LE PRIME REAZIONI ALLE NUOVE ISTANZE RIVOLUZIONARIE; I PRIMI PROBLEMI
GHIBERTI, MASOLINO, IL BEATO ANGELICO, MICHELOZZO. TRADIZIONE O NOVITÀ? ARTE COME STILIZZAZIONE O COME RAPPRESENTAZIONE?
LA SITUAZIONE FIORENTINA NELLA PRIMA METÀ DEL QUATTROCENTO E IL DIBATTITO IN ARCHITETTURA
LA MATURITÀ DI DONATELLO

IL RIFORMISMO ANGELICANO
LA VISIONE TOMISTICA DELL’ARTE, I SUOI TERMINI E LA SOLUZIONE ANGELICANA
IMPORTANZA STORICA DELL’ANGELICO
RITRATTO DI UN PITTORE FATTO BEATO COME UN SANTO
L’IMMAGINE ANGELICANA
PRIMI APPROFONDIMENTI CRITICI: LEON BATTISTA ALBERTI
LA CONSACRAZIONE DEL DUOMO DI FIRENZE
DIFFERENZE DELL’ALBERTI CON IL BRUNELLESCHI
IL TEMPIO MALATESTIANO

IL PALAZZO RUCELLAI
IL DIBATTITO IN SCULTURA
IL MONUMENTO COME SINTESI DI ARCHITETTURA E SCULTURA

IL MONUMENTO COME SINTESI DI ARCHITETTURA E BASSORILIEVO
IL DIBATTITO IN PITTURA
ARTE COME RAPPRESENTAZIONE DELLA RAGIONE ETICA O ARTE COME RAPPRESENTAZIONE DEI SENTIMENTI?
L’UTOPISMO URBANISTICO
I SENESI


LE PRIME REAZIONI ALLE NUOVE ISTANZE RIVOLUZIONARIE; I PRIMI PROBLEMI

Firenze, battistero
Lorenzo Ghiberti
PORTA EST DEL BATTISTERO DI FIRENZE (1425/1452)
Detta porta del Paradiso
Bronzo dorato

Brunelleschi (1377-1446), Donatello (1386-1466), Masaccio (1401-1428) non sono gli unici artisti a volere il cambiamento; in realtà sono solo la manifestazione di una visione estremistica della risoluzione del conflitto tutto italiano, anzi tutto fiorentino, fra cultura naturalistica transnazionale e cultura storicistica nazionale tardo medievali. Anche in Europa spirano venti di rinnovamento: nelle Fiandre ci sono i fiamminghi, in Francia c’è Claus Sluter (1340-1405 c.). Ma nel primo Quattrocento, nella città gigliata, l’argomento all’ordine del giorno è rappresentato dai tre artisti rivoluzionari. Di loro si condivide la volontà di rigenerare l’arte del tempo, quello che non si accetta è la volontà di cancellare la tradizione trecentesca. Questa circostanza crea il problema del rapporto fra novità rinascimentali e tradizione tardo-gotica. C’è chi vorrebbe stabilire un dialogo fra trovate rinascimentali, di cui si riconosce il valore strumentale, e tradizione medievale; c’è chi è deciso a portare avanti il discorso radicalmente innovativo aperto dai fondatori. Cosicché nella prima metà del Quattrocento si formano due fronti, i quali, sulla base delle rispettive posizioni riguardo alla questione gotica, potrebbero essere definiti con i termini di riformista e rivoluzionario. Esiste anche un terzo schieramento che si potrebbe definire conservatore, ma è di corto respiro; solo a Siena produce lavori dai risvolti interessanti anche per l’epoca.
Oltre alla suddetta questione c’è quella posta da Donatello del rapporto fra il nuovo spazio rinascimentale e la figura umana, vale a dire la scelta fra arte come rappresentazione di un modo di essere in armonia col mondo e arte come rappresentazione di un modo di essere in perenne tensione col Creato. Insomma all’inizio del secolo il problema è scegliere fra stilizzazione gotica o rappresentazione rinascimentale, spazio metafisico o spazio umano, cioè, come dire: Ghiberti o Brunelleschi; Brunelleschi o Donatello.
Gli argomenti del confronto fra questi artisti costituiscono anche argomento di confronto fra gli artisti del primo Quattrocento, ma non sono gli unici. A dette tematiche ne va aggiunta una terza che inizia ad imporsi dopo il contatto fra arte fiorentina e arte fiamminga avvenuto in seguito ai rapporti sempre più frequenti fra Firenze e le Fiandre per via del fiorentissimo commercio di prodotti manifatturieri, primi fra tutti, i panni di lana. Si tratta del rapporto fra spazio teorico e spazio empirico, o, se si preferisce, fra rappresentazione razionale e rappresentazione empirica, e costituirà motivo di approfondimento e aggiornamento della Rinascita.
Apriamo il nostro discorso sullo sviluppo della situazione fiorentina nella prima metà del Quattrocento partendo dall’analisi delle posizioni di quegli autori che si trovano ad operare sul fronte delle riforme.

GHIBERTI, MASOLINO, IL BEATO ANGELICO, MICHELOZZO. TRADIZIONE O NOVITÀ? ARTE COME STILIZZAZIONE O COME RAPPRESENTAZIONE?

Molti protagonisti della cultura artistica fiorentina della prima metà del Quattrocento non sono pronti, così come non lo è il Ghiberti (1378-1455), a rinnegare tutta la tradizione per riallacciarsi direttamente all’epoca classica, come volevano i rivoluzionari rinascimentali. Tuttavia non sono neanche disposti ad andare dietro alla moda cortese in maniera indiscriminata, dal momento che il Gotico Internazionale va ad intaccare, con il suo modo di interpretare la trascendenza spirituale, la solidissima impostazione classicista della tradizione tardo-gotica fiorentina. Comunque non si può prescindere dal fatto che il Gotico Cortese è l’ultima più recente espressione dell’arte gotica, mentre la prospettiva brunelleschiana rompe con tutto il lessico medievale. Dunque il problema che gli artisti riformisti della prima metà del Quattrocento si trovano ad affrontare è quello di vedere se, come e in che misura è possibile conciliare un orientamento fondato sulla stilizzazione con un altro fondato sulla ricerca e il chiarimento dell’essenza. Una delle prime risposte è quella di accogliere i cambiamenti facendo salva la tradizione, che significa armonizzare la rappresentazione razionale con la stilizzazione gotica. Operativamente il Ghiberti opta per una continua evoluzione stilistica del processo costruttivo delle immagini artistiche.
I più importanti maestri a tentare per primi una conciliazione fra le istanze della tradizione e quelle del nuovo linguaggio rinascimentale sono, oltre al Ghiberti, Masolino (1383-1440) e il Beato Angelico (1395 c. – 1455), pittori, Michelozzo (1396-1472), scultore e architetto. Nelle poetiche di questi autori infatti risulta fondamentale il rapporto con il periodo precedente.
L’obiezione sostanziale nei confronti del nuovo indirizzo rinascimentale che accomuna tutti i riformisti è la seguente: il Gotico Internazionale va divulgando una stilizzazione fondata su un naturalismo empiristico che suona, in alcuni casi, come un esplicito invito a guardare più attentamente il mondo naturale, dunque ad ampliare le conoscenze circa il Creato. Ora, sembrano obiettare gli autori riformisti, non risulta proprio che vi sia alcuna contraddizione fra la tendenza stilistica del Gotico Cortese e la ricerca di verità della Rinascita: entrambe tendono alla natura. Se la prospettiva brunelleschiana è uno strumento d’individuazione e chiarimento della realtà naturale, perché non accogliere anch’essa come nuovo fattore per l’aggiornamento della tradizione gotica italiana, così come si accoglie per motivi di continuità filologica il Gotico Internazionale?
Dimostrare che fra linguaggio gotico e linguaggio rinascimentale non v’è alcuna contraddizione è l’impegno culturale del Ghiberti, di Masolino, dell’Angelico e di Michelozzo.

Firenze, Museo dell’Opera del duomo
Lorenzo Ghiberti
INCONTRO DELLA REGINA DI SABA CON SALOMONE (1425/1452)
Pannello della cosiddetta porta del Paradiso
Bronzo dorato, cm. 79×79

Firenze, Museo dell’Opera del duomo
Lorenzo Ghiberti
RITORNO DELL’ARCA ED EBBREZZA DI NOÈ (1425/1452)
Pannello della cosiddetta porta del Paradiso
Bronzo dorato, cm. 79×79

Lorenzo Ghiberti riprende ed approfondisce nella seconda porta del battistero il discorso iniziato 24 anni prima nell’altra, quella oggetto del concorso.
All’inizio anche la seconda porta doveva essere a formelle, ma poi, non si sa bene quando, Lorenzo cambia idea e compie il grande passo. Dimentica la forma precedente e s’avventura in una nuova struttura a grandi riquadri, dieci per l’esattezza. Destinata alla facciata nord, per la sua eccezionale bellezza viene installata sulla facciata est, mentre la prima passa alla nord. Michelangelo guardandola la definirà, almeno stando a quel che dice il Vasari (1511-1574), “la porta del paradiso”.
La porta del Paradiso impegna il Ghiberti per 27 anni. Quando la inizia, cioè un anno dopo aver terminato la prima, Lorenzo ha 47 anni; quando la finisce ne ha 74; tre anni dopo muore: dunque un’intera vita segnata dalla realizzazione di due porte. Sopra di lei Battista Giovan Francesco Rustici (1474 – 1554), un leonardesco, collocherà nel 1511 il Battesimo di Gesù.
Nella prima porta Lorenzo intende aggiornare la tradizione di Andrea Pisano (attivo dal 1300 al 1350) con il modernismo della corrente internazionale. Nella seconda il compito si fa molto più complesso: stavolta intende conciliare tradizione trecentesca, gotico internazionale e novità rinascimentali. La strada seguita è quella di prendere da ogni linguaggio ciò che ritiene più utile al raggiungimento del fine proposto: ottenere un prodotto che sviluppi al meglio un’esperienza operativa della realtà. Da Filippo prende la prospettiva che gli permette di coordinare in una visione unitaria tutti gli aspetti multiformi della realtà contingente; della cultura gotica internazionale fa proprie la passione per la catalogazione e l’enucleazione descrittiva; dalla tradizione trae il senso della misura, l’esperienza nell’orchestrare la molteplicità mediante la sensibilità, il controllo degli effetti luminosi tramite l’abilità operativa; ma ancora una volta Lorenzo trova il compromesso, non la sintesi.
Se ci si sofferma ad analizzare il riquadro che raffigura l’incontro della regina di Saba con Salomone, ad esempio, è possibile notare che non c’è fusione fra le parti e il tutto; la prospettiva resta relegata sullo sfondo della scena, non costruisce lo spazio dove agiscono i personaggi, serve solo a mettere in rilievo il fatto storico, fargli da quinta teatrale. Questo è collocato al centro, fra un nugolo di spettatori che si accalcano sul palco, a partire dal primissimo piano, in basso, fino al limitare delle arcate. Le figure sono costruite elegantemente e si armonizzano con la scenografia di fondo per via dell’affinità stilistica con cui entrambe sono realizzate e non perché rispondono ad una nuova logica strutturale dello spazio figurativo. L’unità dunque è raggiunta attraverso l’accordo delle linee, le quali più rade e geometriche nell’architettura si fanno più fitte e fluide nei personaggi. Scopo di tanta raffinatezza tecnica è frammentare sempre più minutamente la luce per tradurre il trapasso della materia al puro spirito: e questo è gotico.
Il credo poetico del Ghiberti non cambia neanche in quei pannelli dove non è richiesta la presenza di una folla di personaggi, come nel riquadro che racconta del ritorno dell’arca e L’ebbrezza di Noè. Qui la quinta architettonica è costituita da una piramide appena graffita sul fondo; il rigore geometrico è ridotto al minimo: c’è solo la tettoia improntata per proteggere la botte, all’ombra della quale si è addormentato Noè. Per il resto lo spazio corre libero dal primo piano a lontananze indefinite. Benché ridotta la presenza architettonica, tuttavia, Lorenzo non cambia il modo di intenderla: è una quinta di rarefazione luminosa il cui scopo è quello di schermare i raggi luminosi per rimandarli intensificati in primo piano, dove ad attenderli ci sono i personaggi pronti ad impegnarli con il gioco delle pieghe delle loro vesti, con le loro acconciature, con le loro movenze; e per ottenere questo risultato non c’è niente di meglio che ricorrere alla cultura cortese con la sua predilezione verso la minuzia descrittiva della varietà degli aspetti naturali.

LA SITUAZIONE FIORENTINA NELLA PRIMA METÀ DEL QUATTROCENTO E IL DIBATTITO IN ARCHITETTURA

Firenze, palazzo Medici Riccardi
Michelozzo
ESTERNO (1444)

Ad aprire il dibattito in architettura nella prima metà del Quattrocento è Michelozzo, e lo fa con un palazzo. È il 1434, Cosimo il vecchio (1389-1464) torna a Firenze con il favore del popolo minuto.
La repubblica fiorentina, cioè le famiglie più influenti della città, l’avevano mandato in esilio a Padova per arginare il suo crescente potere all’interno del capoluogo toscano, un’egemonia che gli è costata tre anni di domicilio coatto.
Una volta rientrato in possesso della casa paterna però Cosimo non si limita a risiedere nella sua amata contrada, ma riprende a controllare la situazione politica della comunità cittadina. Le prime due cose che fa di rilievo in favore dell’arte sono la ricostruzione del convento di San Marco e la costruzione del suo palazzo privato, sulla via Larga, resosi necessario per adeguare la dimora al crescente prestigio sociale della famiglia Medici. Incarica del progetto di ricostruzione del convento Michelozzo, mentre affida al Brunelleschi la costruzione del nuovo palazzo.
Nel 1444 iniziano i lavori di costruzione del nuovo palazzo dei Medici (che diverrà poi Riccardi). Ma il progetto che prende vita non è quello ideato dal Brunelleschi, bensì quello ideato da Michelozzo. Questo perché il palazzo propostogli da Filippo gli sembra troppo principesco, e, data la sua delicata posizione, onde evitare nuove accuse e nuovi ostracismi, preferisce orientarsi su una dimora più modesta. I timori della repubblica fiorentina comunque non sono tanto infondati: infatti prima lui e poi suo nipote Lorenzo il magnifico (1449-1492) domineranno di fatto la città anche se non rivestiranno mai cariche pubbliche. Michelozzo è senz’altro più moderato di Filippo. Il suo palazzo da meno nell’occhio e non fomenta l’idea che la famiglia si voglia mettere al di sopra degli altri.
L’edificio che è possibile vedere ancora oggi sul posto ricalca solo in parte quello progettato da Michelozzo. Infatti non passa molto tempo dall’ultimazione dei lavori che l’immobile subisce già le prime modifiche. Nel 1600 i Riccardi ne prolungano arbitrariamente la facciata compromettendo per sempre il suo aspetto iniziale. L’originale è un volume cubico, simile nel suo austero sembiante ad una fortezza medievale, chiusa e impenetrabile dall’esterno quanto aperta e permeabile all’interno. A rafforzare l’idea di maniero concorre in modo determinante il rivestimento murario a bugnato, ingentilito dall’assottigliamento dell’aggetto dei conci man mano che dal piano terra si passa al secondo e al terzo piano. Fulcro dell’intero complesso è il cortile interno, una specie di piazzetta privata. Su di esso si affaccia il porticato del piano terra che si svolge su tutti e quattro i lati; il piano nobile che si protende verso il vuoto appoggiandosi sul sottostante porticato; il loggiato del secondo e ultimo piano, oggi chiuso da una serie di vetrate. Alle spalle del palazzo, dalla parte opposta all’ingresso sulla via Larga, si apre un giardino che ricorda il peristilio delle case romane.
Il palazzo di via Larga cessa di essere la residenza dei Medici con Cosimo I (1519-1574), l’altro, il primo granduca di Toscana, quando, poco dopo il matrimonio con Eleonora di Toledo, avvenuto nel 1539, decide di lasciare il palazzo di famiglia per insediarsi in Palazzo Vecchio.

Firenze, convento di San Marco
Michelozzo
BIBLIOTECA (1436/1444)

L’altro grosso impegno di Michelozzo è la ristrutturazione del convento di San Marco. Il 21 gennaio 1436 papa Eugenio IV (1431-1447) cede ai domenicani di Fiesole il convento di San Marco di Firenze. Michelozzo Michelozzi ha 41 anni quando inizia la sua ricostruzione.
L’intero complesso è un autentico capolavoro, ma la biblioteca è davvero un gioiellino. Si presenta come l’interno di una chiesa, a tre navate, la centrale coperta a botte e le laterali a crociera, solo che qui le navate sono tutte ampie uguali. Le arcatelle si susseguono in prospettiva, rincorrendosi l’un l’altra fino all’infinito, senza che ci sia un piano ortogonale a fermare la loro fuga. Lo spazio è pensato come se fosse disegnato, anzi dipinto dall’Angelico in persona; il vuoto al di là delle pareti non si comprime sui muri, né c’è sul fondo delle arcate una parete trasversale che si frappone fra la fuga e l’orizzonte, insomma c’è tutta la cultura innovativa del tempo tranne che la mentalità.
Questo modo di interpretare l’architettura ci rivela un uomo molto vicino al pensiero ghibertiano e angelicano, ma il motivo del suo riformismo va ricercato non già nella necessità di aggiornare la tradizione gotica alla situazione corrente, bensì nel presentarla come una sopravvivenza nostalgica nel nuovo quadro culturale rivoluzionario.

LA MATURITÀ DI DONATELLO

Firenze, chiesa di Santa Croce
Donatello
ANNUNCIAZIONE (1435 c.)
Rilievo in pietra con tracce di doratura, altezza mt. 4,20 – larghezza mt. 2,48

Firenze, Museo dell’Opera del Duomo
Donatello
CANTORIA DEL DUOMO DI FIRENZE (1433/1439)
Marmo, altezza mt. 3,48 – larghezza mt. 5,70

Mentre la Firenze artistica inizia a commentare il nuovo indirizzo rinascimentale, Donatello e Filippo continuano a sfornare le opere di gran lunga più avanzate del momento.
Dopo il secondo viaggio a Roma, avvenuto intorno al 1432, ancora una volta in compagnia del suo collega ed amico Filippo, le sensazioni di Donatello sull’anticlassicismo romano, al cospetto di monumenti quali la Colonna Traiana, la Colonna Aureliana e gli archi trionfali, si fanno certezze.
Quando torna nella sua città il Bardi è un Donatello nuovo. Nell’Annunciazione di Santa Croce, ad esempio, mette in mostra tutta una serie di “stranezze” all’antica, a partire dal soggetto. Mai prima d’ora si era vista una Maria che all’arrivo dell’angelo annunciante sobbalzasse e si ritraesse come se fosse spaventata. In genere l’iconografia tradizionale mostra la Vergine seduta, tranquilla, pronta ad accogliere, senza scomporsi minimamente, la notizia della futura maternità, e il fatto è normalmente ambientato all’interno di una stanza o al riparo di un portico; qui invece la scena si svolge davanti ad una porta chiusa. Se si estende poi l’analisi all’incastellatura architettonica ci si accorge che le basi delle paraste hanno le volute come i capitelli ionici e l’architrave è fittamente decorata da ovoli come una cornice. Ciò significa che Donatello inizia a guardare all’antico come ad un repertorio di immagini ermetiche e non ad una cultura rivelatrice dell’essenza universale della natura: è una nuova poetica dell’Antico.
La sua nuova poetica dell’Antico si precisa in altre due opere dello stesso periodo: la cantoria del duomo di Firenze e il pulpito esterno del duomo di Prato.

IL RIFORMISMO ANGELICANO

Firenze, convento di San Marco
VEDUTA DEL PRIMO CORRIDOIO

Nel 1436, proveniente dal convento domenicano di Fiesole, giunge nell’insigne convento di San Marco fra’ Giovanni da Fiesole, detto poi Beato Angelico. L’Angelico è il primo pittore ad intuire le potenzialità trasfiguranti della prospettiva e, ad un livello più generale, della rappresentazione razionale. Esattamente all’opposto di Masaccio che vede nella prospettiva un mezzo per scendere nel reale, lui la vede come un mezzo per salire verso lo spirituale. Ma lo spirituale per l’Angelico, e qui sta il bello, non è antitetico alla ragione, al contrario: è in naturale sintonia con l’intelletto raziocinante. Il Beato Angelico muove dagli stessi problemi degli altri artefici del primo Quattrocento: il contrasto fra novità e tradizione, nonché fra condensazione ed effusione luminosa, spazio prospettico e fondo riflettente, rappresentazione e stilizzazione. Ma alla base dell’azione riformistica dell’Angelico non c’è, come nel Ghiberti, la necessità di proseguire la tradizione senza strappi, né traumi, bensì il problema della secolarizzazione dell’arte. Per lui l’arte non è cultura storica al servizio della rappresentazione artistica, ma cultura razionale al servizio dell’esperienza della natura condotta alla luce della fede religiosa. Contrariamente a quel che pensa il Ghiberti, secondo l’Angelico fare arte non significa selezionare il meglio delle culture figurative disponibili al momento per arrivare all’opera d’arte, ma conciliare due percorsi per arrivare alla conoscenza di Dio.

LA VISIONE TOMISTICA DELL’ARTE, I SUOI TERMINI E LA SOLUZIONE ANGELICANA

Come uomo di fede, una volta giunto in città, non può non avvertire la piega laica che sta prendendo l’arte del suo tempo a causa del taglio pagano (scientifico-razionale) impressogli dai ribelli umanisti. Come religioso, condivide la stessa preoccupazione di un altro frate, camaldolese, Lorenzo Monaco (1370-1425 c.), il quale vede nelle mode del tempo il pericolo di una totale laicizzazione dell’arte. Contrariamente a quel che va facendo costui però fra’ Giovanni non mira al separatismo, bensì alla conciliazione degli opposti estremismi. Egli non è affatto convinto che la strada indicata da fra’ Lorenzo sia la migliore, non è per un ritorno al puro ascetismo, giusto ma emarginante, bensì è per un intervento correttivo nella situazione di fatto: di qui la diversità d’interpretazione del linguaggio gotico fra i due. L’interpretazione di Lorenzo Monaco respinge tanto il mondanismo empirico delle ultime tendenze cortesi quanto lo storicismo razionalistico delle nuove correnti rivoluzionarie; con maggior apertura il Beato Angelico accoglie tutte e due le lingue come strumenti utili alla divulgazione delle verità dogmatiche; e per lui domenicano verità religiose vuol dire san Tommaso. Il tardo-gotico spinge all’esperienza, mentre il Rinascimento all’ordine razionale, tutt’e due servono a rivelare la perfezione del Creato. Questo significa che tradizione e novità tendono allo stesso fine, alla stessa cosa, hanno un punto in comune, testimoniare la presenza di Dio, e allora perché separare i due linguaggi e non unirli invece?
Il Beato Angelico intende risolvere il problema della secolarizzazione dell’arte riconducendo la cultura laica dei fondatori, storicistica e razionale, alla cultura religiosa tardo-gotica, dogmatica, cioè comprendendo le verità laiche nel quadro della dottrina tomistica, per cui la razionalità del Creato è uno dei segni rivelatori della presenza di Dio.
San Tommaso (1225 c. – 1274) indica la bellezza nelle forme razionali a cui Dio si è ispirato nel modellare la natura e che sono date intendere dall’intelletto umano attraverso l’esperienza dei sensi. Il Gotico Internazionale rappresenta la natura nella sua infinita varietà e quindi può ben servire ad esprimere parte della bellezza del Creato; la nuova visione rinascimentale contempla diversamente gli strumenti mentali che permettono di penetrare nella realtà profonda del cosmo in maniera razionale e quindi possono contribuire a manifestare l’altra parte della bellezza del Creato. Insieme, le due culture concorrono a dare la visione completa della perfezione divina, dunque dov’è la contraddizione? Al contrario, è trovata la sintesi: la verità della razionalità delle forme naturali trova conferma nella verità della legge prospettica; la spiritualità che il Gotico Cortese identifica con la fusione di cose e spazio l’Angelico la identifica con il loro nitore geometrico. In altre parole per lui il linguaggio rinascimentale è un nuovo tipo di stilizzazione: questo vuol dire altresì che alla fede ci si può arrivare anche partendo dal Classicismo; tutte e due le correnti però per servire allo scopo devono essere mondate dal loro carattere laico.
L’intera opera dell’Angelico più che indirizzarsi alla comprensione dell’essere è destinata a dimostrare che tra storicismo umanistico e naturalismo tardo-gotico ci può essere intesa: in fondo san Tommaso si rifaceva all’”Antico” Aristotele (383 c. – 322 a.C.).
Quando si parla di sensi si parla di luce, e la luce è l’elemento rivelatore principale della perfezione del Creato. Strettamente collegata all’idea paleocristiana, che vede l’identificazione della spiritualità divina con la luce, anche la dottrina tomistica guarda al Creato come ad un complesso di corpi che, trasparenti, sembra emanino propri bagliori, rivelatori della loro essenza. Ora, se l’arte medievale era un’arte che tendeva alla rivelazione di Dio, presenza incontrollabile, attraverso la trascendenza della materia nella spiritualità della luce, e l’arte dei rivoluzionari tende a rivelare la presenza dell’uomo attraverso la condensazione del concetto nella materia illuminata, vuol dire che la sintesi cercata non può che consistere se non nell’identificazione della luce con il concetto.
Ma come si sa le sembianze sono ben diverse dall’essenza; in esse la verità non sempre rifulge, spesso si nasconde a causa della variabilità dell’intensità luminosa. Questo comporta l’impossibilità per l’occhio di controllare le fattezze dei principi formali che sottendono all’intero Creato, subito, in modo diretto. Ma quello che può sfuggire al controllo degli occhi non sfugge al controllo della mente, e l’arte si trova là, nelle strutture intelligibili della realtà naturale. Quindi tanto la prospettiva brunelleschiana quanto la costruzione masaccesca sono ottimi strumenti per rendere più evidente a tutti quello che è già chiaro per il credente: la sostanziale razionalità del Creato attraverso l’ordinato disporsi dei toni.

IMPORTANZA STORICA DELL’ANGELICO

Da quanto appena detto ne deriva che l’Angelico vede nella cultura rinascimentale non qualcosa da ricusare ma un ottimo strumento di dimostrazione laica dell’assunto tomistico: per cui polemizzare non serve. Per l’Angelico cultura tardo-gotica e cultura rinascimentale sono strumenti gnostici e questo quadro critico pone il frate domenicano oltre il Ghiberti, per cui il problema fra tradizione e novità è un problema di natura prettamente lessicale e si risolve regolando l’intervento sui due piani della figura e dello sfondo. La sua opera non si limita, come quella del Ghiberti, a conciliare nello sviluppo storico dell’arte tradizione e rivoluzione, ma, al di là di essa, è il primo tentativo di accordare verità dedotte dalla storia con verità indotte dalla fede, cultura storica con cultura religiosa. Ciò si configura sul piano prettamente estetico col fatto che nell’Angelico la luce si manifesta sottoforma di condensazione razionale: e questo è molto più rinascimentale della luce effusa del Ghiberti.

RITRATTO DI UN PITTORE FATTO BEATO COME UN SANTO

Il vero nome di fra’ Giovanni è Guido di Pietro Trosini, nato a Vicchio di Mugello, presso Firenze. Viene soprannominato Beato Angelico e come tale entra nella storia solo dopo la sua morte, che lo raggiunge improvvisamente a Roma all’età di 55 (o 59 anni), dove si trova per questioni di lavoro. Il secondo nome, Angelico, viene pronunciato per la prima volta da un certo Domenico da Corella (1403-1483) nel 1469, poi dal Landino (1424-1498) nel 1481; per il primo appellativo, beato, invece bisogna attendere ancora un po’. Non si sa esattamente quando sia stato pronunciato per intero il nome col quale è universalmente noto; quello che si sa è che la sua beatificazione ufficiale è arrivata solo nel 1983/84. A causa del soprannome, che designa in maniera quanto mai eloquente il carattere del suo stile, il Beato Angelico viene descritto per molto tempo dalla storia dell’arte, influenzata dalla critica romantica, come un artista isolato, beatamente raccolto all’interno delle mura del suo convento, ai margini della città, in mezzo alle colline fiesolane, ad attendere spensieratamente alla pittura delle sue tavole “celestiali”; insomma un autore “Naif”, completamente avulso dai problemi culturali dell’epoca. In realtà egli è ben conscio dei problemi culturali del proprio tempo e non è nei loro confronti solo uno spettatore, anzi, con la sua opera contribuisce notevolmente allo sviluppo dell’arte rinascimentale nella prima metà del Quattrocento.

L’IMMAGINE ANGELICANA

Firenze, Museo di San Marco
Beato Angelico
DEPOSIZIONE DALLA CROCE (1440 c.)
Detta Pala di Santa Trinita
Proveniente dalla chiesa di Santa Trinita di Firenze
Tempera su tavola, altezza mt. 1,85 – larghezza mt. 1,76

Vediamo ora come si manifesta il riformismo angelicano attraverso l’analisi di una delle sue opere più significative, la Deposizione dalla croce. La pala era originariamente destinata alla chiesa di Santa Trinita di Firenze, oggi è ospitata nel Museo di San Marco.
In questa tavola del 1440 le vicende di Cristo si dispongono come le cose in una struttura prospettica e partecipano della forma geometrica universale con cui Dio ha plasmato il mondo.
Tra natura e storia non c’è contraddizione. I fatti non accadono per caso, hanno una loro logica, così come c’è una logica nella distribuzione spaziale delle cose. La legge che ordina gli oggetti nello spazio è la prospettiva, mentre quella che ordina gli eventi nel tempo è la storia, ma il principio che tutto muove e ordina è Dio. Per Giovanni non ci sono dubbi: Dio ha creato il mondo e voluto la storia plasmando la materia sul modello delle essenze universali, quindi ha riempito lo spazio e la materia con la sua luce, grazie alla quale le cose stesse, sature di sostanza spaziale, si rivelano ai sensi. Cioè il mondo della natura di cui è fatta la storia ha una struttura geometrica che si rivela agli occhi illuminati dalla mente attraverso la disposizione tonale del colore. Cosicché al posto di un vuoto senz’aria, riempito di corpi solidi, geometrici, illuminati da una luce teorica, nell’immagine angelicana appare, al cospetto del contingente, uno spazio naturale, pervaso di luce divina, che penetra nella materia riempiendola di sé fino a trasformare i corpi opachi e grevi in volumi luminosi, privi di peso. I “razzi visuali” teorici del Brunelleschi, con lui diventano autentici raggi di luce divina che dall’oggetto si proiettano verso il soggetto: quindi dimensione poetica e immagine hanno lo stesso senso di marcia: dritti verso il punto di vista. Di conseguenza, secondo l’Angelico, per arrivare all’arte occorre star dietro ai sensi e cogliere il momento in cui i dati dell’esperienza si dispongono in ordine geometrico per opera della luce: è l’enunciazione poetica di un uomo di fede, ma che crede di dovere e potere aggiornare la sua formazione culturale.
Sia per Masaccio che per san Tommaso la struttura della natura è l’essere universale che come tale è eterno e pertanto valido per il presente come per il passato e per il futuro. Se la ricerca artistica è indirizzata all’individuazione di strutture dunque non ha senso trattare la natura passata diversamente da quella presente: in quanto ideali sono al di fuori del tempo. Ma per Masaccio le strutture si intendono dalla storia e quindi non serve andare dietro all’esperienza, mentre per la dottrina tomistica le strutture si intendono dalla natura e quindi bisogna stare a quel che si vede. Proprio per questo Masaccio non esita a trattare le persone come i personaggi storici, e proprio per questo l’Angelico non esita a trattare i personaggi storici come cose immerse nella stessa natura satura di luce divina. Tutto ciò vuol dire che se con Masaccio il presente prende la struttura del passato, con l’Angelico il passato prende la struttura del presente: è una concezione ancora tardo-gotica, ma non c’è evasione nella storia, c’è invece la possibilità di rapporto fra esperienza e cultura storica.
L’opera dell’Angelico non è semplicemente riformista, ma è un chiaro invito ad aver fede nell’esperienza, anche se non tutti possono essere dei credenti. Il chiaroscuro cromatico dell’Angelico “lavora”, per così dire, dall’interno del quadro: la fonte luminosa non è esterna, è interna al dipinto. L’effetto che produce è quello di una realtà lucente, come in una vetrata gotica, non illuminata. La prospettiva è un mezzo di coordinamento e distribuzione di aree luminose, non già la risultante di un gioco di dislocazione di masse illuminate; riguarda soltanto l’uomo e le sue opere, anche quelle finalizzate a propositi che non si possono certo definire amichevoli, come il patibolo da cui Gesù, ormai morto, sta per essere liberato. La natura, pur così complessa e variabile, non contraddice l’ordine umano dato alle cose, ma a questo si rapporta come ad obbedire ad un disegno superiore: ecco spiegato il carattere celestiale delle opere di fratello Angelico.

PRIMI APPROFONDIMENTI CRITICI: LEON BATTISTA ALBERTI

Rimini, tempio Malatestiano
Leon Battista Alberti
ESTERNO (iniziato nel 1450)

Non tutti gli artisti del primo Quattrocento sono per il dialogo, c’è chi guarda al presente cercando di interpretarlo a proprio modo. Concepiscono in senso trascendentale i nuovi mezzi espressivi introdotti dai ribelli rinascimentali Agostino di Duccio (1418–1481 circa) e Desiderio da Settignano (1428 c. – 1464), scultori, Paolo Uccello (1397–1475) e Filippo Lippi (1406-1469), pittori; ne approfondiscono i contenuti umanistici l’Alberti (1404-1472) e Andrea del Castagno (1421 c. – 1457); trovano una sintesi fra le due tendenze Domenico Veneziano (1410 c. – 1461) e Piero della Francesca (1410 c. – 1492).
Passato il primo trentennio, sul fronte della rivoluzione Brunelleschi, Donatello e Masaccio non sono più soli. Con loro ci sono i “giovani”, gli artisti della nuova generazione, quelli nati dopo il 1400. Per chi si trova a principiare l’arte in questo periodo la rivoluzione rinascimentale è cosa ormai fatta, il linguaggio del Brunelleschi, di Donatello e di Masaccio è il nuovo linguaggio. Si tratta ora di approfondirne i contenuti, stabilirne gli sviluppi, cosicché, accanto ai tentativi di conciliazione fra novità e tradizione ad opera degli artisti riformisti, si va vieppiù intensificando l’attività di quegli autori che operano in linea con il nuovo orientamento.
A trasformare le nuove idee in una vera e propria teoria dell’arte è Leon Battista Alberti. Le nozioni di piramide visiva, quadro prospettico, punto di vista, punto di fuga, orizzonte e tutte le innumerevoli altre, che costituiscono ancor oggi i fondamenti del sistema delle proiezioni prospettiche, provengono dai suoi trattati teorici. In particolare è a lui che si deve la teorizzazione del Classicismo, e quindi la trasmutazione di un modello concreto, fatto di documenti reali, materiali, come statue, monumenti e immagini, in un modello astratto, fatto di principi, enunciati, linee e misure; a lui si deve l’identificazione del termine rinascimento con il concetto di rinascita dell’arte classica dell’antica Roma. Infatti, benché tutti e tre i fondatori si richiamassero all’antico, nessuno di loro, neanche il dotto Brunelleschi, si è mai sognato di imitare le opere degli antichi Romani, nessuno di loro ha mai guardato all’antico con rigore filologico; per gli iniziatori l’antico è più un modello etico che estetico, e poi nessuno dei pionieri ha mai scritto niente. Neanche il Brunelleschi, che pure aveva per primo condotto studi teorici sulla prospettiva, ha mai tradotto le sue considerazioni in visione sistematica come invece ha fatto l’Alberti.

LA CONSACRAZIONE DEL DUOMO DI FIRENZE

La storia di questo architetto, che può essere considerato secondo solo al Brunelleschi, inizia in una Firenze in pieno fermento culturale.
Come è stato già detto precedentemente il termine rinascimento sta per rinascita dell’arte antica, per arte antica sottintendendo l’arte classica. Attenendosi strettamente a questa definizione si può affermare che nessuno dei tre fondatori storici può considerarsi veramente rinascimentale. Non certo il Brunelleschi, che trae gli elementi del suo linguaggio più dalla tradizione classicistica fiorentina che dall’arte greco-romana; non Donatello che trae i suoi dal volgare figurativo toscano; non Masaccio il cui classicismo è più che altro gestualità misurata, che non proporzionalità geometrica. Perché si radichi nella testa di tutti il concetto di rinascita come rinascita dell’arte classica bisogna attendere l’inaugurazione della cupola.
Il 1436 è un anno memorabile, è l’anno in cui la grande cupola di Santa Maria del Fiore viene chiusa. Qualche mese dopo, il 25 marzo, papa Eugenio IV in persona procede alla benedizione del duomo. Ad assistere alla cerimonia di consacrazione c’è, al seguito del santo padre, un giovane brillante, che nello stesso anno ha reso pubblico un suo trattato sulla pittura intitolato De pictura. Si tratta per l’appunto di Leon Battista Alberti. In questo primo trattato ci sono esposti tutti i più importanti concetti riguardanti la teoria prospettica e c’è anche la definizione di luce come gradazione chiaroscurale creatrice di volumi, nonché di disegno come linea di contorno apparente che individua e definisce razionalmente gli oggetti, ovvero strumento intellettuale utilizzato dalla mente per comprendere e ordinare la realtà fenomenica. In questo trattato le realizzazioni del Brunelleschi acquisiscono un carattere teorico: è la prima volta che l’invenzione di Filippo assurge a sistema, visione sistematica non solo dello spazio architettonico ma dell’intera realtà fisica. Leon Battista scrive pure sul rapporto fra arti visive e musica, nonché di urbanistica, insomma parla di molte cose.
Tra tutti i giovani che vengono attratti dalle novità dei rivoluzionari fiorentini Leon Battista Alberti è senz’altro l’autore che avrà più influenza sulle generazioni future. A lui si devono anche i concetti moderni di tipologia per cui ogni edificio deve avere una particolare forma in relazione alla sua funzione e deve essere fatto a misura d’uomo; deve essere sobrio, elegante, solido e si deve imporre in virtù delle sue armoniose corrispondenze piuttosto che per la massa e la possanza fisica.
Leon Battista Alberti nasce a Genova nel 1404, ma è fiorentino; muore a Roma nel 1472 all’età di 68 anni. Passa la sua gioventù fra i libri; si laurea in giurisprudenza a Bologna. Nel 1428, a 24 anni vede per la prima volta la sua città d’origine. Ci resta per tre anni, gli anni in cui i pionieri del Rinascimento sono tutti in piena attività e tutti stanno attendendo ad opere di capitale importanza. La cupola di Santa Maria del Fiore è alzata per metà, San Lorenzo è in costruzione, mentre la sagrestia Vecchia sta per essere terminata; il Ghiberti sta lavorando alla seconda porta del Battistero, Donatello ha portato a termine le due statue per il campanile di Giotto, Geremia e l’Abacuc, Masaccio sta per lasciare Firenze alla volta di Roma, cioè sta intraprendendo quel tragico viaggio da cui non farà mai più ritorno, ma ha lasciato dietro di se opere quali la Sant’Anna Metterza, la cappella Brancaccci al Carmine e la Trinità. Nel 1431 Leone parte per Roma, per assumere l’incarico di segretario della Cancelleria Pontificia e abbreviatore papale presso la Santa Sede. Qui, nella capitale, ha la possibilità di accostare le antiche vestigia di marmo, ed è la vocazione.

DIFFERENZE DELL’ALBERTI CON IL BRUNELLESCHI

Anche se spiritualmente legato a Filippo, Leon Battista Alberti è profondamente diverso dal Brunelleschi: a questo proposito non bisogna dimenticare che Leon Battista conosce Filippo quando questi è già passato dalla prima fase lineare alla seconda fase plastica della sua concezione architettonica. Lui progetta solo, non fa anche il direttore dei lavori, Brunelleschi, al contrario, progetta e dirige personalmente il cantiere. Dal punto di vista linguistico l’Alberti parla un latino classico desunto direttamente dalle fonti antiche, mentre il Brunelleschi non disdegna parlare un latino classico mediato dalla tradizione toscana; diversamente dal Brunelleschi, per cui l’architettura è fatta di piani, l’Alberti concepisce l’architettura fatta di volumi. La differenza fra le due personalità si fa sentire un po’ su tutte le principali questioni, nondimeno sull’altro problema che si va dibattendo in quest’epoca, vale a dire la forma dello spazio ideale. Leon Battista ammette che la concezione unitaria riguarda solo lo spazio, non il tipo di edifici; non ricerca dunque la tipologia ideale fra quella a pianta longitudinale e quella a pianta centrale, ma sottopone tutte le tipologie alla stessa struttura spaziale.

IL TEMPIO MALATESTIANO

Nel 1448 a Leon Battista gli si presenta finalmente l’occasione per passare dalla teoria alla pratica; ad offrirgliela è Sigismondo Malatesta (1417–1468), signore di Rimini. Egli vuole per sé, per sua moglie Isotta degli Atti (1432 c. – 1474) e per tutti i rappresentanti più amati della sua corte erigere un tempio mausoleo: nel Medioevo era usanza seppellire le persone illustri nelle chiese. Sigismondo ha la sua chiesa, è San Francesco, ma è gotica, e lui, uomo moderno, la vuole in uno stile al passo coi tempi, e chi può assolvere questo prestigioso compito è l’Alberti. Leon Battista non delude il suo committente: troppo lontano dalle concezioni umanistiche, l’architetto incapsula letteralmente l’edificio preesistente in quello di sua invenzione. Ma andiamola a vedere questa sua creazione, e per far questo spostiamoci per un attimo da Firenze a Rimini.
Questa sua invenzione consiste sostanzialmente nell’usare sintassi e vocaboli classici per dare forma ad un edificio cristiano. Il prospetto della chiesa richiama infatti gli archi trionfali, mentre il fianco gli acquedotti. Le pareti sono concepite come un piano plastico sul quale lo spazio non si disegna, ma si plasma sulla superficie, come in un rilievo a mezze figure. L’idea che si vuole esprimere è quella di un telaio modellato dalla pressione del vuoto esterno che tenta di penetrare all’interno dell’edificio. La facciata è un organismo plastico; spigoli, cornici e tutto il resto non sono concepiti come linee che disegnano lo spazio architettonico, ma strutture di un telaio su cui si annullano pressioni di segno opposto: per l’Alberti lo spazio non è sentito come una realtà metafisica, bensì fisica. L’esterno comprime l’interno, ma questo reagisce come un essere animato: si vengono così a creare con il gioco di queste due forze una serie di rientranze e sporgenze che muovono le superfici. Il movimento porta alla formazione di ombre, ma affinché non si perda il disegno queste non devono essere dense, dunque i rilievi sono bassi.
L’edificio non è stato mai terminato. Stando all’immagine riportata su una delle due facce della moneta commemorativa sagomata da Matteo de’ Pasti (1412 c. – 1468), l’esecutore materiale del progetto, la chiesa doveva essere coronata da una grande cupola. Questa col suo aspetto emisferico avrebbe dovuto assomigliare al Pantheon, ma presentava chiari ed evidenti i costoloni della cupola di Santa Maria del Fiore del Brunelleschi.

IL PALAZZO RUCELLAI

Firenze, palazzo Rucellai
Leon Battista Alberti
ESTERNO (1447/1451)

Più o meno contemporaneamente al tempio Malatestiano Leon Battista crea a Firenze per il ricco mercante (oggi diremmo affarista) Giovanni Rucellai (1403-1481) il palazzo omonimo. Va precisato ad onor del vero che non è del tutto certo che l’opera sia sua, c’è chi, come il Billi (fine XV sec.-inizi XVI sec.), uno scrittore d’arte postumo, lo attribuisce al Rossellino (1409–1464). Sarà pure! Ma a giudicare da molti particolari il palazzo non può essere che dell’Alberti; comunque, come sempre in questi casi, per non far torto a nessuno, se ne attribuisce la paternità un po’ all’uno e un po’ all’altro, all’Alberti va l’ideazione, al Rossellino l’esecuzione: il che sembrerebbe pure ovvio per quanto è stato detto in precedenza. Ciò precisato vediamo ora che forma prendono vocaboli e sintassi dello stile albertiano nella facciata del palazzo, per cui dopo la breve visita a Rimini torniamo a Firenze.
È certo che al momento della costruzione della dimora del Rucellai i progetti del Brunelleschi per il palazzo dei Pitti e per quello dei Medici dovevano aver già fatto scuola. È sicuramente con questi che Leon Battista si confronta quando mette su carta la sua idea di palazzo rinascimentale, un’idea ben chiara fin dall’inizio: per lui l’edificio non si deve far apprezzare per l’ostentazione della propria forza, ma per la manifestazione della propria cultura.
Nella facciata di palazzo Rucellai oltre alle divisioni orizzontali segnate dalle cornici marcapiano ci sono le divisioni verticali delle lesene sovrapposte in tre ordini distinti, Tuscanico, Ionico e Corinzio: chiaro riferimento alla sovrapposizione degli ordini nei monumenti dell’antica Roma. Questa eco degli studi giovanili è anche nella base reticolata del palazzo. Naturalmente i suddetti elementi non sono un espediente per mostrare la propria erudizione, bensì hanno lo scopo di misurare l’edificio e darle un aspetto nobile degno dell’antico. Anche in questo caso l’Alberti usa vocaboli antichi applicandoli ad una sintassi moderna: il palazzo infatti non è una domus, ma una casa fiorentina dell’inizio del XV secolo. Se ci fosse qualche dubbio, si provi a guardare le finestre: sono bifore medievali. Però qui non sono feritoie che si aprono fra la “pelle” spessa della casa-fortezza gotica, servono ad equilibrare e ritmare il ricorrente riproporsi degli scomparti quadrati in cui la facciata si articola. E i muri perimetrali non sono la muraglia medievale che si frappone fra ambiente esterno e ambiente interno, ma sono sentiti come un complesso di piani vivi, disegnati dagli affioramenti e dalle rientranze calibrate della materia, plasmata dalle contrapposte pressioni dello spazio; cornici e lesene poi delimitano una porzione di superficie quadrata sempre uguale. Questa costituisce un modulo: lo spazio della facciata è dunque modulare. È il modulo a definire con le sue successioni la grandezza dell’edificio, ma affinché non si ripeta all’infinito Leon Battista blocca le successioni con lo zoccolo e il cornicione nella sua estensione verticale, e con le paraste nella sua estensione orizzontale.

Firenze, chiesa di Santa Maria Novella
Leon Battista Alberti
FACCIATA DELLA CHIESA (terminata nel 1470)

Sempre a Firenze, contemporaneamente alla costruzione del palazzo dei Rucellai, l’Alberti attende alla realizzazione della facciata della chiesa gotica di Santa Maria Novella. Qui l’obiettivo esplicito è quello di rapportare una struttura ispirata alle nuove istanze, la facciata, ad una struttura preesistente, il corpo basilicale, condotto sulla base delle vecchie. Leone risolve il problema dividendo nettamente in due il prospetto: lascia gotica la parte di sotto e fa rinascimentale quella di sopra. La facciata si iscrive perfettamente in una struttura modulare quadrata anche se non si vede. Il disegno è reale, è formato dalle tarsie marmoree attraverso cui viene regolando il metro gotico su quello rinascimentale. Come nel palazzo Rucellai gli aggetti sono minimi per non interrompere la continuità del disegno delle tarsie; il prospetto è delimitato dalle cornici e dalle paraste per non effondere la superficie luminosa nello spazio ambiente ma per condensarla e distinguerla.

IL DIBATTITO IN SCULTURA

Firenze, Museo dell’Opera del Duomo
Luca della Robbia
CANTORIA DEL DUOMO DI FIRENZE (1431/1438)
Marmo, altezza mt. 3,28 – larghezza mt. 5,60

Montepulciano, duomo
Michelozzo
BARTOLOMEO ARAGAZZI DA L’ADDIO ALLA FAMIGLIA (1427/1438)
Rilievo proveniente dal monumento funebre a Bartolomeo Aragazzi, oggi smembrato
Marmo, altezza cm. 76 circa

Una delle principali cause che spinge all’approfondimento critico la generazione di artisti immediatamente successiva a quella dei fondatori è la questione, apertasi con l’introduzione della prospettiva nel campo delle arti visive, dell’universalità del sistema prospettico come strumento di definizione dell’immagine artistica comune a tutte le discipline. Premesso che la definizione dello spazio è un problema comune a tutti i settori delle arti figurative, ne consegue che: se la prospettiva è un principio spaziale oggettivo e non espediente tecnico, tutte le discipline visive, dal momento in cui sono orientate a definire la forma della natura, ognuna con la tecnica che le è propria, devono per forza tendere a realizzare lo stesso spazio prospettico. Se lo spazio prospettico è uno spazio intellettuale, grafico, di riporto, proiettato su un piano, tutte le arti devono tendere a proiettare l’immagine della realtà tridimensionale su un piano bidimensionale, vale a dire devono tendere a realizzare uno spazio grafico, tracciato linearmente. Questo significa che è perfettamente logico pensare all’architettura come ad una rappresentazione grafica. Ma allora è altrettanto logico pensare alla pittura come ad un’architettura di chiaroscuri colorati e così la scultura come una proiezione di luci e ombre su una lastra di marmo. Insomma nulla vieta di perseguire valori in una disciplina pertinenti a quelli di un’altra. Masaccio costruisce i suoi “quadri” come se dovesse murare degli spazi, Donatello fa bassorilievi colorati, Paolo Uccello fa statue in affresco, lo stesso Brunelleschi in Santo Spirito trasforma la sua concezione di parete come “quadro” grafico in “quadro” plastico tonale.
Le terrecotte invetriate di Luca della Robbia (1400-1482) non sono solo oggetti che hanno una grossa fortuna commerciale, ma rappresentano anche una risposta al problema della sintesi delle tre arti maggiori. Infatti in questi lavori il rilievo si colora in ogni sua parte con tinte dalla brillante cromia smaltata, resa ancor più sfavillante dal lucido dell’invetriatura. Ma Luca non è solo l’inventore di un marchio fortunato. Nella cantoria del duomo di Firenze l’artista prende posizione sulla questione del rilievo.
Contrariamente a Donatello che concepisce il bassorilievo come un disegno fatto con lo scalpello, ma anche contrariamente al Ghiberti che lo concepisce come un dipinto cesellato, Luca lo concepisce come un tuttotondo che si completa idealmente con la partecipazione dell’osservatore. Detto in altre parole lo vede come l’inserimento di una statua in uno spazio ridotto a due soli piani, o se si preferisce di una statua che per metà sta immersa nel limitato spessore materiale della lastra marmorea, come una statua che sfuma sullo sfondo. È un modo di rendere la profondità senza avvalersi della prospettiva lineare brunelleschiana, ma graduando il rilievo dalla massima alla minima sporgenza. Un modo ancora ghibertiano quindi, ma privo di elementi architettonici di mediazione, nonché di ogni residua stilizzazione tardo-gotica.
Nelle formelle decorative della cantoria la profondità prospettica non è data da una quinta architettonica disegnata sul fondo, ma dallo sfumare delle figure, e lo spazio contenuto fra il piano d’affioramento e il piano di massima sporgenza dei volumi è misurato dal degradare del rilievo a mano a mano che dall’esterno si procede verso l’interno. Per aumentare la profondità della lastra Luca non ricorre alla prospettiva ma intensifica il chiaroscuro attraverso l’accentuazione del modellato. L’appagamento di questa necessità lo spinge a servirsi di alcuni particolari, come il gonfiore delle guance dei suonatori per creare punti di massimo rilievo e invadere lo spazio dell’osservatore, e come le bocche aperte dei cantori per creare vuoti profondi. Qui la prospettiva lineare non c’entra, le forme raccolgono la luce e attraverso le infinite variazioni dell’intaglio la trasmettono gradualmente sul fondo fino a spalmarla sull’intera superficie.
Della stessa problematica di Luca si occupa Michelozzo nel monumento Aragazzi, quando fa ancora impresa comune con Donatello. L’opera, che si trova nel duomo di Montepulciano, ora vive smembrata, dislocata in varie parti della chiesa, ma allora, al momento della sua realizzazione, naturalmente, era tutta un pezzo. In particolare, nel pannello raffigurante Bartolomeo Aragazzi che da l’addio alla famiglia, è possibile notare come a quella data Michelozzo si trovi perfettamente d’accordo con la conclusione a cui giunge il suo più giovane collega, Luca; l’unica differenza sta nel maggior rigore filologico con cui egli si pronuncia.

IL MONUMENTO COME SINTESI DI ARCHITETTURA E SCULTURA

Firenze, chiesa di Santa Croce
Bernardo Rossellino
MONUMENTO FUNEBRE A LEONARDO BRUNI (1446/1450)
Marmo, altezza mt. 6 circa

Le parole e la sintassi del latino moderno sono ormai state consegnate alla storia; le opere del Brunelleschi, dell’Alberti, di Donatello e di Masaccio sono i primi saggi in cui compaiono i vocaboli e le regole del nuovo lessico rinascimentale; ai successori non rimane altro da fare che sperimentare nuovi componimenti.
Quando crea il Monumento funebre a Leonardo Bruni, fra il 1446 e il 1450, nella chiesa gotica di Santa Croce, Bernardo Rossellino pensa di porre come argomento di discussione uno schema compositivo, non una visione filosofica del mondo; un modello di cui è anche il primo interprete, pertanto è lui a fissarne i termini oggetto di dibattito.
Il monumento funebre è storicamente una costruzione che vede coinvolte architettura e scultura. La tradizione medievale ne aveva fatto un organismo assai complesso, un monumento, e, all’estremo opposto, un bassorilievo appena affiorante dal pavimento delle chiese. Naturalmente se deve essere un monumento non può essere solo sepolcro, deve contenere anche un elemento architettonico, e l’elemento architettonico è costituito dall’arco: allude al trionfo ma anche alla gloria celeste. A questa impostazione, che costituisce la tipologia tradizionale, Bernardo apporta sostanziali modifiche lessicali e sintattiche. Chiaramente l’arco non ha nessuna funzione strutturale e pertanto può arricchirsi di decorazioni e riferimenti allegorici, ma al posto dei pinnacoli compaiono puttini classici reggicorona. La salma è posta di profilo, su un catafalco orizzontale, in mezzo, fra l’arco e la base, come dire sospesa fra il cielo e la tomba; l’altezza dell’intera struttura è esattamente due volte il diametro dell’arco. Alle spalle del defunto il Rossellino introduce tre lastre verticali di porfido rosso, dimostrando così la sua intenzione di coinvolgere nel complesso monumentale anche una nota pittorica: segno evidente della sua sensibilità al problema della convergenza delle varie discipline artistiche alla definizione della nuova immagine rinascimentale.

IL MONUMENTO COME SINTESI DI ARCHITETTURA E BASSORILIEVO

<Firenze, chiesa di Santa Croce
Desiderio da Settignano
MONUMENTO MARSUPPINI (1453/1455)
Marmo

Nel Monumento a Carlo Marsuppini, eseguito da Desiderio da Settignano, l’obiettivo speculativo è quello di misurarsi con lo schema rosselliniano, cioè non si tratta più di confrontare due modi di vedere la rinascita dell’arte antica, bensì due modi d’interpretare uno schema formale. Dunque con gli scultori della nuova generazione il dialogo continua, ma sul piano formale del componimento, non su quello strutturale del linguaggio.
Il suo monumento è meno scultoreo di quello del Rossellino, più pittorico: ad una visione volumetrica se ne sostituisce una lineare e coloristica. La nicchia dove è collocato il catafalco del Marsuppini è meno profonda ma più larga ed ariosa, il feretro è leggermente ribaltato rispetto al sottostante sarcofago. Questo non è più un cassone geometrico, è un cofano riccamente decorato, un oggetto scultoreo più che architettonico. Gli specchi di porfido sono diventati quattro, e ciò conferisce una nota di colore aggiuntiva al quadro d’insieme. Il monumento non sta tutto dentro la cornice architettonica, ma invade lo spazio in alto, ai lati e in avanti: in alto con un’ornatissima fiaccola, ai lati con genietti alati reggifestoni, e in avanti con dei puttini portastemma. Lo schema architettonico albertiano, rigorosamente rispettato dal Rossellino è rotto da Desiderio.
Tutti questi accorgimenti hanno uno scopo ben preciso: variare e ammorbidire il chiaroscuro fin quasi a farlo scomparire per lasciare il compito di definire lo spazio alle linee di contorno e al colore. È lo stesso obiettivo formale che si ritrova nelle sue numerosissime Madonne con Bambino. Dietro c’è sempre Donatello, ma anche qui, in Desiderio, la sintassi non è dettata dalla concitazione drammatica col quale l’uomo fa la sua storia, né dalla grandezza eroica di Jacopo della Quercia, ma da una languida, indeterminata condizione interiore, e questo lo lega al Lippi, ovvero più ad un pittore che ad uno scultore. Ma c’è una novità notevole: nello schiacciato donatelliano Desiderio trova un nuovo modo di sentire lo spazio; non più vuoto delineato da superfici ma luce diffusa che si addensa e prende forma nella lastra di marmo attraverso il rilievo che increspa la superficie piatta della stele.

Firenze, Museo del Bargello
Mino da Fiesole
RITRATTO DI PIERO IL GOTTOSO (1453)
Marmo, altezza cm. 55

Firenze, San Miniato al Monte, cappella del cardinale del Portogallo
Antonio Rossellino
MONUMENTO AL CARDINALE DEL PORTOGALLO (1461 c.)
Marmo, altezza mt. 4 c
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Sulla stessa frequenza d’onda di Desiderio è Mino da Fiesole (1429–1484), più giovane probabilmente del collega di un anno. La sua sensibilità si piega però all’esigenza di determinare la forma delle cose. Questo suo carattere lo porta a dare il meglio di sé nei ritratti, come in quello del padre di Lorenzo, Piero il gottoso (1416-1469). Ma la puntualità ritrattistica non è dovuta al linearismo espressivo di origine donatelliana quanto piuttosto al suo modo di interpretare il contorno della figura come limite di addensamento delle ombre. Per apprezzare i suoi ritratti occorre pensarli non nel vuoto dell’ambiente che li circonda, ma immersi in una sostanza, la luce, che ora si fa più rada nello spazio ora si addensa nei solchi che lo scalpello produce nel marmo.
Alle tesi di Bernardo e di Desiderio va aggiunta quella che propone il monumento quale sintesi di scultura e pittura. Nel 1461 Antonio (1427–1479), fratello minore di Bernardo, affronta il problema nel Monumento funebre al cardinale del Portogallo. Qui l’architettura è sparita per lasciar posto ad una cavità atmosferica inquadrata dal dispiegarsi di un ampio tendaggio marmoreo.

Rimini, tempio Malatestiano
Agostino di Duccio
ANGELO REGGICORTINA (1450/1457)
Decorazione della cappella di San Sigismondo

Torniamo per un attimo a Rimini. La scoperta di Donatello, lo “stiacciato”, produce un’immediata eco negli scultori della generazione successiva, ma nessuno di questi se ne serve per dare rilievo drammatico alla storia umana, al contrario viene utilizzato come espediente per varare una nuova immagine stilizzata, una specie di rinascimento cortese.
Ad esempio Agostino di Duccio nella decorazione delle cappelle del tempio Malatestiano di Rimini dimostra di aver già deciso in che modo contribuire allo sviluppo della rivoluzione. La base del suo stile particolarissimo è evidente: il bassissimo rilievo donatelliano. Ma del Maestro fiorentino non c’è la benché minima ombra della sua forza drammatica, non c’è traccia dell’architettura; lo schiacciato non gli serve per portare avanti le figure in primo piano, bensì per premerle sul fondo liscio, cosicché l’immagine più che scolpita sembra spalmata e graffita sulla lastra di marmo. Naturalmente la riduzione del rilievo devolve il compito della definizione dello spazio alla linea. È infatti questa che costruisce l’immagine dispiegandosi sulla tenue lievitazione della materia sbalzata. Le sue figure risultano come sospese, prive di sostanza, pure immagini che vanno dissolvendosi nella luminosità intensa della lastra.

IL DIBATTITO IN PITTURA

Firenze, cattedrale di Santa Maria del Fiore
Paolo Uccello
MONUMENTO EQUESTRE A GIOVANNI ACUTO (1436)
Affresco trasferito su tela, altezza mt. 8,20 – larghezza mt. 5,15

Il messaggio dei fondatori del Rinascimento viene afferrato sulle prime da Paolo Uccello e Filippo Lippi, ma non ne viene recepita la carica realistica. La nuova cultura liberale viene interpretata come un mezzo più moderno per arrivare alla trascendenza. Sia l’uno che l’altro interpretano il linguaggio rinascimentale come un mezzo di evasione nel metempirico e non di concretizzazione del metafisico, ma il percorso seguito dai due pittori è diverso: il Lippi per arrivare al trascendente passa per l’esperienza visiva, Paolo no.
Paolo Uccello è dello stesso parere di tutti gli altri riformisti e come questi non intende il senso umanistico contenuto nel messaggio degli artefici rivoluzionari. Per lui le strutture del nuovo linguaggio rinascimentale sono mezzi per trasfondere la realtà nell’astrazione geometrica, e non per materializzare l’astrazione geometrica nella realtà concreta. Per Paolo, come per l’Angelico, la prospettiva è uno strumento per passare dal mondo fisico a quello metafisico, e non come per gli artisti rivoluzionari, passare dal mondo metafisico a quello fisico. Ma contrariamente al frate domenicano lui, che è laico, vede nel mondo metafisico non già il mondo celeste di Dio, bensì il mondo astratto delle discipline razionali.
Come era logico attendersi la prospettiva razionale quale principio generatore dell’immagine pittorica sostenuta da Masaccio nei suoi capolavori, pochi di numero ma rivoluzionari nei contenuti, fomenta le discussioni e le sperimentazioni fra i pittori d’avanguardia attivi nella Firenze della prima metà del Quattrocento. Al centro del dibattito c’è la questione che riguarda il valore strumentale del nuovo canone. La risposta di Paolo Uccello è molto vicina a quella dell’Angelico, ma la trascendenza a cui tende nella sua opera non è quella religiosa del frate, bensì quella laica degli umanisti. Esattamente all’opposto del domenicano, che vede nella prospettiva uno strumento di controllo della propagazione naturale della luce, Paolo si serve del nuovo mezzo espressivo non già perché gli interessi provarne la validità come strumento di conoscenza del Creato, bensì perché vuole provarne la validità quale strumento di astrazione e liberazione dall’obbligo della riproduzione del vero. Per lui, la nuova cultura rinascimentale serve solo a dimostrare come la visione laica possa creare, anche se su un piano completamente diverso, uguali effetti di trascendenza dalla realtà empirica che la cultura tardo-gotica, una trascendenza in senso laico-razionalista invece che in senso mistico-naturalista. Ne scaturisce un‘immagine che non rimanda al senso del naturale, bensì suscita l’idea del metafisico, che altro non è se non una stilizzazione laica.
Contrariamente a quanto vanno realizzando i suoi colleghi invece di fare dell’ortodossia scientifica un modo per razionalizzare l’esperienza, egli ne fa motivo di condensazione di un mondo irreale, metempirico.
Ad esempio nel monumento equestre dedicato al capitano di ventura John Hawkwood (1320 c. – 1394), ribattezzato in Italia Giovanni Acuto, affrescato in Santa Maria del Fiore nel 1436, il rigore prospettico vorrebbe il cavallo con la pancia vista da sotto in su, mentre l’esigenza di vederlo di prospetto ne impone il raddrizzamento sul piano frontale. Ebbene Paolo non tenta neppure di conciliare le due esigenze, trae invece spunto dal loro conflitto per realizzare un’immagine prospettica a doppio punto di vista, col preciso scopo di acuire le stranezze e farne motivo di apprezzamento visivo. Stando sempre all’ortodossia rinascimentale il cavallo dovrebbe risultare anche arretrato rispetto allo spigolo del coperchio dell’arca dove, insieme al cavaliere, dovrebbe essere saldamente ancorato, e invece, contro ogni aspettativa, stando alla posizione delle sue zampe, il destriero sembra in bilico sul rettifilo del lastrone di chiusura del basamento. È quanto mai evidente quindi che Paolo vuole sacrificare la scientificità alla volontà di vedere il monumento di prospetto. Così proprio lui, fanatico della prospettiva, non rispetta le regole prospettiche. Dunque all’Angelico per cui la prospettiva è uno strumento che serve a rivelare l’essenza geometrica del Creato, ma anche a quanti vedono la prospettiva come mezzo per ordinare la realtà oggettiva, come aveva teorizzato l’Alberti, Paolo risponde che la prospettiva è solo uno strumento per mettere le cose nello spazio, non una legge di natura. Se anche per lui il quadro prospettico è il piano su cui si configura il contenuto della coscienza, quella di Paolo però non è la coscienza della verità della storia, né tanto meno della verità della religione, bensì la coscienza della irrealtà della prospettiva come sistema interpretativo della realtà. Con lui la forma, la sagoma geometricamente definita, chiara, logica della natura non è una verità che si evince dalla storia o dall’osservazione della natura, né è una verità che si ricava dalla teoria, è la misura del divario fra il modo di vedere le cose secondo giustezza e secondo fantasia.

Firenze, Galleria degli Uffizi
Paolo Uccello
BATTAGLIA DI SAN ROMANO (1456/1460)
Episodio del disarcionamento di Bernardino della Ciarda
Tempera su tavola, altezza mt. 1,82 – larghezza mt. 3,23

Nelle tre tavole che raffigurano tre diversi episodi della battaglia di San Romano, specialmente in quella dove è riportato il disarcionamento di Bernardino della Ciarda (1389-1437), Paolo approfondisce il discorso puntando, ancor di più che nelle opere precedenti, sulle proprietà astrattive del colore, oltre che su quelle della prospettiva. E così ecco che fra lance spezzate in primo piano, disposte come linee di fuga verso l’orizzonte, appaiono improbabili cavalli rosa e grigio cenere, montati da cavalieri corazzati di armature bigie, prive di riflessi metallici, su un paesaggio rabbuiato da cupi cespugli e torbide terre grigio-brune. Il carattere anticonformistico delle tavole ha un obiettivo diretto: una garbata lezione al giovane emergente del momento, Piero della Francesca, che poco prima, nel 1452, ha iniziato ad affrescare il coro della chiesa di San Francesco ad Arezzo.

Firenze, chiostro della chiesa del Carmine
Filippo Lippi
LA CONFERMA DELLA REGOLA (1432/1433)
Affresco frammentario

Fra’ Filippo Lippi è un pittore del nuovo secolo e per lui la tradizione gotica è ormai estinta; guarda agli innovatori fiorentini e fiamminghi per avere una visione positiva del mondo. Il risultato non si configura in un prodotto eclettico poiché elabora le diverse fonti in modo personale. Filippo Lippi nasce a Firenze quando la città è ancora in pieno tardo-gotico; muore a Spoleto (o a Perugia) mentre, insieme ad un suo collega, fra’ Diamante (1430 c. – 1498), attende agli affreschi nel coro del duomo. Nel 1419, alla giovanissima età di 13 anni entra nell’ordine dei Carmelitani; ne esce, ormai maturo, per sposare una suora di circa vent’anni più giovane, Lucrezia Buti (1435–XVI sec.), la quale per seguirlo, prima tenta due volte di fuggire dal convento in cui è distaccata, poi richiede e ottiene lo scioglimento dei voti. Dal loro amore nasce, nel 1457, Filippino, che diventerà a sua volta un importante pittore.
Fra’ Filippo ha vent’anni quando, ordinato ad officiare le funzioni religiose nella chiesa del Carmine, entra in contatto diretto, per la prima volta, con la nuova cultura figurativa. Infatti, in quegli stessi anni, in quella stessa chiesa, Masaccio, insieme a Masolino, sta portando avanti la decorazione della cappella Brancacci con le storie di San Pietro. Egli non sa ancora di diventare un pittore, ma già a questa data guarda con curiosità al dibattito che si svolge in campo artistico ai massimi livelli, e al momento del suo esordio, nel chiostro del Carmine, Masaccio lo ha già aiutato a superare la stilizzazione gotica, ma della gravità morale del ribelle non c’è traccia.

Milano, Musei Civici del Castello Sforzesco, Milano
Filippo Lippi
MADONNA DELL’UMILTÀ (1432)
Detta Madonna Trivulzio
Tempera su tavola, altezza cm. 85 – larghezza cm. 168

Roma, Galleria Nazionale d’Arte Antica
Filippo Lippi
MADONNA DI CORNETO-TARQUINIA (1437)
Tempera su tavola, altezza cm. 114 – larghezza cm. 65

Le più importanti opere lippesche si trovano sparse in diverse città, per cui se le si vuole vedere occorre spostarsi ipersonicamente con la Nuova Argo a Roma, Milano e Prato. All’inizio a fra’ Filippo la prospettiva lineare dei rivoluzionari sembra non interessi. È attratto piuttosto dalla prospettiva plastica di Luca della Robbia. Infatti nel 1432 si pone nella Madonna Trivulzio lo stesso problema che si pone lo scultore nella cantoria del duomo: passare dallo spazio naturale a quello figurativo direttamente, con la sola mediazione delle figure. Ecco dunque che il novizio Lippi tratta la superficie del quadro come un piano da cui fa emergere le figure attraverso la modulazione della luce naturale, senza bisogno di ricorrere all’allestimento di quinte prospettiche. Libero tanto dal dogma tomistico quanto dallo scientismo prospettico Filippo Lippi guarda alla natura con gli occhi dello sperimentatore. Artista della stessa generazione di Masaccio, non sente né il problema del rapporto con la tradizione, principale motivo ispiratore del programma culturale di Lorenzo Ghiberti, né il problema della laicizzazione dell’arte di cui si sta occupando Beato Angelico. Sente però quello della contraddizione fra spazio empirico e spazio teorico, sorto in seguito alla diffusione dell’arte fiamminga. Spirito curioso e pragmatico non si interessa a risolvere in sintesi la contraddizione, preferisce servirsi delle due diverse concezioni in qualità di strumenti da utilizzare ai fini della comprensione del mondo. Nella Madonna di Corneto-Tarquinia del 1437 il centro della composizione è il volto della Vergine, la quale siede su un prezioso trono mentre cerca di bilanciare con una lieve flessione del busto lo slancio energico del Bambinello. Qui gli elementi della cultura italiana si affiancano ad elementi della cultura fiamminga; l’attenzione ai volumi, ispirata a Masaccio, si accorda alla cura per il paesaggio e gli effetti di luce che Filippo Lippi ha studiato nei maestri fiamminghi durante il soggiorno di Padova del 1434. Gli elementi del linguaggio italiano sono riscontrabili nel risalto plastico derivato da Masaccio, nel gusto per i gesti familiari e gli scorci di Donatello, nella potenza plastica nonché resa naturalistica vicina alle sculture delle due cantorie del duomo di Firenze sempre di Donatello e di Luca della Robbia nella resa del Bambino. Elementi della cultura fiamminga si rilevano nell’attenzione per l’ambiente, nello spazio costruito a grandangolo (si noti il letto fortemente scorciato a destra e la finestra aperta sul paesaggio a sinistra), nell’attenzione per gli effetti luminosi, ovvero la resa dello splendor (lustro), il riflesso della luce sulle stoffe e sui gioielli, delle screziature del marmo, del libro sul bracciolo. Una precisa citazione fiamminga si trova poi nel cartiglio con la firma appoggiato alla base del trono. Stanti questi puntuali riferimenti figura e ambiente non si unificano, restano separati; gli elementi rinascimentali toscani restano in superficie, mentre gli elementi fiamminghi si collocano sullo sfondo, non si integrano; la figura non entra nello spazio, resta schiacciata contro il piano limite del dipinto. Dunque in quest’opera fra’ Filippo non trova una sintesi tra impostazione fiamminga e italiana, bensì solo un compromesso, comunque un valido risultato per una valida ragione: la comprensione della natura. Nella Madonna di Corneto-Tarquinia va rilevato anche il primo annunciarsi dello stile che distinguerà sempre meglio l’opera dell’artista. La luce diffusa dell’ambiente esterno penetra nel quadro attraverso la superficie del dipinto, scivola sulle figure e si diffonde all’interno della quinta scenica, la quale, dopo averla fissata, la ributta in avanti, sul primo piano. In questo modo il soggetto principale è doppiamente illuminato, dal davanti e dal di dietro, risultando così schiacciato come in un bassorilievo di Donatello. Filippo Lippi cioè si serve della prospettiva empirica per creare dei piani riflettenti che rimandano i raggi luminosi sul “quadro”. Ne risulta un inevitabile appiattimento di tutto quello che si trova fra il primo piano prospettico e lo sfondo: è lo stesso risultato che si ha quando si fotografano gli oggetti in controluce col flash per ammorbidirne le ombre. Allo scopo di compensare la perdita di consistenza dovuta alla riduzione del tono delle ombre fra’ Filippo si vede costretto ad aumentare la superficie esposta alla luce diretta. In questo modo si perde l’impostazione giovanile iniziale e al posto del volume masaccesco subentra come elemento strutturale la linea donatelliana.
A questa data l’arte per Filippo Lippi è si una via all’esperienza, tuttavia l’esperienza non è fine a sé stessa. Di fatto l’attività creativa resta un mezzo attraverso il quale esprimere il bello, e il bello per lui va, come per il Ghiberti, ricercato negli accordi degli andamenti delle linee e nelle fini modulazioni della luce.
Il Lippi è considerato un naturalista in quanto parte dal dato sensoriale ma poi pensa a come creare un insieme armonico con la continuità delle linee e con la regia delle luci; supera la stilizzazione gotica, ma ne trova un’altra, rinascimentale.

Firenze, basilica di San Lorenzo, cappella Martelli
Filippo Lippi
ANNUNCIAZIONE (1440 c.)
Tempera su tavola, altezza mt. 1,75 – larghezza mt. 1,83

Nell’Annunciazione della cappella Martelli, di San Lorenzo, dipinta a 34 anni, l’attenzione di fra’ Filippo si rivolge alla definizione del rapporto spazio teorico e luce naturale. Trova la soluzione nel fare della prospettiva un apparato di propagazione della luce. Ciò dimostra che l’artista ha ormai ben assimilato la lezione di Lorenzo Ghiberti. Usa la prospettiva per allestire un apparato scenico fatto di schermi riflettenti che servono ad amplificare in modo illusionistico la profondità e a far grandeggiare le figure in primo piano. Come Ghiberti, vede nella prospettiva un mezzo per regolare la diffusione della luce sulla superficie del dipinto, ovvero, stando alla teoria, sulla base della piramide visiva. Anche per lui la prospettiva è uno strumento e non un’ideologia, un modo per vedere e non una visione del mondo.
Quando passa alle figure dimostra di aver ben assimilato la lezione di Donatello, il quale gli ha insegnato come estrarre dalla massa naturale delle cose l’essenza e, nello stesso tempo, come esporla in modo chiaro, eliminando gli effetti indesiderati dei contrasti luminosi. Ma dal Maestro rivoluzionario non impara come dominare lo spazio ambiente; al contrario di Donatello la figura umana non conquista di forza lo spazio con un atto volitivo, si rapporta ad esso in maniera naturale, con discrezione, quasi obbedendo ad un sentimento di sintonizzazione con la vita cosmica. Anche in quest’opera tra figura e sfondo non c’è integrazione, le due cose continuano a restare separate. Le figure sul fronte non vogliono entrare nello spazio prospettico, né vogliono rimanere ai margini, prese fra due fonti di luce, quella naturale, proveniente dall’esterno, e quella artificiale, interna al dipinto, rimanendo così come intagliate su una quinta graffita, disegnate sullo sfondo: il Lippi dunque rimane al compromesso, non arriva alla sintesi.

ARTE COME RAPPRESENTAZIONE DELLA RAGIONE ETICA O ARTE COME RAPPRESENTAZIONE DEI SENTIMENTI?

Prato, duomo
Filippo Lippi
BANCHETTO DI ERODE (1452/1464)
Particolare della decorazione parietale del coro
Affresco

Uno dei problemi più sentiti dopo l’apparizione sulla scena della storia dell’arte dei due artisti rivoluzionari Filippo Brunelleschi e Donatello è quello di come le figure costruiscono lo spazio, se con la statica dei volumi, come sostiene la linea brunelleschiana, o con la dinamica dell’azione, come sostiene la linea donatelliana. Filippo Lippi non prende partito sul dibattito, tuttavia si sente più vicino alla linea donatelliana, ma con importantissime riserve. In fase matura il suo interesse è sempre più incentrato sulla diffusione della luce naturale nello spazio prospettico; si chiede cos’è che mette in moto la radiazione luminosa, che la fa vibrare su oggetti e persone, ovvero nello spazio. Nel ciclo di affreschi del duomo di Prato è di scena la storia, quindi Filippo Lippi si deve occupare in modo particolare del moto della figura umana. Coglie così l’occasione per trovare la risposta alla sua domanda: cos’è che mette in moto la radiazione luminosa. Per trovarla interroga il solito Donatello, ma lui non crede che a mettere in fremito la luce sia l’azione consapevole, eroica, storica, bensì l’agire spontaneo, indotto dalle reazioni umane alla situazione, sospinto dai sentimenti. Per questa via egli apre la strada al problema della rappresentazione del movimento fisico del corpo umano come principio di animazione dello spazio luminoso. Protagonista del ciclo di affreschi è dunque la luce, una luce che si fissa sempre meno sulle cose e vibra sempre più sulla loro superficie, propagandosi nello spazio pervaso di atmosfera. Cosicché, nelle opere più mature, ad una immagine controllata si va sostituendo pian piano un’immagine meno riferibile all’immobilità dell’essere e sempre più vicina all’instabilità, alle vacillazioni, alla mutevolezza del divenire. È per questo che il mondo metafisico dei concetti dalle sembianze naturali, gli spazi senz’aria dei fondatori, con Filippo Lippi si trasformano in un mondo dove le “statue” diventano persone, percorse ed animate da sentimenti umani, vive in un ambiente naturale.
Il Lippi di Prato è dunque un Lippi sempre più lontano dagli ideali dei fondatori, sia per quanto riguarda la concezione della luce come sintesi sia per quanto riguarda l’interpretazione dell’azione dell’uomo come principio generatore dello spazio: lo sfondo diventa un gioco di piani sempre più complesso e assoggettato al movimento delle figure. Queste si fanno sempre più mobili, ma il principio che le anima non è il gesto storico, né la ragione metafisica, né la volontà divina, bensì il moto naturale dei sentimenti: per Filippo l’azione umana non ha niente di storico, né rivela alcun disegno divino. Il suo uomo non è già più l’uomo degli umanisti, fiducioso di sé, delle proprie capacità, consapevole dei propri limiti, l’uomo albertiano per intenderci, ma l’uomo comune, l’uomo preda degli umori, delle emozioni, l’uomo irrazionale, che vive immerso nella natura; la relazione fra le figure non è dettata da leggi universali, ma dagli stati d’animo, e le figure non nascono dalle ineluttabili verità del dramma, ma da una indeterminata, vacua, risposta sentimentale alle situazioni di fatto.
In lui, naturalista, si va sempre più precisando l’idea che a creare l’azione non è la volontà umana, cioè il gesto chiaramente finalizzato alla produzione dell’effetto voluto, ma è l’impulso interiore, cioè il moto indefinito, definalizzato, che produce nell’uomo reazioni imprevedibili. Con il Lippi si apre così il conflitto fra concetto e sentimento: siamo ormai alle soglie di un cambiamento generalizzato nella concezione dell’arte. La divina disciplina non è più sentita come ricerca dell’essere nella natura e nella storia, ma come ricerca del modo di sentire umano le cose del mondo; l’artista non ammira il Creato, lo sente nell’esperienza che compie. In tal modo la natura diventa lo specchio dell’anima, e questa non si proietta, si fenomenizza per mezzo dell’arte.
Col Lippi l’attività creativa assume il carattere di uno metodo di ricerca, e come tale si contrappone alla concezione dell’arte come strumento dimostrativo. È lui che determina la nascita della tendenza sperimentale che attraverso il Verrocchio (1435-1488) porta a Leonardo (1452-1519) e Botticelli (1445-1510).

Firenze, Galleria degli Uffizi
Domenico Veneziano
PALA DI SANTA LUCIA DE’ MAGNOLI (1445/1447)
Tempera su tavola, altezza mt. 2,09 – larghezza mt. 2,16

Il primo a risolvere in sintesi le contraddizioni fra spazio teorico e spazio empirico è Domenico Veneziano, l’artista che con ogni probabilità ha portato la novità della pittura ad olio dalle Fiandre a Firenze. Se lo scopo dell’arte è la conoscenza dell’essere e l’essere è unico, non possono esistere due verità contrastanti. Per il Veneziano spazio teorico e spazio empirico possono andare d’accordo se si rinuncia però a qualsiasi idea di animazione dello spazio pittorico. Ciò significa abbandonare la concezione di un’arte indirizzata alla rappresentazione dei sentimenti, ovvero al naturalismo del Lippi. Nel 1439 lo troviamo a Firenze nella chiesa di Sant’Egidio dove sta lavorando agli affreschi del coro; gli è accanto un giovane aiuto: Piero della Francesca. Il ciclo, importantissimo per la storia dell’arte rinascimentale è andato perduto. Tuttavia è abbastanza verosimile che lì venisse posto in termini chiari il suo punto di vista sul rapporto spazio-luce.
Se sia avvenuto a Sant’Egidio il chiarimento o no, nel 1445/1447 Domenico Veneziano espone nella Pala di Santa Lucia de’ Magnoli, in antagonismo con Andrea del Castagno, impegnato negli affreschi di Sant’Apollonia, ma anche con Filippo Lippi, la sua concezione. Per Andrea lo spazio è creato dalla figura umana che la luce incidente plasma scorrendo sulla superficie; per Domenico lo spazio è creato dalle cose che trattengono e fissano la luce. Lo sfondo architettonico non la propaga, ma la fa propria; anche le figure sono modellate come volumi luminosi e non illuminati. Lo spazio risulta dalla giustapposizione delle tinte, non dal loro contrasto; non c’è densità atmosferica e l’ambiente risulta un vuoto che si identifica con l’assoluta coincidenza fra spazio e luce. Ne risulta un mondo fatto di cristallo, di smalti traslucidi, un mondo ideale.
Lavorando sul rapporto forma geometrica/illuminazione Domenico arriva a conclusioni opposte a quelle dei suoi colleghi: ciò che per loro è insanabile contraddizione per Domenico è lampante identità. Infatti l’effetto luminoso non disarma l’impalcatura prospettica, né la prospettiva rende illogiche le sembianze, al contrario rivela la perfetta geometria del Creato. In ciò l’artista si dimostra solidale con Beato Angelico. Ma la luce rivelatrice del Veneziano è luce naturale, di origine solare, non divina, proietta ombre, anche se tenuissime.
Per lui la luce naturale non è veicolo trasfigurante, anzi, contrariamente a quanto vanno sostenendo l’Angelico e il Lippi, è la sostanza fisica che prova laicamente la fondamentale razionalità del mondo, e lo dimostra quando, col suo “obiettivo”, riesce a cogliere l’attimo fatato in cui l’illuminazione concreta, naturale, indagatrice delle minime accidentalità, il lume dei fiamminghi insomma, rivela l’ordine geometrico delle cose, rendendo così possibile l’identificazione di sostanza ed essenza universale.

Berlino, Staatliche Museen
Domenico Veneziano
ADORAZIONE DEI MAGI (1440 c.)
Tavola, diametro cm. 84

Di Domenico di Bartolomeo, detto Domenico Veneziano non si conosce la formazione. Il tondo con l’Adorazione dei Magi lo vede come artista impegnato a sintetizzare esperienze diverse. Infatti in questa tavola cerca di trovare la risultante fra le tre componenti culturali che la definiscono: la rinascimentale di Masaccio (nella Madonna e nei cavalli, a destra); la gotica internazionale di Gentile da Fabriano (nei costumi dei personaggi in primo piano) e di Pisanello (nel realismo degli animali, come nell’elegantissimo pavone, nel minuscolo particolare dell’impiccato); e la fiamminga (nella veduta panoramica del paesaggio). Il fondo, spaziosissimo (sembra una foto fatta col grandangolo) raccoglie la luce cristallina di una giornata primaverile; dopo aver messo a fuoco ogni minimo dettaglio si riversa sul fregio umano del primo piano per andarsi ad immedesimare con le masse delle figure. Ciò dimostra che già all’epoca Domenico Veneziano aveva intuito che non v’è antitesi tra spazio dei volumi e spazio delle cose né tra prospettiva e luce. Per lui infatti la luce non è uno dei due principali scogli tra l’interpretazioni fiorentina e fiamminga, al contrario è l’elemento figurativo che può saldare i due sistemi della visione. D’altronde una sintesi ci voleva poiché in un comune sentire l’arte come mezzo di conoscenza dell’essere non si può ammettere che ci siano due verità altrettanto valide.

Firenze, chiesa di Santa Maria Nuova
Andrea del Castagno
CROCIFISSIONE (1444)
Affresco, altezza mt. 3,35 – larghezza mt. 2,85

Il tema espressivo riguardante il rapporto spazio-luce interessa anche un giovane provinciale, Andrea di Bartolo, detto del Castagno, dal nome del paese d’origine, Castagno, un piccolo centro che si trova alle pendici del Falterona, a 700 mt. di altezza, immerso fra castagneti secolari. Da qui Andrea muove alla volta di Firenze per intraprendere la carriera di pittore, che però dura ben poco, morendo, molto probabilmente di peste, il 19 Agosto del 1457, alla giovane età di 36/38 anni. La sua non è stata certo una vita che si possa definire felice e spensierata. Nel 1440 debutta nella capitale toscana, nel palazzo del Podestà (il Bargello), dipingendo dei ribelli, giustiziati in seguito alla sconfitta subita ad Anghiari, impiccati a testa in giù, appesi per un piede: da allora fu soprannominato Andrea degli Impiccati. Non si sa per quale motivo il Vasari abbia messo in giro la favola dell’omicidio di Domenico Veneziano per mano sua: naturalmente una balla dal momento che il Veneziano, benché di circa 15 anni più anziano, muore quattro anni dopo di lui. Fin dai primi lavori dimostra che anche per il giovane Andrea il problema del rapporto fra spazio empirico e spazio teorico riguarda solo l’ambiente naturale; molto più importante è stabilire il rapporto tra moto eroico dell’uomo e moto naturale della luce. Per il talentuoso provinciale la questione che riguarda l’interpretazione dell’arte come rappresentazione razionale o empirica è una falsa questione; il vero problema non è quello di rappresentare lo spazio, ma quello di stabilire il modo di essere nello spazio. La sua soluzione è che tutto si compendia nella figura umana, colori e geometria sono parte integrante di essa così come spazio e luce sono sue funzioni: questo significa che fin dai primi lavori il ragazzo si schiera dalla parte di Donatello. E infatti parte Andrea dalle stesse premesse del Lippi: il linearismo plastico di Donatello che delinea e appiattisce le masse di Masaccio. Ma la linea che a Filippo serve per rendere più umane le sue figure ad Andrea serve per rendere più ruvide e aggressive le sue, esasperando l’espressionismo donatelliano.
Nella Crocifissione di Santa Maria Nuova del 1444 il richiamo a Masaccio è esplicito; ma qui il cubo spaziale è compresso e le figure sembrano appiattirsi e dilatarsi sul piano del dipinto, cosicché la costruzione e la definizione dell’immagine è demandata alla linea. La luce scivola lungo le paraste laterali, poi attraverso le bianche vesti dei due santi, collocati ai bordi estremi del riquadro architettonico, dietro queste, si riflette sulle pieghe del manto della madonna e di quello di san Giovanni, per finire concentrata sul corpo di Gesù Cristo in croce.
Più che un dipinto l’opera sembra una lastra sbalzata e smaltata, ogni personaggio risulta determinato dal verso della luce e dal grado di dolore espresso dalle pose e rimarcato dall’andamento tormentato delle pieghe che increspano i panni degli astanti.
A Beato Angelico che vede la storia come evento determinato dalla volontà divina, ma anche a Filippo Lippi che la vede invece come frutto dei sentimenti umani, Andrea risponde che la storia è determinata dalla volontà dell’uomo e dal senso di responsabilità col quale agisce nell’ambito della realtà naturale così come nell’ambito della realtà temporale.

Firenze, refettorio di Santa Apollonia
Andrea del Castagno
RESURREZIONE, CROCIFISSIONE E DEPOSIZIONE (PARTICOLARE DELLA DECORAZIONE PARIETALE) (1445-1450)
Affresco, altezza tot. mt. 9,10 – larghezza tot. mt. 9,75

Firenze, refettorio di Santa Apollonia
Andrea del Castagno
CENACOLO (PARTICOLARE DELLA DECORAZIONE PARIETALE) (1445-1450)
Affresco, altezza tot. mt. 9,10 – larghezza tot. mt. 9,75

Negli affreschi del refettorio di Sant’Apollonia Andrea chiarisce la sua posizione riguardo all’esistenza delle due maniere di rappresentare lo spazio figurativo, la teorica, rinascimentale, e l’empiristica, fiamminga. Stando dalla parte dei rivoluzionari, respinge sia la soluzione scientista unilaterale di Paolo Uccello che esclude l’interpretazione fiamminga, sia la soluzione conciliante di Filippo Lippi che accoglie entrambe le interpretazioni in quanto strumenti utili alla conoscenza positiva delle cose; subordina tutte e due i modi alla rappresentazione della figura umana. Nega dunque la pittura di Filippo Lippi per cui spazio empirico e teorico sono schermi che riflettono la luce; respinge la pittura di Paolo Uccello per cui luce e volumi sono funzione dello spazio teorico. Con lui spazio, volume e luce si compendiano nella figura umana; è questa ad imporre con la propria forza vitale tanto alla luce quanto allo spazio di farsi struttura. Opera matura, negli affreschi del refettorio invece di ammorbidire, Andrea inasprisce i toni della polemica tra istanze umanistiche e istanze naturalistiche, contrapponendo alle soluzioni di coesistenza fra le due visioni avanzata dai riformisti, ma anche dagli innovatori moderati, la sua ortodossia umanistica senza concessioni. Le argomentazioni certo non gli mancano; la più importante nasce da una riflessione nella quale si convince che se lo scopo fondamentale dell’arte è quello di definire l’essenza, e l’essenza si definisce superando l’esperienza dei sensi, allora stare all’esperienza non serve. Non serve a niente guardare alla realtà se il problema prioritario è quello di scegliere con quali strumenti interpretare l’esperienza, la ragione, la cultura storica o la cultura religiosa. Cultura religiosa è quella dell’Angelico; cultura laica è quella di Masaccio e di Donatello. Andrea non ha dubbi sulla scelta da compiere: per lui l’arte è si una questione di fede, fede nella cultura storica, quella dell’antico ritrovato, quella di Masaccio e di Donatello. Nel Cenacolo l’impostazione prospettica parrebbe rigorosa, ma ad un’attenta analisi si vede che le pareti laterali e il soffitto a scacchi bianchi e neri se fossero correttamente disegnati darebbero un senso di profondità maggiore di quello che è dato percepire. Eppure la profondità si sente. Evidentemente lo spazio non lo fa la prospettiva ma la presenza della figura umana. Sono i commensali che con la loro corporeità misurano la capienza della sala dove si svolge l’evento religioso, la rendono meno ampia di quello che il corretto disegno prospettico suggerirebbe. Ricorrendo all’ausilio di mezzi grafici è possibile constatare come la sala priva delle figure si appiattirebbe. Sono loro che con i loro gesti, le loro diverse sfumature di stati d’animo rendono vivo uno spazio altrimenti astratto. L’altro elemento importante ad intervenire nella definizione della scena è la luce. Questa non riempie il vuoto del triclinio, ma trascorre sulle cornici per procedere con ritmo ondulante sui commensali: l’effetto che ne risulta è lo stesso che in un bassorilievo sbalzato nel bronzo di Donatello. Appare evidente l’esplicita intenzione di Andrea di voler affermare che lo spazio prospettico è funzione della figura umana. È questa che con la sua presenza dà senso alla natura, alla luce, allo spazio; senza di lei la natura si immobilizzerebbe, la luce ristagnerebbe, lo spazio si annienterebbe. C’è anche un altro elemento che va considerato. La sala dove si svolge il cenacolo è un’ambiente antico: lo dicono i marmi preziosi alle pareti, i fregi, i capitelli, le cornici, le sfingi. Ebbene anche questo ambiente antico privato della realtà presente di Gesù e degli apostoli non avrebbe più profondità, non sarebbe più storia.

Firenze, Galleria degli Uffizi
Andrea del Castagno
PIPPO SPANO (DALLA VILLA DI LEGNAIA) (1450 C.)
Affresco staccato, altezza mt. 1,65 – larghezza mt. 1,45

Firenze, cattedrale di Santa Maria del Fiore
Andrea del Castagno
MONUMENTO EQUESTRE A NICOLÒ DA TOLENTINO (1456)
Affresco trasferito su tela, altezza mt. 8,33 – larghezza mt. 5,12

Negli affreschi della villa di Legnaia Andrea rinnova la sua proposta di soluzione del problema del controllo della luce, ovvero del rapporto fra spazio virtuale e luce. Dal suo punto di vista la conoscenza storica non serve a spiegare la natura, ma a costruire la figura umana affinché grandeggi nello spazio; la luce non serve a trascendere i fatti, o, peggio ancora, a confonderli, ma a renderli più evidenti. Andrea si oppone così sia alla scienza sperimentale del Lippi che alla teologia dell’Angelico; contro la verità dogmatica e l’indeterminismo concettuale erge le sue statue animate da una ben precisa volontà di essere, certe e sicure di sé, dominatrici dello spazio naturale. Non c’è bisogno di allestire nessuna scena per controllare l’illuminazione, sembra dire Andrea, basta la “figura storica”, nella cui struttura ideale s’identifica la luce: questo spiega perché le statue dipinte di Andrea sono così dure e lucenti, quasi fossero sbalzate nel metallo. Vent’anni dopo al monumento dedicato a Giovanni Acuto di Paolo Uccello, Andrea del Castagno affianca il monumento dedicato a Niccolò da Tolentino. L’impostazione spaziale è la stessa, ma mentre il condottiero dipinto da Paolo s’inserisce armoniosamente nel vuoto dell’esedra, quello di Andrea lo conquista con la forza. Il cavallo dell’Acuto è statico, è una presenza spaziale come il resto, il cavallo del da Tolentino è dinamico, è tutto un gioco di masse muscolari in potente avanzamento; non è un’essenza metafisica, è un’essenza fisica; la composizione prospettica di Paolo si trasforma in una composizione monumentale, statuaria. L’opera non commemora l’eroe defunto, lo coglie nel momento in cui trascorre tra i vivi; non è una realtà che si trasforma in idea, ma un’idea che s’invera.

L’UTOPISMO URBANISTICO

Pienza
Bernardo Rossellino
CENTRO MONUMENTALE (1458/1462)

Uno dei fenomeni più importanti che vengono a prodursi in seguito allo stravolgimento della tradizione medievale per opera della nuova ideologia rinascimentale è l’utopismo urbanistico.
Nel Rinascimento anche la città deve risultare il prodotto di una teoria. Al contrario di quella medievale il cui sviluppo si profilava spontaneamente sulla base delle necessità quotidiane della gente, la città rinascimentale è invece una struttura pianificata.
La maggior parte dei progetti propongono tracciati geometrici a scacchiera o radiocentrici. Lo scopo ideologico è comune: comunicare con l’ordine urbano l’idea di un perfetto ordine politico.
Naturalmente pochi piani hanno visto la luce, causa l’instabilità dei governi. Alcuni furono iniziati, ma poi abbandonati. Il primo a venire al mondo in concreto e restarci è il centro di Pienza; il suo autore, Bernardo Rossellino.
Papa Pio II Piccolomini (1458-1464) incarica nel 1458 il Rossellino di progettare e costruire la città di Pienza al posto del paese di Corsignano. L’architetto concepisce la città di Pio II come una vera e propria opera d’arte monumentale, un oggetto a scala urbana. Personalmente ne realizza il nucleo centrale in quattro anni.
Al centro della città c’è la piazza, ma non è più il cuore della vita comunitaria, bensì la corte d’onore del palazzo del signore, come tale ha una forma regolare e una veste architettonica unitaria.
La piazza è il fulcro di un sistema di quinte costituita da tutti gli edifici che ne delimitano l’estensione; tra questi non manca mai la chiesa e il palazzo del signore. Fra lo spazio chiuso delle costruzioni e quello aperto dello slargo ce ne è uno di mediazione che è costituito dallo spazio coperto ma aperto dei portici. Il palazzo del signore non si impone, come dice l’Alberti, con la sua mole, non è un mastio fortificato dall’aspetto minaccioso, ma è un’opera che si impone con la sua bellezza, e questa consiste nell’avere proporzioni armoniose, aspetto dignitoso e linee architettoniche classiche.

I SENESI

Londra, National Gallery
Stefano di Giovanni di Consolo da Cortona detto Il Sassetta
PROVA DEL FUOCO (1437/1444)
Pannello della cosiddetta Pala di Borgo san Sepolcro
Tempera su tavola, altezza cm. 88 – larghezza cm. 52

La tesi dei giovani rivoluzionari, e cioè riproporre l’arte classica alla luce delle nuove conoscenze negando la tradizione, si presta ad essere facilmente avversata dalla sua naturale antitesi, ovvero riproporre la tradizione negando la cultura rinascimentale. Certo per renderla operativa occorre trovare qualcuno disposto a sostenerla, e ciò è possibile solo se questo qualcuno abbia delle buone ragioni per incamminarsi in un percorso del genere. Ebbene questo qualcuno c’è: è Siena, ed ha una ragione più che valida: essere il primo comune d’Italia. Voler frenare la rivoluzione culturale e procedere a piccoli passi verso l’aggiornamento vuole significare contrapporsi anche sul piano artistico a Firenze, sua rivale politica.