movimenti che spingono nel senso di un superamento della fissità iconica si sono andati già formando nella stessa bizantinissima Venezia. Nella cattedrale di Torcello e in San Marco, ad esempio, compaiono mosaici in cui gli elementi strutturali del repertorio figurativo bizantino risultano ulteriormente intensificati in senso drammatico allo scopo di incidere maggiormente sull’animo dell’osservatore. L’intenzione è chiara: non si vuole offrire un’immagine da venerare, né da contemplare, si vuole suggestionare il pubblico suscitando terrori escatologici o sentimenti morali.
Questa nuova idea di avvicinare il fedele a Dio facendo appello al suo sentimento, piuttosto che alla sua ragione, viene probabilmente dal Nord Europa, e tal quando così non fosse, comunque essa rappresenta una tendenza tipicamente occidentale. In Toscana, terra di maggiore resistenza nei confronti delle infiltrazioni nordiche, il processo di superamento della funzione ascensionale degli elementi pittorici bizantini si carica di ulteriori contenuti. Il fenomeno si spiega con l’intensa attività intellettuale degli ordini religiosi, soprattutto monastici.
A Firenze, in particolare, il rinnovamento in pittura segue uno sviluppo molto simile a quello venutosi a determinare a Pisa nella scultura. In questa città, infatti, si va formando una scuola di maestri artigiani che utilizzano il linguaggio bizantino in senso retorico, modificandone le parole in funzione di una maggiore efficacia acquisitiva. Il risultato di questa azione è un ulteriore passo avanti verso la sostituzione del linguaggio aulico con quello volgare, più ricco di accenti popolareschi, con note di acceso realismo e intensa drammaticità. La volontà di impressionare l’osservatore e indurlo a riflettere sui valori fondamentali dell’esistenza, conducono a volte gli artisti a deformare le figure fino a sfiorare il grottesco, come nella scena infernale di Coppo di Marcovaldo (1225 c. – 1276 c.) che decora l’interno della cupola del battistero di Firenze, eseguita nella seconda metà del XIII secolo.
Queste figure, pur eminenti, di artisti al passo coi tempi non arrivano però a porre la questione della riforma strutturale della pittura italiana, ancora per molti versi ancorata alla stilizzazione bizantina.
Non ci arrivano perché non possono arrivarci dal momento che la loro opera è molto più impegnata a diffondere i contenuti tematici delle rappresentazioni piuttosto che quelli inerenti alla struttura del linguaggio stesso.
I nomi più illustri che animano la scena artistica toscana intorno alla metà del Duecento sono quelli dei due Berlinghieri, Berlinghiero (ante 1210 – 1287 c.) e Bonaventura (notizie dal 1228), rispettivamente padre e figlio, di Giunta Pisano e, a Firenze, di Coppo di Marcovaldo. Quest’ultimo è la mente direttiva della maggior parte della decorazione musiva del battistero di Firenze.
L’intervento diretto della sua mano si riconosce nell’Inferno, tema che si presta assai bene ad accogliere figure dal forte potere suggestionale. Questa volontà evocatrice di forti emozioni sta a monte della nuova impostazione compositiva e costituisce la causa prima della ricchezza di movimento del mosaico.
La struttura formale è fondata, come nelle icone bizantine, sempre sulla linea e sui campi di colore, solo che questi elementi si fanno più duri e spezzati, i primi, più intensi e contrastanti, i secondi, mentre l’insieme risulta mosso da una ritmica dai bruschi cambiamenti. In altri termini la volontà di vitalizzare il linguaggio bizantino impegnandolo nella visualizzazione di storie nuove, arricchendolo di raffinatezze lineari e cromatiche, elevandolo a nuove sensibilità come quelle tattili non basta a riformare in modo sostanziale il linguaggio pittorico.

LA RIFORMA DI CIMABUE

La riforma strutturale del fatto pittorico si pone invece in chiari termini programmatici con Cenni di Pepo, detto Cimabue.
Cimabue, coetaneo di Arnolfo di Cambio e Giovanni Pisano (1250-1315), è l’artista che in pittura, come Nicola in scultura, apre la via alla ricerca delle radici culturali del linguaggio gotico. Ma in pittura il linguaggio dei borghi è, più che in scultura, solidamente ancorato all’arte bizantina, e Cimabue non arriverà a superare l’impalcatura orientale della figuratività medievale. Spetterà a Giotto, suo allievo, il compito di trasformare la struttura del linguaggio pittorico medievale da greca a latina.
Di questo grande artista, tanto celebre quanto sfortunato, si sa poco e niente. La sua fama fu oscurata da Giotto: infatti lo si ricorda soprattutto per essere stato il suo talent scout. Le sue opere sono state colpite nel corso dei tempi dalle più immani sciagure: gli affreschi del transetto della basilica superiore di San Francesco ad Assisi, realizzati tra il 1277 e il 1280, come già accennato, hanno subito nei secoli un’alterazione chimica che ne ha invertito i valori tonali, rendendo più scure le parti lumeggiate e più chiare quelle in ombra; il famosissimo Crocifisso di Santa Croce del 1290/1295 è andato quasi completamente distrutto in seguito all’alluvione del novembre 1966; i mosaici che ricoprivano la parte interna delle vele della prima campata sempre della basilica superiore di San Francesco di Assisi sono crollati in seguito al terremoto del settembre del 1997; infine, come se non bastasse, morì poco dopo il saldo dell’ultima opera, cosicché non potette neanche godersi il frutto delle sue ultime fatiche. Per comprendere l’importanza di Cimabue spesso si ricorre ad un paragone proporzionale: Giotto sta a Dante (1265-1321) come Cimabue a Guido Cavalcanti (1258-1300).
In perfetta assonanza con l’orientamento generale dell’epoca, Cimabue, alla stessa stregua di Giovanni Pisano e Arnolfo di Cambio, opera nel quadro di un programma teso alla ricerca delle radici storiche della cultura figurativa gotica. Anche lui, come Nicola Pisano (1220 c. – 1284 c.), vede nel passato classico il seme culturale cui informare l’operare moderno, ma, diversamente da costui, non vede la cultura bizantina come una cultura in contrasto con quelle radici; al contrario, vede nei valori della classicità antica, e non nell’antichità classica, il comune denominatore fra arte bizantina e arte gotica, passato orientale e presente occidentale. La pittura gotica è e rimane per Cimabue la pittura della tradizione, cioè bizantina. Ma la cultura bizantina nasce nell’ambito di quella latina e sia l’una che l’altra condividono il fatto di avere qualcosa di greco. Per Cimabue l’arte bizantina è il parlar greco, l’arte latina è il parlar greco-romano, quindi non abbandona completamente la stilizzazione bizantina per rifarsi ai modelli greco ellenistici, ricerca invece i valori formali di questi nelle viscere della figuratività orientale.
Per vedere in che modo si esprime il programma riformatore cimabuesco sarà di notevole aiuto mettere a confronto due coppie di opere: i due Crocifissi di San Domenico di Arezzo e di Santa Croce, e le due Maestà di Santa Trinita e del Louvre.
È necessario però iniziare con un altro raffronto, quello fra i due Crocifissi esposti nei due San Domenico, rispettivamente nel San Domenico di Arezzo, di Cimabue, e nel San Domenico di Bologna, di Giunta Pisano, allo scopo di inquadrare la posizione cimabuesca in rapporto a quella degli altri artisti del suo tempo.

ANALISI COMPARATA TRA IL CROCIFISSO DI SAN DOMENICO D’AREZZO DI CIMABUE E IL CROCIFISSO DI SAN DOMENICO DI BOLOGNA DI GIUNTA PISANO

Il crocifisso che si trova nella chiesa di San Domenico ad Arezzo, segue di una decina d’anni quello di Giunta Capitini detto Giunta Pisano che si trova nella chiesa di San Domenico, a Bologna, ed è contemporaneo al Cristo in croce del palazzo comunale di San Gimignano di Coppo di Marcovaldo. Le tre opere si somigliano molto, anche nelle dimensioni, ma in quella di Cimabue la linea di contorno della figura si fa più tesa, il chiaroscuro più accentuato, il corpo più “stirato”; solo lo sguardo è più dolce. Ed è forse proprio nell’espressività del volto, molto più naturale e contenuta nell’esternazione del dolore, ben diverso dalle maschere tragiche di Giunta e Coppo, che s’intravede il primo segno di un cambiamento di rotta rispetto alla tradizione.
Obiettivo precipuo dell’arte nella Firenze di metà secolo è il superamento della rigidezza iconica e la riduzione del distacco contemplativo in favore di un’animazione più esplicita, finalizzata a stimolare una maggiore partecipazione dei fedeli. Ma a Cimabue tutto questo non basta, egli si vuole spingere oltre, rivedere gli elementi strutturali stessi dell’immagine pittorica, dunque la linea, la luce, il colore.
Più in particolare i due crocifissi di Giunta Pisano e Cimabue ad un primo sguardo sembrano identici, le analogie sono innegabili: le dimensioni sono più o meno le stesse; la chiesa che li ospita è dedicata allo stesso santo; i colori sono praticamente gli stessi, almeno nel tono generale. Tra il primo e il secondo ci corrono circa 15/20 anni, eppure nel crocifisso di Cimabue si nota che la ricerca per la definizione di una figuratività più partecipe della realtà umana, meno distaccata, è ad uno stadio più avanzato. Il progresso non è misurato soltanto dall’accentuazione della curvatura del corpo, ma anche dal maggior senso del rilievo che l’immagine infonde nell’osservatore a causa dell’espansione delle linee di contorno. Va aggiunto a questi due elementi un terzo che riguarda il particolare del volto di Gesù: decisamente più umano nel Crocifisso di Cimabue.

Firenze, Museo dell’Opera di Santa Croce
Cimabue
CROCIFISSO (1290/1295)
Tempera su tavola, altezza mt. 4,33 – larghezza dei bracci della croce mt. 3,90

Il gigantesco Crocifisso che levitava fin dal lontano 1280 (data oggi spostata al 1290) al centro del transetto della basilica francescana di Santa Croce, a Firenze, e che oggi viene gelosamente custodito nel Museo dell’Opera di Santa Croce dopo essere stato semidistrutto dall’alluvione del 1966, segue di ben vent’anni il primo crocifisso di Arezzo. Si tratta di un’opera matura, che fa seguito ad esperienze importanti come le due maestà degli Uffizi e del Louvre, la parentesi romana, gli affreschi di Assisi, ma soprattutto il probabile incontro con Nicola Pisano.
Rispetto alla prima opera, la linea di contorno del corpo si fa più flessuosa ed elastica, le misure del corpo di Gesù si allungano ulteriormente, la testa è proporzionalmente più piccola, gambe e braccia si stendono, il rilievo si ammorbidisce, così come pure l’espressione del volto sofferente. La luce sembra trapassare il corpo di Cristo per risplendere poi dall’interno; lo stacco fra la grande figura larvata e la croce è modulato dall’accostamento fra le lievi tonalità del chiaroscuro con cui è tornito il fisico di Gesù e il colore cupo dei riquadri della croce. Spariscono le lumeggiature dorate che mettevano in risalto le pieghe del perizoma e al suo posto compaiono delle lievissime sfumature, le quali rendendosi trasparenti non ostacolano minimamente la continuità della struttura anatomica. Dunque lo spazio pittorico non è più una trama bidimensionale, come in un procedimento incisorio, ma è un processo illusionistico che include anche lo spazio davanti e dietro la figura. La densità di questi spazi, quello reale dell’osservatore e quello illusorio del dipinto, è uguale, fatto di luce l’uno, fatto di luce l’altro; non v’è tensione, ma armonico distendersi della forma nel vuoto della chiesa.
Rispetto a quello di Arezzo, il crocifisso di Santa Croce denota un ulteriore progresso verso la riforma degli elementi strutturali del linguaggio pittorico bizantino. La linea si fa sempre più espansa, trasformandosi da tracciato divisorio fra campi cromatici contigui a variazione di tono fra superfici diversamente orientate, giacenti su livelli distinti; la luce, proveniente dall’interno, più che sbalzare all’infuori l’anatomia del corpo attenua il chiaroscuro nei punti in cui si articolano le membra e affiorano i muscoli, di conseguenza il colore non ha più la consistenza dello smalto, coprente, ma quella della velatura, trasparente. La sensazione che ne risulta è come di un corpo traslucido, una crisalide illuminata dal di dentro, non un corpo fatto di materia preziosa, brillante di luce propria come cristallo.
L’analisi di un particolare, il perizoma di Gesù, ci permette di comprendere bene la portata del superamento dell’iconografia bizantina e del grado di avvicinamento alla definizione della radice greca del linguaggio medievale. Infatti nel crocifisso di San Domenico l’indumento è costruito più in senso grafico che pittorico, facendo ricorso a formule consuetudinarie, quali le linee per definire le parti delle pieghe in ombra e le lumeggiature d’oro per indicarne, invece, le parti riflettenti. Fra questi segni, allusivi di due condizioni estreme d’illuminazione, si stende la tinta propria del perizoma, che in questo caso è costituita da un rosso smaltato, dagli effetti vetrosi, come di cristallo di rocca. Nel crocifisso di Santa Croce il perizoma si è trasformato in un velo leggerissimo e trasparente che invece di incollarsi al corpo di Cristo, lo avvolge delicatamente. Sparite le lumeggiature grafiche, si avverte appena appena una leggera modulazione chiaroscurale fra i tenuissimi risalti e le impalpabili incavature delle pieghe.

Firenze, Galleria degli Uffizi
Cimabue
MAESTÀ (1280 c.)
proveniente dalla chiesa di Santa Trinita di Firenze
Tempera su tavola, altezza mt. 3,85 – larghezza mt. 2,23

Parigi, Museo del Louvre
Cimabue
MADONNA COL BAMBINO (1280 c.)
proveniente dalla chiesa di San Francesco di Pisa
Tempera su tavola, altezza mt. 4,24 – larghezza mt. 2,76

L’evoluzione della ricerca cimabuesca è ancor più apprezzabile se si mettono a confronto le due Maestà che il maestro toscano dipinge per la chiesa di Santa Trinita di Firenze e per la chiesa di San Francesco di Pisa. Anche in questo caso ci troviamo di fronte a due dipinti molto simili tra loro, icone realizzate per offrire immagini di culto ai fedeli, quindi fortemente stereotipate e, di conseguenza, scarsissimamente aperte alla sperimentazione.
La pala degli Uffizi ha un contenuto più complesso rispetto a quella del Louvre. L’immagine è suddivisa in due zone distinte: la superiore, con la vergine in trono, e la inferiore con quattro profeti affacciati dai bordi del cordolo d’appoggio del piedistallo del seggio. Questa seconda fascia allude chiaramente all’epoca in cui la verità divina non si era ancora rivelata ed era ancora oggetto di predizione: infatti, la struttura architettonica che fa da cornice ai quattro profeti, impostata su tre archetti a tutto sesto, fa pensare ad una cripta. Rafforzano questa sensazione i due profeti che si trovano ai lati, i quali cercano di vedere la Madonna, ma invano, coperti come sono dalla struttura che li sovrasta.
Il motivo principale è in entrambe le pale la Vergine Maria seduta in trono, al centro della tavola, che tiene in braccio Gesù Bambino, benedicente. Ai lati, una schiera di angeli si prende cura di innalzare o depositare (la loro azione si può leggere in entrambi i modi) lo scranno dove è seduta la Madonna da o su un soppedaneo, nella pala di Santa Trinita, e da o su un cordolo, nella pala custodita al Louvre.
Nella pala degli Uffizi la Madonna siede su un trono che si pone frontalmente e si apre davanti allo spettatore seguendo una struttura lineare prospettica, mentre nella pala del Louvre il trono si profila come in una assonometria cavaliera. Il manto che scende a coprire il corpo della Madonna degli Uffizi si stende piatto, come un sipario, sul corpo della Vergine, cosicché la definizione della forma è lasciata al potere evocativo delle lumeggiature grafiche e delle linee nere che si combinano con il blu intenso del paludamento; mentre il manto della Madonna del Louvre avvolge il corpo della Vergine e demanda la sua definizione formale alle variazioni tonali del blu.
Rispetto agli esemplari di maestà in trono precedenti, questa del Louvre rappresenta un vero e proprio balzo in avanti. Il chiaroscuro cromatico attraverso cui viene definito il manto della Vergine serve anche a suggerire il volume corporeo del sacro personaggio. In un periodo in cui ciò che era corporeo veniva associato alla corruzione e quindi al peccato, la nuova esperienza figurativa di Cimabue suonava come un bell’atto di coraggio avanguardistico.
Questo però non significa che il maestro fiorentino fosse uno spericolato innovatore. Difatti la figuratività bizantina di Cimabue si struttura sugli stessi elementi su cui si struttura la figuratività bizantina dei contemporanei, ma la sua finalizzazione è diversa. Egli non intende scatenare reazioni esagerate, né considerare l’azione dell’arte buona solo per comunicare contenuti religiosi alla massa analfabeta; vuole che le reazioni incondizionate si risolvano in una più composta e meditata partecipazione affettiva e morale alla tematica cristiana, nonché considerare l’arte come mezzo di educazione per il popolo dei borghi nella sua interezza, e non solo per una sua parte. Cimabue dunque trasforma il volgare da linguaggio popolare, vernacolo, dialettale, ricco di accentazioni espressive a linguaggio colto, misurato e universale, ma pone le sue radici in un ambito astratto, ideale, teorico, al di sopra della storia; e questo sarà proprio il suo limite.

ALTRI ARTISTI FUORI FIRENZE: DUCCIO DI BUONINSEGNA

Firenze, Galleria degli Uffizi
Duccio Di Buoninsegna
MADONNA RUCELLAI (1285 c.)
proveniente dalla basilica di Santa Maria Novella di Firenze
Tempera su tavola, altezza mt. 4,50 – larghezza mt. 2,90

Cimanbue non è il solo ad intraprendere la strada delle riforme, altri pittori lo fanno. Uno di questi è Duccio di Buoninsegna (1255 c. – 1319 c.).
Se per Cimabue la radice classica che unifica il linguaggio pittorico della tradizione bizantina con quello dell’epoca moderna si configura nella struttura plastica per Duccio di Buoninsegna si configura nella struttura cromatica. Accanto alla ricerca cimabuesca, si svolge, a Siena, in maniera più intima e pacata, la ricerca di un altro grandissimo e raffinatissimo artista, Duccio di Buoninsegna. Mentre per Cimabue la radice greco ellenistica, soprastorica, del linguaggio bizantino si identificava nell’effetto plastico della luce, per Duccio si identifica nell’effetto cromatico; ciò che il toscano interpreta come variazione di chiaroscuro, il senese lo interpreta come variazione di colore. Per il toscano il colore è un velo che si stende su una struttura plastica autonoma, rivelata dall’incidenza luminosa, anch’essa fattore separato dal resto; per il senese non esiste una struttura autonoma, volume e luce fanno corpo unico con il colore. Cimabue interpreta intellettualmente l’oggetto della rappresentazione, mentre Duccio lo interpreta percettivamente. L’arte, per il fiorentino, è il prodotto dell’intelligibilità, per il senese della sensibilità; per il primo è armonia di forme, per il secondo armonia di colori. Per il fiorentino lo spazio è un volume vuoto a cui i volumi pieni delle cose danno forma, per il senese lo spazio è l’insieme delle cose, non è vuoto fra un oggetto e l’altro, fra una figura e l’altra, è sostanza, materia e luce, distinzione fra diverse zone di colore parimenti dense.
La cosiddetta Madonna Rucellai riprende lo schema della Madonna del Louvre di Cimabue, ma ne differisce per la diversa consistenza della materia di cui è fatta, il colore. La luce non sta dentro le cose, ma dietro, la pala è come una grande lastra di vetro colorato, non trattiene la luce per impregnarci le singole figure e rimandarla poi, attenuata, verso l’osservatore, la lascia passare.
Il manto della vergine è di un blu denso e profondo che stacca la vergine dal trono in virtù dell’accostamento con il bruno del drappo, steso alle spalle della Santa Madre a coprire il seggio. Non che Duccio ignori i sistemi di resa razionale dello spazio, ma sebbene nella parte inferiore della pala il vuoto lo faccia l’assonometria, nella parte superiore il senso di profondità lineare viene contraddetto dalla porzione di panno che nasconde lo schienale.
L’ambiguità spaziale si ripropone anche nell’angelo inginocchiato in basso a sinistra. Infatti stando a dove poggia i piedi, dovrebbe trovarsi davanti al seggio, stando però a dove tiene la mano destra allora dovrebbe trovarsi dietro. Le ambiguità bizantine si ritrovano anche nel soppedaneo il quale sporgendo chiaramente dal piano verticale anteriore del sedile ha i sostegni allineati con i sostegni anteriori dei montanti di quest’ultimo.
Per Duccio anche le linee devono qualificarsi come colore; una in particolare, a cui il maestro riserva il delicato compito di definire lo svolgimento spaziale del mantello della Vergine, si è trasformata in un nastro color oro, mobile, flessuoso, evocatore di fluide sequenze ritmiche.

Siena, Museo dell’Opera del Duomo
Duccio Di Buoninsegna
MAESTÀ (1308 – 1311)
collocata in origine sull’altare maggiore del duomo di Siena
Tempera su tavola, altezza mt. 2,12 – larghezza mt. 4,25

L’opera di gran lunga più impegnativa di Duccio è senz’altro la grande pala con la Maestà della Vergine, realizzata per l’altare maggiore del duomo di Siena. L’opera fu compiuta in quattro anni, dal 1308 al 1311. Nel giorno del suo trasferimento dalla bottega del pittore alla cattedrale, avvenuto nel mese di giugno, fu organizzata una festa popolare apposita per celebrare l’avvenimento. La grande tavola è dipinta su entrambi i lati. Nella parte anteriore, cioè quella rivolta ai fedeli, è raffigurata la Madonna col Bambino, attorniata da un nutrito gruppo di angeli e santi; nella parte posteriore, quella rivolta verso il clero, vi sono rappresentati 26 episodi della passione di Cristo in 14 riquadri, dall’ingresso di Gesù a Gerusalemme all’ascesa finale al cielo. Lo strano rapporto fra riquadri e numero di vicende narrate si spiega col fatto che ogni scomparto è diviso orizzontalmente da una cesura, di modo che, tranne nel primo e nell’undicesimo (la tavola con l’entrata di Gesù a Gerusalemme e quella con la crocifissione), su ogni pannello ci sono narrati due episodi. La suddivisione delle scene che si svolgono all’interno di edifici assume la funzione di sezione architettonica verticale in cui si vedono contemporaneamente, come se si svolgessero su due diversi piani dello stesso fabbricato, episodi distinti nel tempo. Questo espediente, davvero singolare, sebbene denunci la sua origine nell’irrelatività spazio-temporale bizantina, non produce nell’immagine dipinta un effetto di smaterializzazione della corporeità delle cose, non dissimula la materia, al contrario rinsalda il senso di concretezza, la sostanza visiva, il colore-spazio-luce con cui è costruito ogni singolo episodio.
L’analisi del fronte principale ci permette di stabilire la strada percorsa da Duccio in circa vent’anni di attività. In sintesi si può dire che nella Maestà di Siena si è persa un po’ di quella linearità bizantina che caratterizzava i lavori giovanili in favore di una più estesa corporeità cromatica della figurazione. La Madonna giganteggia al centro della tavola, assisa su un monumentale trono di marmo candido (o d’avorio), che si apre a mo’ di abside, fra una folta schiera di personaggi che si accalcano per ranghi paralleli ma sfalsati ai suoi lati. La collocazione delle teste degli astanti ha un motivo preciso: ottenere tante ogive concentriche, convergenti verso l’asse centrale della tavola, occupato dalla figura della Madonna, la cui testa costituisce il nodo strutturale principale del dipinto, la chiave dell’arco trionfale di questa architettura costruita con i colori.
Benché stipati i personaggi non sono collocati in uno spazio privo di profondità; Duccio maturo non ha più bisogno delle linee per indicare la tridimensionalità, ora lo spazio lo fa il colore da solo, attraverso la giustapposizione dei toni. Ogni colore è studiato per interagire con quelli che gli stanno accanto e l’arte per lui non è una sinfonia di linee o di modulazioni chiaroscurali, ma di colori. A riprova di quanto detto, si prenda come esempio l’immagine della Madonna stessa. Certo non è per mitigare il gelo della materia a contatto col corpo della Vergine che Duccio decide di interporre fra la Divina Madre e il seggio un panno bruno, ma è solo per mediare il contrasto fra il blu intensissimo del manto con il bianco del regal seggio: e questo significa che Duccio lo spazio l’ottiene sfruttando le qualità spaziali insite nelle tinte stesse, senza bisogno di ricorrere alle linee o al contrasto luminoso.

ARTISTI ROMANI ALL’EPOCA DI GIOTTO

Roma, chiesa di Santa Cecilia in Trastevere
Pietro Cavallini
GIUDIZIO UNIVERSALE (1293 o 1295)
Affresco

Benché sede del potere conservatore, alla fine del Duecento anche nella capitale dello stato della Chiesa si comincia a muovere qualcosa. Spetta a Jacopo Torriti e Pietro de’ Cerroni detto Pietro Cavallini il compito di far uscire Roma dall’isolamento a cui un ambiente poco partecipe della vita culturale del Paese l’aveva relegata; con loro la tendenza romana diviene una delle componenti più attive del processo di rinnovamento del linguaggio borghese.
È certo che per essere chiamati nella fabbrica francescana d’Assisi sia Jacopo che Pietro dovevano godere di buona fama fra la cerchia degli artisti romani; quello che non è certo, invece, è quanto abbia influito sull’orientamento della loro ricerca strutturale il primo soggiorno a Roma di Cimabue, avvenuto molto probabilmente fra il 1272 e 1277. Qualunque sia stata l’entità di questa influenza, l’esame stilistico delle loro opere datate 1290, relativamente alla stessa ricerca delle fonti linguistiche del volgare figurativo, li vede su posizioni molto vicine a quelle del maestro toscano. In particolare Pietro Cavallini risulta più sensibile alle fonti greco-romane, quindi la sua proposta lo avvicina ancor più ad Arnolfo di Cambio che non a Cimabue. Fermi restando i dubbi una cosa comunque è assodata e cioè che dopo Assisi nessun artista è più lo stesso di prima.
Terminata l’esperienza assisiate ai due artisti romani li attende un futuro di grande impegno e successo professionale nella capitale. Tra i mosaici absidali di Santa Maria in Trastevere e gli affreschi di Santa Cecilia intercorrono solo due anni (o quattro), eppure gli affreschi sembrano appartenere ad un’altra epoca. Il mistero di questo mutamento così radicale del Cavallini si infittisce allorquando ci si imbatte nell’ipotesi, avanzata da alcuni studiosi, di spostare al 1296 la data dei mosaici senza spostare la data degli affreschi. In qualsiasi modo stiano le cose tuttavia resta il fatto che tra mosaici ed affreschi c’è quasi un abisso.
La cosa si spiega col fatto che in quello stesso anno, o un paio d’anni prima (il che rende la cosa molto più verosimile), per la stessa chiesa, Arnolfo di Cambio si sta dando da fare a metter su il ciborio. Arnolfo soggiorna a Roma già da un pezzo e sicuramente ha dato un bel po’ da pensare agli artisti romani: il ciborio di Santa Cecilia è solo l’opera che spinge Pietro a compiere la svolta decisiva.
A testimoniare la svolta del Cavallini nella chiesa romana rimane più soltanto l’“isola” affrescata col Giudizio Universale. Qui, negli apostoli in trono, è possibile individuare come si configura a livello estetico la sua ipotesi risolutiva del problema linguistico.
Gli apostoli sono allineati, seduti come presbiteri in un coro ligneo. Ognuno di loro è trattato come un individuo, cioè un essere dotato di una propria personalità, di una propria fisionomia legata all’età e ai caratteri del volto, isolato in uno spazio che è solo suo, ma allo stesso tempo parte integrante di uno spazio più esteso, alla cui struttura tutto si rapporta, persino la figura umana. Le proporzioni delle figure sono monumentali, i gesti solenni, le espressioni di una dignità morale paragonabile alla statuaria antico romana dell’epoca repubblicana.
Lo spazio cavalliniano non è disegnato, non è costruito mediante linee, è dipinto, è costruito mediante variazioni tonali di colori. L’immagine artistica di Pietro è come quella di Arnolfo, fatta unicamente di spazio: spazio è quello che sta fuori, spazio è quello che sta dentro le figure. Essendo l’immagine artistica fatta di solo spazio l’unico modo per renderla visibile è individuare le superfici che separano le singole porzioni di etere di cui è fatta la totalità virtuale. Questa virtualità, distinta in volumi pieni e volumi vuoti, nasce dalla diversa esposizione alla luce delle superfici di separazione fra spazio esterno e spazio interno. La luce del Cavallini non sembra emanare dai corpi ma provenire da una fonte esterna, posta all’infinito, i cui raggi, penetrando all’interno, accendono la materia e la fanno risplendere.
L’aspetto che colpisce di più del linguaggio cavalliniano è senza dubbio la straordinaria robustezza strutturale, una robustezza che avrà sicuramente impressionato il giovane Giotto. Ciononostante la soluzione del romano non avrà ugual seguito di quella del fiorentino, perché? Il motivo forse è da ricercare nel fatto che anche la soluzione cavalliniana non supera i confini del linguaggio bizantino, poiché anche lui, come Cimabue, pensa di risolvere il problema delle radici culturali con un invito a guardare a valori astratti dalla storia.

Firenze, Basilica di Santa Maria Novella
Giotto
CROCIFISSO (ultimi anni del XIII sec. – primi XIV)
Tempera su tavola, altezza mt. 5,78 – larghezza dei bracci della croce mt. 4,06

Tornando a Giotto, con lui l’ascendenza latina diventa coscienza delle origini classiche greco-romane del volgare figurativo. Con lui l’arte torna ad occuparsi decisamente del mondo terreno, mondo costituito di natura e umanità, presente e passato, ambiente e storia; con lui si sente nuovamente il bisogno di chiarire, tramite il lavoro artistico, che si avvale per lo scopo di metodi empirici proiettivi, sia la forma apparente dell’essenza universale, sia il rapporto che unisce ogni singolo oggetto, ogni singolo avvenimento al tutto, al di là di ogni divenire mutevole e accidentale. Questa immagine di umanità, naturalezza, vita, però, non viene ricavata direttamente dall’esperienza visiva, ma estratta dall’elaborazione artistica bizantina propria della tradizione pittorica, dunque dalla visualizzazione di un’immagine culturale bizantineggiante si passa alla proiezione intuitiva di un’immagine culturale latineggiante, ovvero dalla segnalazione del mondo trascendente attraverso icone alla sua segnalazione attraverso rappresentazioni storicistiche. Tutto ciò è già “umanistico”, ma Giotto, benché giunga ad intuire il legame proiettivo fra immagine artistica e immagine naturale, è un riformatore non un rivoluzionario come Masaccio.
Quando si parla di Giotto il paragone con Dante viene spontaneo: l’importanza di Giotto nella definizione dei caratteri strutturali del linguaggio figurativo occidentale è paragonabile a quella di Dante per quanto concerne la definizione della lingua italiana. Il paragone fra Giotto e Dante si fa esplicito dal momento in cui tutt’e due, nei rispettivi campi di pertinenza, vogliono dimostrare che il volgare, alias il linguaggio dei borghi, per assurgere a linguaggio artistico non deve per forza rinunciare al suo carattere di linguaggio popolare, non si deve necessariamente intellettualizzare, non deve erudirsi in modo tale da perdere la sua qualità migliore, cioè a dire la sua capacità di comunicare con l’intero contesto socioculturale. Quello che dimostrano in sostanza i due grandi artisti è che anche il volgare può raggiungere le più alte vette dell’arte, basta ricollegare il linguaggio parlato da tutti alle sue vere radici storiche, alle radici latine, quelle del classicismo greco-romano, di cui il volgare aveva serbato le strutture di base. Con Giotto cambia la figura dell’artista; con lui l’artista medioevale non è più il sapiente artigiano che lavora nel solco di una tradizione millenaria, ma è l’artefice intellettuale che si propone un fine culturale autonomo di cui solo lui è responsabile.
Come è successo a tanti altri artisti divenuti oltremodo famosi anche a Giotto è capitato di essere protagonista inconsapevole di molte leggende. Le più famose sono senz’altro l’aneddoto riportato dal Ghiberti nel 1455 in una sua pubblicazione, il leggendario incontro di Cimabue con il giovane pastorello Giotto, e quello del celebre “cerchio di Giotto”.
Sulle origini di Giotto non si sa niente di certo. Non si conosce il suo vero nome, forse Giangiotto o Ambrogiotto, o più probabilmente Angiolotto, né si conosce tanto più il suo cognome: il nome Giotto di Bondone (cioè Giotto figlio di Bondone, dove Bondone sta per il nome del padre), avanzato dal Vasari, non ha trovato alcun riscontro documentale. Non si sa dove sia nato; si fa il nome di un paesetto sito sulle colline intorno a Firenze, chiamato Colle di Vespignano presso Vicchio di Mugello, ma anche in questo caso non ci sono prove. E infine non si sa la sua data di nascita, che comunque dovrebbe essere o il 1266 o il 1267.

MATURITÀ E ULTIME OPERE DI GIOTTO

Padova, cappella degli Scrovegni
Giotto
COMPIANTO SUL CRISTO MORTO (1304/1306, secondo altri 1309/1310)

Affresco, altezza mt. 1,85 – larghezza mt. 2

Dopo i lavori per il Giubileo, in San Giovanni in Laterano, Giotto passa a Padova, dove attende ad alcuni affreschi nella basilica del Santo commissionatigli dall’ordine francescano, andati completamente perduti. Qui incontra Enrico Scrovegni (morto dopo il 1336), nobile padovano, figlio di un usuraio (ricordato da Dante), che nel 1300 aveva comprato un’area dove si trovavano i resti di un anfiteatro romano, con l’intenzione di costruirci la propria dimora con annessa una cappella votiva.
Sembra, ma non c’è alcun documento che lo attesti, che lo Scrovegni abbia affidato a Giotto l’intera fabbrica, dalla realizzazione dell’edificio alla sua decorazione. Questa ipotesi è suffragata dalla straordinaria corrispondenza fra la struttura architettonica dell’edificio e l’apparato decorativo, troppo perfetta per pensare ad un caso fortuito. La cappelletta infatti è un fabbricato molto semplice, un parallelepipedo, largo circa 8 metri e mezzo, profondo poco meno di 29 metri e mezzo e alto circa 13, coperto a botte, con le pareti traforate solo in pochi punti, ben calcolati, per lasciare ampi spazi all’operare del pittore.
I lavori hanno inizio nel 1303 e la consacrazione avviene il 16 marzo del 1305; Gli affreschi vengono compiuti fra il 1303 e il 1306: all’inizio dei lavori Giotto ha circa 37 anni.
L’artista impiega 700 giorni o mille per portarli a termine; la cappella viene inaugurata il 25 marzo 1305. Non tutti però sono concordi su questa data. Alcuni ritengono che la decorazione fu realizzata solo alcuni anni dopo il compimento dell’edificio, dal 1309 al 1310, nel tempo record di un solo anno: cosa non impossibile per chi, come Giotto, poteva contare su un’equipe molto numerosa.
Il tema raffigurato è classico: la storia di Cristo, dagli avvenimenti che hanno preceduto la sua nascita a quelli che hanno seguito la sua morte, con il giudizio finale a concludere l’intero ciclo.
Il racconto si svolge in tre fasce parallele, suddivise in 34 riquadri. La narrazione ha inizio con la Cacciata di Giochino dal tempio, prima formella in alto a destra, a ridosso della parete su cui si apre l’abside, per terminare con la Pentecoste, in basso, a sinistra, sempre a ridosso della stessa parete. Sotto le tre fasce, corre una balza dipinta in monocromo, raffigurante, entro nicchie illusorie, allegorie di vizi e virtù; il soffitto, a botte, evoca la volta stellata. Domina su tutto il grande Giudizio Universale, che occupa l’intera parete della controfacciata.
Osservando la cappella nel suo insieme è facile capire come Giotto non si è voluto ripetere, ma, sulla base dell’esperienza assisiate, ha cercato di sperimentare nuove soluzioni.
L’elemento compositivo di fondo rimane la formella autonoma, compiuta in sé, ma, nello stesso tempo, collegata alle altre per via del senso temporale del racconto, rispettoso dell’ordine cronologico delle vicende. Il primo fatto nuovo è costituito dalla volontà esplicita di unificare l’intero ciclo attraverso il colore del fondo, lo stesso per tutti i riquadri: l’azzurro profondo della volta. Su questa base cromatica s’inseriscono, con funzioni strutturali, le altre tinte, come il bianco delle architetture o il grigio delle rocce, le quali, a loro volta, fanno da supporto timbrico ai brillanti colori primari delle figure in primo piano: dunque, l’altro fatto nuovo, di grandissima importanza, che segna l’evoluzione del linguaggio artistico di Giotto da Assisi a Padova è il colore. Nella città veneta, contrariamente a quanto era avvenuto nella città umbra, il colore non è più un velo sottile che si sovrappone al volume, predeterminato dalle modulazioni chiaroscurali della luce, ma è la luce stessa, che si materializza immedesimandosi nelle superfici dei corpi, facendo tutt’uno con le masse, divenendo così sostanza spaziale. La luce dunque non è esterna agli oggetti ma si identifica col colore stesso delle cose; queste non sono più illuminate ma luminose.
È strettamente legato alla nuova esperienza strutturale il fatto che, rispetto a quelle di Assisi, le figure di Padova sono meno monumentali, sono animate da sentimenti più contenuti, il movimento è ridotto agli episodi dove più intenso è il dramma, le annotazioni paesaggistiche sono confinate alla presenza di pochi elementi.
La spiegazione di queste scelte risiede nella volontà dell’artista di esprimere tutto attraverso il colore, anche le situazioni umane. In virtù della sua propensione all’espansione, le forti note cromatiche dei pannelli debbono essere contenute nelle dimensioni e nei movimenti.
Si è molto parlato di questo cambiamento giottesco in cui il protagonista assoluto diviene il colore; si è anche parlato di influenza dell’ambiente padovano, intriso di cultura bizantina. E allora? Seppure fosse? Non per questo Giotto a Padova non è più Giotto. È fin troppo evidente che lui, artista, sensibile alle suggestioni dell’ambiente, non poteva rimanere insensibile al clima coloristico del veneto.
Nel riquadro col Compianto sul Cristo morto è rappresentato il momento che segue la deposizione dalla croce del corpo ormai esanime di Gesù. Su di lui, insieme a Maria e a san Giovanni, si accalcano un gruppo di fedeli, fra i quali le altre due Marie, Nicodemo e Pietro d’Arimatea. Tranne i due personaggi sul bordo destro, tutti gli altri flettono la testa nella direzione di quella di Cristo, che diventa in questo modo il fulcro della scena.
A sottolineare il centro irradiante dell’intera composizione, Giotto inserisce, fra la parte inferiore e quella superiore del riquadro, alle spalle dei dolenti, uno sperone di roccia nuda, con il piano superiore slittante verso sinistra. Al di là di esso è tutto cielo, un cielo dal colore intenso, profondo, uniforme, costellato di angioletti disperati.
I colori sono intensi: sul blu di fondo spiccano i gialli, i verdi, i vari tipi di rossi, i bianchi, i grigi dei nimbi, delle vesti degli angioletti e delle tuniche dei personaggi. Fra i colori, dalle gamme brillanti, si distingue il blu della tunica di Nicodemo e quello della veste di Maria (raffigurata con il volto riverso su quello di Gesù), inseriti dall’artista per saldare le due zone di spazio in cui è suddivisa la rappresentazione; lo stesso motivo è alla fonte del convulso agitarsi degli angioletti.
Osservando questa immagine non si può fare a meno di pensare all’effetto che doveva fare Giotto sui suoi contemporanei. Quando si dice che Giotto è un uomo nuovo non solo ci si intende riferire alla sua audacia espressiva, ma s’intende anche dire che con lui nasce una nuova figura professionale. Infatti egli non è più l’artigiano che esegue un lavoro predeterminato anche dal punto di vista dell’immagine artistica; egli impersona l’artigiano libero imprenditore, cioè libero di scegliere lo stile che più gli si confà. A dimostrazione di ciò si osservi con quanto straordinario coraggio inserisce in questa scena, fra le più sacre, le due pie donne completamente incappucciate, viste di spalle: un rischio per l’epoca.

Firenze, basilica di Santa Croce, cappella Peruzzi
Giotto
RESURREZIONE DI DRUSIANA (1318/1320)

Affresco, altezza mt. 2,80 – larghezza mt. 4,50

Firenze, basilica di Santa Croce, cappella Bardi
Giotto
ESEQUIE DI SAN FRANCESCO o ACCERTAMENTO DELLE STIMMATE (1320 c.)
Affresco, altezza mt. 2,80 – larghezza mt. 4,50

Dopo Padova Giotto, ormai famosissimo, riceve commissioni da ogni dove. Tornato a Firenze nel 1310, ma secondo altri fra il 1300 e il 1303, realizza una maestà in trono, universalmente nota come la Madonna d’Ognissanti, dal nome della chiesa omonima fiorentina a cui era destinata. Nel 1318, o secondo altri nel 1325, dividendosi forse fra Padova e Firenze, lavora a due cicli di affreschi nelle due cappelle fiorentine di Santa Croce, Bardi-Baroncelli e Peruzzi. Benché scempiati da manomissioni settecentesche e ottocentesche, da quel poco che rimane è possibile comprendere gli sviluppi, nella sua fase tardo-matura, di quello che ormai era diventato un vero e proprio linguaggio nazionale: all’epoca degli affreschi Giotto aveva raggiunto un’età oscillante fra i 54 e i 59 anni.
In queste opere il maestro fa sintesi delle esperienze passate. Plasticismo assisiate e cromatismo padovano si ripropongono a Firenze in termini di pacata monumentalità, spazialità prospettica e concertata coralità cromatica. Le figure si fanno più grandi e più vicine (superano in altezza la linea mediana orizzontale), mentre le architetture si fanno più possenti e articolate. Il linguaggio si fa greve e maestoso e, soprattutto nelle esequie di san Francesco, nella cappella Bardi, accordato ad una base cromatica di fondo che unifica i toni.