LE RADICI REMOTE DEL QUATTROCENTO ROMANO: IL RINASCIMENTO FUORI FIRENZE
ARTE COME COMUNICAZIONE
IL RITORNO DEL PAPATO A ROMA
SISTO IV E IL COMPLOTTO CONTRO I MEDICI


LE RADICI REMOTE DEL QUATTROCENTO ROMANO: IL RINASCIMENTO FUORI FIRENZE

Urbino, palazzo Ducale
Luciano Laurana
VEDUTA D’INSIEME, PIANTA E PARTICOLARI DEL PALAZZO (1466/1472)

Se il Rinascimento romano inizia con Bramante (1444-1514), Raffaello (1483-1520) e Michelangelo (1475-1564), il linguaggio rinascimentale giunge a Roma almeno mezzo secolo prima. Roma, a partire dalla metà del XV secolo, diventa la sede di una nuova interpretazione del Classicismo rinascimentale, diverso per natura e finalità da quello fiorentino, tanto da costituirne un polo alternativo nell’ambito della stessa realtà storica culturale. Roma ovviamente non è Firenze: a Firenze c’è la signoria di fatto, a Roma c’è il papa; Firenze è una città dominata dalla borghesia, Roma è una città dominata dal clero. I problemi dei romani vengono fatti coincidere dal potere ecclesiale con quelli della Chiesa; anche il gusto della committenza ufficiale romana nel campo delle arti coincide con il gusto della Chiesa, pressoché unica datrice di lavoro degli artisti. La posizione della Chiesa nei riguardi dell’arte è stata sempre molto chiara: l’arte è un linguaggio il cui compito è quello di divulgare le verità cristiane. Questo significa che la Chiesa ha bisogno di un’arte che non contempli, né ricerchi la forma del Creato, ma parli e persuada: non conta tanto la verità quanto quello che si comunica e come lo si comunica. Dopo il papato di Alessandro VI (1492-1503) questo principio diventerà più che mai imperativo assoluto.
Stante tale ottica risulta facile comprendere come la committenza ecclesiastica favorisca quegli autori la cui ricerca tende a trasformare l’arte da rappresentazione del mondo a discorso figurato. Si va dunque definendo nella Città Eterna quello che si potrebbe chiamare il problema linguistico dell’arte, vale a dire l’evoluzione del linguaggio rinascimentale da conoscitivo a divulgativo.
Se l’arte è comunicazione, due sono le risposte fondamentali sul che cosa si deve comunicare con l’arte: o una visione o un’esperienza, intendendo per visione ciò che costituisce il prodotto della nostra mente in assenza di qualsiasi sperimentazione visiva diretta. La risposta elaborata a Roma rientra nel primo caso; al secondo penserà a rispondere Venezia.

ARTE COME COMUNICAZIONE

Nella comunicazione diventa importante l’atteggiamento assunto dal comunicatore. Questo oscilla fra due poli: un atteggiamento emotivamente partecipe o volontariamente lucido e distaccato.
Il Rinascimento è un fenomeno che nasce a Firenze; presto, dopo le prime resistenze, si propaga a macchia d’olio in tutti gli altri principati della penisola.Una città in particolare Urbino, sede dei Montefeltro, assurge a straordinaria importanza per la politica culturale del duca Federico (1422-1482), il quale vuole fare della sua città una nuova Atene, un nuovo centro di confluenza e irradiazione della cultura universale.Per il raggiungimento di un simile obiettivo chiama presso di sé, nel suo palazzo principesco, i più insigni artisti d’Italia e d’Europa.
Mentre il dibattito fiorentino provoca diaspore che si riflettono pesantemente sulle strutture del linguaggio rinascimentale dell’epoca, ad Urbino si sperimenta l’arte umanistica come linguaggio visivo. Dire che si sperimenta l’arte come linguaggio visivo significa dire che si utilizzano le forme classiche come le parole di una lingua, ovvero per la loro capacità di associarsi a contenuti astratti.
Non ci si preoccupa tanto di definire l’aspetto strutturale del linguaggio artistico in funzione della conoscenza naturalistica o storica quanto di adattarne la struttura alle esigenze della comunicazione dei contenuti. Come abbiamo visto in precedenza per il Perugino, ad esempio, l’arte non è un linguaggio di cui occorre trovare le parole, sono parole di cui servirsi per comunicare nel modo più convincente possibile verità universali ed eterne. Con Melozzo (1438–1494) l’effetto suggestivo del linguaggio artistico non è più determinato dalla ricerca strutturale, al contrario, sono le strutture che vengono determinate dall’effetto suggestivo che si vuole ottenere: è la nascita del classicismo come linguaggio retorico. Sebbene Melozzo pensa ad un classicismo di tipo pierfrancescano, in realtà tutti i linguaggi sono buoni; anzi vanno bene anche più linguaggi insieme: il problema non è più di ordine strutturale ma espressivo.
Il palazzo Ducale più che un palazzo sembra un borgo, con tanto di torri, mura di cinta, logge, piazze e abitazioni. Se a Pienza il Rossellino (1409–1464) aveva pensato ad una città come ad un unico grande monumento, qui ad Urbino Federico vuole che il suo palazzo abbia l’aspetto e la grandezza di un intero paese. Per chi si trova sulla strada che dalla Flaminia porta ad Urbino il palazzo gli si para dinnanzi come un turrito castello tardo-gotico, ma il “vestito” che indossa non è quello dei manieri, quanto piuttosto quello delle sedi di rappresentanza. Insomma, mentre a Firenze le divergenze di opinione invece che ricomporsi si vanno inasprendo, ad Urbino si va alla ricerca soprattutto della sintesi sotto la guida spirituale di Piero della Francesca. Ma siamo alla metà del XV secolo e qualcosa è cambiato anche qui.
L’esperimento di maggior successo che si compie alla corte del Montefeltro è l’unione di due mondi contrapposti, quello fiammingo e quello fiorentino. La luce fredda e indagatrice del Nord Europa si sposa con la geometria e la misura pierfrancescana: in sostanza si unisce il trompe-l’oeil alla prospettiva. Ma il fine dell’unione del trompe–l’oeil alla prospettiva non è quello di meglio conoscere la realtà, quanto piuttosto quello di far sembrare vera un’immagine virtuale. Risultato? Una più convincente illusione del vero. Dato l’assunto si capisce benissimo come mai molti degli artisti che saranno chiamati a lavorare a Roma provengano da Urbino.
La relazione fra Roma e Urbino non è solo di carattere culturale. È ormai provato che dietro la congiura dei Pazzi c’è la regia di Sisto IV e Federico da Montefeltro. I due, oltre che da interessi politici sono legati da parentela: Giovanni (1457–1501), nipote di Sisto IV e fratello di Giuliano della Rovere (il futuro Giulio II) diventerà genero di Federico nel 1477 sposando una delle figlie.
Ed è proprio dall’ambiente urbinate che giunge a Roma Melozzo da Forlì per ritrarre Sisto IV che nomina il Platina (1421-1481) prefetto della Biblioteca Apostolica; ed è proprio un urbinate, Bramante, ad essere chiamato per costruire ex-novo la basilica di San Pietro; ed è un altro urbinate, Raffaello, a chiudere il ciclo storico della Rinascita, proprio in Vaticano.
Per conoscere dunque i protagonisti del cambiamento romano ripercorriamo la storia della capitale dal momento del ritorno dei papi nella sede vaticana.

IL RITORNO DEL PAPATO A ROMA

Roma, palazzi Vaticani, cappella Niccolina
Beato Angelico
SAN LORENZO DONA AI POVERI I BENI DELLA CHIESA (1448)
Particolare tratto dalle Storie di San Lorenzo
Affresco, altezza mt. 2,71 – larghezza mt. 2,05

Nel 1377, con Gregorio XI (1370-1378), termina la cattività avignonese, durata ben 92 anni. I papi che seguono però non riportano subito la loro dimora a Roma. Perché ciò avvenga occorre aspettare Niccolò V. Nel 1447, alla morte di Eugenio IV (1431-1447), il papa della consacrazione del duomo di Firenze, ad essere eletto, fra tanti illustri pretendenti alla cattedra di Pietro, è un lucchese di umili origini, Tommaso Parentucelli (1397-1455), che prenderà il nome di Niccolò V. Amico degli umanisti apre le porte di Roma, fino a quel momento rimaste chiuse, alle novità rinascimentali. Nel frattempo Firenze si avvia a diventare una signoria anche nelle forme oltre che nei contenuti, con i successori di Cosimo il vecchio (1389-1464). Niccolò V è un papa con un programma culturale e urbanistico ben preciso. Alla maniera dei mecenati laici chiama intorno a sé letterati e artisti, tutti rigorosamente umanisti. Acquista libri, codici miniati e quadri. Nello stesso anno della sua elezione incarica il Beato Angelico di affrescare la cappella di San Lorenzo in Vaticano. Certo non avrebbe chiamato l’Angelico se non riconoscesse in lui il massimo esponente dell’umanesimo religioso moderato. Da questo momento Roma diventa una colonia culturale fiorentina. Ma nella Città Eterna ci sono le rovine, e queste, con il loro aspetto grandioso finiscono per influenzare inevitabilmente la ponderata razionalità umanistica fiorentina. A contatto con i solenni residui dell’antichità romana l’umanesimo diventa meno a misura d’uomo e più a misura di monumento.
Dopo il breve ma disastroso pontificato di Alonso de Borja (1455-1458), sale al soglio pontificio un altro grande umanista Enea Silvio Piccolomini col nome di Pio II (1458-1464). A lui si deve la prima idea di ricostruzione dell’ormai vetusta San Pietro costantiniana. Affida il progetto ad un solido e serio professionista come Bernardo Rossellino, il quale redige la prima di una lunga, interminabile serie di proposte che si susseguiranno per più di due secoli. Il piano del Rossellino prevede una pianta longitudinale a cinque navate con corpo absidale triforo, sul tipo del duomo di Firenze. Allo stesso architetto, come abbiamo già avuto modo di vedere, aveva affidato il progetto di un’intera città, Pienza.

Roma, palazzo Venezia
ESTERNO (seconda metà del XV sec.)

L’intervallo compreso fra il 1464 e il 1471 sono gli anni di Pietro Barbo: Paolo II. La Roma di Paolo II non è una grande Roma, tanto che verrà poi soprannominata «città dei veleni e del coltello». Alle pendici del Campidoglio, presso la chiesa di San Marco, egli fa costruire il suo palazzo che verrà denominato in seguito Palazzo Venezia.
Nel 1471 diventa papa Francesco della Rovere col nome di Sisto IV. A lui è intitolato ponte Sisto, finito di costruire fra il 1473 e il 1475. Con papa Sisto IV Roma assume il volto di una città moderna, volto che si va precisando con i suoi successori. Ha così inizio la grande stagione della Rinascita romana: Roma città medievale dalle vestigia classiche si trasformerà in una moderna città rinascimentale che gareggerà in splendore e importanza con Firenze.
In questo periodo cambiano anche le rozze abitudini dei romani. Il loro dialetto fino a quel momento zeppo di termini ciociari e meridionali, acquisisce parole toscane sempre più di frequente: ne risulta un ingentilimento della lingua. L’instaurazione del benessere porta all’esagerazione da parte dei meno morigerati, per cui Roma diventa teatro di corruzione e dissolutezza, sia fra laici che preti.

SISTO IV E IL COMPLOTTO CONTRO I MEDICI

Roma, palazzo Riario (oggi palazzo della Cancelleria)
ESTERNO (fine XV sec.)

La salita di Sisto IV al soglio pontificio frena l’opera di colonizzazione culturale fiorentina. A Sisto IV non piace affatto l’espansionismo politico di Lorenzo il Magnifico (1449-1492) e intende contrastarlo con ogni mezzo, anche con la soppressione fisica, tanto da arrivare a tramarla insieme al duca di Urbino. Al contrario, data la sua simpatia per Federico, favorisce l’arrivo degli artisti umbro-marchigiani: così Roma da fiorentina diventa colonia umbro-marchigiana.
Naturalmente i maggiori beneficiari del papato di Sisto IV sono i parenti stretti e meno stretti. Uno di questi è Girolamo Riario (1443-1488), suo nipote, l’ispiratore della congiura dei Pazzi. Motivo della congiura? Le mire espansionistiche dello zio e delle sue che si vanno a scontrare con quelle di Lorenzo.
Un progetto come quello del Riario deve contare su degli alleati. Li trova fra i nemici giurati dei Medici, primi fra tutti la famiglia Pazzi. L’obiettivo vero che accomuna tutti gli attentatori però è quello di sbarazzarsi degli alleati una volta eliminati i Medici. È un’operazione alquanto complessa e rischiosa; occorre mobilitare anche truppe per attutire il contraccolpo della prevedibile reazione degli amici del Magnifico.
La congiura deve scattare il giorno del Sabato Santo, durante il banchetto di rito che accoglierà tutti gli esponenti della nobiltà fiorentina. Un’indisposizione improvvisa di Giuliano (1453-1478) però fa cambiare il piano d’attacco; si punta sulla Santa Messa del giorno di Pasqua. A Pasqua Lorenzo e Giuliano sono nel duomo. Giuliano colpito alla testa muore sul colpo, Lorenzo viene solo scalfito da una titubante lama, cosicché riesce a scamparla e mettersi al sicuro con l’aiuto dei suoi amici.
Immediatamente dopo il fattaccio gli attentatori si dirigono verso il palazzo della Signoria, ma qui vengono circondati e trucidati, compreso l’arcivescovo Salviati, dal gonfaloniere Petrucci e dai suoi gendarmi. In quest’epoca chi non perisce di spada perisce di corda; chi si salva dalle lame finisce col collo nel capestro. Agli ammazzati in palazzo della Signoria si aggiungono altri 20 congiurati. Ma non basta.
La folla è dalla parte dei Medici. Per le strade di Firenze si scatena una vera e propria caccia all’uomo. Il bilancio è di circa 80 vittime. Persino i congiurati che si sono rifugiati fuori Firenze non sono tranquilli. I paesani li fanno prigionieri e li consegnano al podestà di Firenze. Insomma, un bilancio abbastanza tragico.
Un testimone d’eccellenza delle esecuzioni che fanno seguito alla fallita congiura è Leonardo (1452-1519), il quale ci ha lasciato il disegno di un congiurato impiccato, Bernardo Bandini Baroncelli, custodito oggi al Musée Bonnat di Bayonne. È l’anno 1478.

Roma, pinacoteca Vaticana
Melozzo
SISTO IV CONSEGNA LE CHIAVI DELLA BIBLIOTECA APOSTOLICA AL PLATINA (1477)
Affresco staccato e trasferito su tela, altezza mt. 3,70 – larghezza mt. 3,15

I fatti di sangue non smuovono neanche di un millimetro le ambizioni di Sisto IV, il quale non ha affatto rinunciato ai suoi piani di espansione territoriale. Anzi l’uccisione dell’arcivescovo Salviati inasprisce il conflitto. Così si va avanti a suon di minacce fino a quando non si sostituisce alle armi la diplomazia, e così torna la pace fra Roma e Firenze.
Come segno distensivo nei rapporti fra Lorenzo e Sisto IV a Roma giungono artisti fiorentini di prim’ordine come il Botticelli (1445-1510), il Ghirlandaio (1449-1494) e Cosimo Rosselli (1439-1507). Ma sulla piazza romana i fiorentini non sono più soli; se la vedono contesa da quella che ormai si può definire una fiorente colonia umbro-marchigiana. Le due colonie si fronteggiano senza fondersi. Quella fiorentina si distingue per il suo problematismo più filosofico rispetto a quello umbro-marchigiano, più attento all’aspetto squisitamente comunicativo.
Il primo rappresentante della colonia umbro-marchigiana ad arrivare a Roma è Melozzo da Forlì, che giunge nella capitale nel 1477 per ritrarre la cerimonia di consegna delle chiavi della Biblioteca Apostolica al Platina.
Il Mantegna (1431 c. – 1506), il Ghirlandaio non avevano fatto in tempo ad inventare il genere storico moderno che il Melozzo lo sperimenta subito in questa ghiotta occasione. Come nel Mantegna lo sfondo fa grandeggiare le figure allineate trasversalmente in primo piano, solo che qui a fare da quinta non ci sono le colline mantovane, ma una poderosa scenografia architettonica.
Per la prima volta un’architettura virtuale fa da quinta illusionistica ad un gruppo di figure, le quali proprio grazie a questo solenne palcoscenico dipinto vengono ad assumere un aspetto idealizzato, monumentale, ciò non per dire che l’uomo del Rinascimento è grande per merito delle proprie virtù, ma per merito della forza oratoria della lingua che ne tesse le lodi. L’amplificazione retorica si fonda anche sui movimenti calibrati, giocati tutti sulla psicologia della circostanza: una consegna diventa così un momento solenne grazie allo sfondo monumentale.

Roma, palazzi Vaticani, appartamento Borgia
Pinturicchio
DISPUTA DI SANTA CATERINA (1492/1494)
Particolari dalla decorazione pittorica di una sala
Affresco

Dal 1484 al 1492 a capo della comunità cristiana sale Gian Battista Cybo, un ligure, che prende il nome di Innocenzo VIII. Da centro degradato dei primi decenni del Quattrocento, con lo stabile reinsediamento dei papi, Roma si trasforma, sullo scadere del secolo, in una metropoli, la capitale del rinato Stato della Chiesa.
Verso la fine del Quattrocento, quando sul soglio pontificio sale Rodrigo de Borja, nipote di Callisto III, col nome di Alessandro VI, Roma ha circa 40.000 abitanti; Firenze ne ha 30.000; Napoli e Milano superano i 100.000. Sotto il pontificato del de Borja la vita nella Città Eterna diventa impossibile, tuttavia l’attività edilizia non accenna a diminuire. Sua è la costruzione della Sapienza, l’antica università degli studi dell’Urbe; sua è la costruzione della via Recta, che collega Castel Sant’Angelo a San Pietro. Il suo regno dura fino al 1503; muore in seguito agli eccessi profusi in una calda notte d’estate.
Col ritorno della sede pontificia Roma cresce rapidamente e diviene luogo di attrazione per una folla di artisti alla ricerca di gloria o di consolidamento della propria fama. Ormai la città vive dei papi e questa cosa la fa essere tutta consumo e niente produzione. A parte carne e formaggio di pecora, per il resto la capitale importa tutto; tutto ruota intorno al papa e alle sue iniziative.
Curiosità: in forza di una clausola della fine del Trecento gli affitti lievitano in rapporto alla presenza o meno del pontefice in città. Un affitto di 25 fiorini scende ad esempio a 17 in assenza del vicario di Cristo.
Con l’ultimo papa del Quattrocento tornano a prevalere gli artisti di area umbro-marchigiana, ma si tratta delle estreme manifestazioni di una situazione ormai in via di esaurimento.