ARTE METAFISICA
RELAZIONE CON LE POETICHE CONTEMPORANEE E RUOLO SOCIALE DELL’ARTE METAFISICA
CONFIGURAZIONE DEGLI ASSUNTI POETICI METAFISICI NELLE PRIME OPERE DI DE CHIRICO
LA SVOLTA DELLA METAFISICA NEL DOPOGUERRA
DADA
CAUSE DEL DADAISMO
I NUOVI VALORI DELL’ARTE DADA
CONSEGUENZE DELLA NUOVA CONCEZIONE DADA DELL’OPERA D’ARTE COME OGGETTO
DADA E LA QUESTIONE TECNICA
SUDDIVISIONE CRONOLOGICA STORICA E POLITICA DEL DADAISMO
ORIGINE DEL TERMINE DADA
DUCHAMP E IL READY-MADE
SCHWITTERS E IL MERZBAU
IL SURREALISMO: CONCEZIONE ARTISTICA
I CARATTERI DELL’INCONSCIO
LA QUESTIONE TECNICA NEL SURREALISMO
IL “COLORE” SOCIALE DELL’INCONSCIO
RELAZIONE DEL SURREALISMO CON METAFISICA, DADA E FUNZIONALISMO ARCHITETTONICO
MAX ERNST
RELAZIONE DELL’ARTE SURREALISTA CON IL CUBISMO: JUAN MIRÓ
ALTRI PROTAGONISTI DEL SURREALISMO: MAN RAY
MAGRITTE
DELVAUX, MASSON
TANGUY
SALVADOR DALÌ


ARTE METAFISICA

Giorgio De Chirico
ENIGMA DI UN POMERIGGIO D’AUTUNNO (1910)
È uno dei tre dipinti esposti al Salon d’Automne di Parigi, nel 1912; oggi perduto.

Fra le varie correnti che fioriscono in rapidissima successione negli anni che precedono la prima guerra mondiale la Metafisica rappresenta una specie di mutazione. Dall’analisi della situazione che si viene determinando nei primi anni del Novecento appare chiaro che tutte le forze più attive nel campo delle arti figurative sono impegnate nello sforzo generale di abbattimento delle vecchie strutture, delle vecchie abitudini visive, per impostare le discipline estetiche su nuovi principi, più direttamente connessi con la realtà sociale del momento. Sembra in questo periodo che per essere attuali non si possa fare a meno di essere d’avanguardia. Spetta a De Chirico (1888-1978), per primo, a dimostrare che ciò non è del tutto vero.
Esiste solo un’alternativa ad un’arte concepita come esempio di creatività per l’intero apparato socioeconomico ed è l’arte vista come mezzo di alienazione dalla società. La Metafisica rappresenta questo secondo modo d’intendere la funzione, o meglio la non funzione dell’arte in una società come quella moderna, dominata dalla tecnologia e dalla scienza, dove non c’è più spazio per la poesia, per la fantasia, per l’immaginazione. In questa società l’arte non può che essere un’entità estranea, diversa, dai caratteri diametralmente opposti a quelli della scienza e della tecnologia, e come tutte le cose diverse, inconsuete, la sua presenza è fonte di turbamento, inquietudine, sospetto. Ad un’arte che vuole partecipare al divenire della società moderna, la Metafisica oppone la sua concezione di un’arte che non vuole esserne partecipe.

RELAZIONE CON LE POETICHE CONTEMPORANEE E RUOLO SOCIALE DELL’ARTE METAFISICA

La Metafisica, al contrario delle altre poetiche, ma soprattutto di quella futurista, non è un’estetica che mira a sovvertire il sistema di relazioni costitutive dello status quo allo scopo di affrettarne la trasmutazione in una forma più avanzata, ciononostante la sua apparizione suscita molte più ansie dei proclami roventi e minacciosi dei futuristi. Perché? Perché il silenzio, l’assenza di vita, la sospensione del tempo della visione metafisica sono molto più angoscianti del chiasso, della vitalità turbinosa e del ritmo forsennato della visione futurista: è preferibile trovarsi di fronte a qualcosa di reattivo piuttosto che a qualcosa di distaccato e impenetrabile. La Metafisica insomma capisce che se si vuole creare disagio lo si crea meglio standosene zitti che facendo un baccano infernale. Ma la sua opposizione alle correnti rivoluzionarie non si limita solo a questo. C’è anche la questione del passato, che nelle ideologie d’avanguardia si vuole cancellare in nome di un continuo, incessante mutamento per un rinnovamento perpetuo. La Metafisica non vuole un’arte nuova ma sostanzialmente integrata alla società, vuole un’arte estranea alla dimensione ordinaria; perciò si oppone al rivoluzionarismo futurista in nome di una resistenza passiva che consenta al passato, l’arte, di sopravvivere nel nuovo contesto socioculturale, non estinguersi del tutto. Dunque non si oppone ai movimenti d’avanguardia in generale e al Futurismo in particolare come una forza conservatrice ad una progressista, ma per una diversa poetica, che potrebbe essere definita “negativista”. La Metafisica non è una poetica rivoluzionaria, ma neanche reazionaria; non si vuole inserire nel processo evolutivo delle sovrastrutture culturali della società, ma non le vuole neanche arrestare; se ne tiene fuori. Sa bene che è assurdo frenare il progresso, come sa altrettanto bene che è privo di speranza il tentativo di coniugare i valori del passato, a cui è legata l’arte, ai nuovi valori della società tecnologica e industriale. Ma la sua proposta non si allinea a quelle delle altre correnti, non cerca di adeguare l’arte alla nuova realtà socioeconomica; non vuole distruggere il passato, non vuole reinventare tutto fondando una nuova estetica basata sulla celerità, la trasformazione, la processualità. Pone l’arte su un piano diverso, un binario parallelo a quello del progresso sociale, stando attenta ad evitare ogni contatto fra l’uno e l’altro. Così, ancor prima di Dada, la Metafisica, con De Chirico, sente che la ragion d’essere dell’arte nella società moderna è quella di essere in contraddizione con essa. Questa contraddizione è manifesta nelle sue stesse modalità di porsi come pura speculazione, avulsa dal contesto ordinario, chiusa come in un’oasi protetta.
La visione metafisica ha un fondamento inossidabile nella convinzione che la coscienza poetica della società moderna non si debba identificare affatto con la partecipazione dell’artista all’organizzazione funzionale della società. È fatta di forme senza vita, che abitano uno spazio senza tempo. L’arte metafisica non è un mezzo per conoscere l’aspetto formale delle cose, né ha uno scopo informativo; non serve a niente; l’uomo non sa che farsene. La società se ne vorrebbe sbarazzare, ma non può, perché si trova lì, in mezzo alla civiltà, a porre problemi, non a risolverli. La sua azione non è costruttiva, ma neanche distruttiva, è inane. Non è lei a dare un significato e una collocazione sociale all’arte, è la società che le deve dare un significato e una collocazione.

CONFIGURAZIONE DEGLI ASSUNTI POETICI METAFISICI NELLE PRIME OPERE DI DE CHIRICO

Collezione privata
Giorgio De Chirico
L’ENIGMA DELL’ORA (1911)
Olio su tela, altezza cm. 54,5 – larghezza cm. 70,5

La Metafisica nasce ufficialmente dall’incontro a Ferrara fra Giorgio De Chirico e Carlo Carrà (1881-1966), incontro che avviene intorno al 1916, in pieno conflitto mondiale. L’occasione è del tutto casuale: De Chirico presta servizio come infermiere nello stesso ospedale in cui Carrà viene ricoverato per problemi di salute mentale. Appartenendo l’arte ad una dimensione alternativa rispetto a quella scientifica e tecnologica, nel suo ambito speculativo nulla è spiegabile dal punto di vista logico-razionale, nulla s’inquadra in un principio di causa ed effetto; la struttura dell’arte è una struttura che s’inquadra in un altro ordine, illogico, irrazionale.
Giorgio De Chirico vede i natali a Volo, in Tessaglia, muore a Roma, all’età di 90 anni. Nell’anno 1912 è ammesso a partecipare al salon d’automne con tre opere: Enigma di un pomeriggio d’autunno, L’enigma dell’oracolo e un autoritratto. I primi due quadri erano stati eseguiti nel 1910, il terzo non si sa con esattezza, forse nello stesso anno della mostra. In queste opere, sebbene nessuno ne è ancora cosciente, neanche lo stesso De Chirico, ci sono già alcuni degli aspetti fondamentali che caratterizzeranno poi l’arte metafisica, primo fra tutti il senso di sospensione del tempo: questo fattore sarà determinante anche in un’altra grande corrente del primo Novecento: il Surrealismo.
La situazione culturale dell’epoca è a dir poco effervescente. Parigi è il centro della cultura artistica più avanzata; in città si accolgono le mostre delle correnti più attive sul fronte dell’avanguardia. È l’anno della mostra dei pittori futuristi, del manifesto tecnico della scultura futurista di Boccioni (1882-1916) e del manifesto tecnico della letteratura futurista di Marinetti (1876-1944); sono gli anni del Cubismo orfico di Delaunay (1885-1941) e dei “papiers collé” di Braque (1882-1963) e Picasso (1881-1973).
Sin dalle prime opere risulta evidente l’interesse di De Chirico proprio per quelle realtà escluse dalle avanguardie, soprattutto cubiste e futuriste. Anche per lui è importante stabilire un collegamento diretto fra soggetto e linguaggio espressivo, solo che il soggetto è qualcosa di più che un processo operativo o un soggetto reattivo; è spirito, fatto di cultura, ricordi, visioni. Dunque il pensiero dechirichiano è di formazione nettamente simbolista.

New York, Museo d’Arte Moderna
Giorgio De Chirico
IL CATTIVO GENIO DI UN RE (1914)
Olio su tela, altezza cm. 61 – larghezza cm. 50

Nel guardare un dipinto come Il cattivo genio di un re, del 1914, non ci si può sottrarre alla tentazione di chiedersi perché le due strane forme geometriche, un cono ocra su un esagono irregolare verde, collocate sul lato sinistro del quadro, in basso, dietro un piano rosso, pur trovandosi nella zona d’ombra portata di quest’ultimo, sono dello stesso identico colore del grande piano inclinato, visibilmente illuminato, e della palla verde. Perché la palla verde, pur essendo in bilico, non rotola. Cosa sono quelle strane forme che sebbene richiamino alla coscienza oggetti specifici sembrano artropodi, vermi e molluschi. È inutile cercare una risposta, perché risposta non c’è. Sono presenze inquietanti, bloccate in uno spazio senza tempo, immobile, senz’aria, illuminato da una luce cosmica, siderale. Non c’è nessun motivo perché stiano insieme, non c’è niente che le lega. L’immagine che ci si para dinnanzi è nient’altro che l’arte; un enigma per l’uomo moderno, un elemento di disturbo, infine un oggetto di cui non si sa proprio cosa farsene.

Milano, Collezione privata
Giorgio De Chirico
LE MUSE INQUIETANTI (1916)
Olio su tela, altezza cm. 97 – larghezza cm. 66

Il pensiero improntato nel Cattivo genio di un re è ripreso in molti altri dipinti degli stessi anni, fra cui Le muse inquietanti. In quest’opera, una delle più celebri di De Chirico, appaiono personaggi e cose la cui presenza nello stesso contesto è inspiegabile. Spiccano tre figure antropomorfiche dall’aspetto alquanto strano, le muse per l’appunto. Due sono per metà statue e per metà colonne; tutte e tre hanno la testa tipica dei manichini. Posano su un piano che stando al castello estense sullo sfondo sembra una piazza in prospettiva, mentre stando alle fabbriche sulla sinistra sembra un palco sollevato. Sul piano logico, gli oggetti che si trovano sul tavolato dovrebbero scivolare, come la scatola in primissimo piano, cadere, come l’asticella cilindrica, o ruzzolare, come la maschera appoggiata ai piedi della musa seduta. E invece sono fissi, immobili, come se fossero incollati sull’assito del palco. La prospettiva sembra di tipo centrale, ma se si provano ad unire le linee parallele, queste non convergono in un unico punto di fuga, bensì in molti centri diversi. La luce sembra avere due fonti: una si trova davanti, al di fuori del dipinto, sulla destra, alle spalle dell’osservatore; l’altra sembra provenire dal fondo. Cosa rivela? Rivela uno spazio vuoto, senz’aria, spento, privo di qualsiasi forma di vita, immobile, inabitato, dove il tempo non scorre, sta fermo. Essendo uno spazio privo di atmosfera i colori non vibrano, ma, al contrario, si fissano nella materia, fanno corpo unico con le figure. Anche le ombre portate sono strane; non seguono la linea “separatrice d’ombra propria” degli oggetti. Il cielo è una lastra smaltata verde, priva di sfumature, la quale non salda e chiude la scatola spaziale prospettica, costituita dai piani orizzontali e trasversali della superficie del palco e dalle facciate degli edifici, ma continua oltre i limiti del piano inclinato e dello sfondo, lasciando supporre che ci sia qualcos’altro oltre l’orizzonte. Le proporzioni sono stravolte: scatole di fiammiferi grandi come e più delle basi delle statue, statue che stando alla prospettiva superano in altezza le torri del castello. Incombe su tutta la composizione un senso di mistero unito ad un senso di morte, di immobilità asfittica al di fuori di uno spazio e di un tempo naturali. La sensazione di inquietudine trasmessa dal dipinto è rafforzata dalla minacciosa presenza di una “cosa”, una maschera, una montagna, un pezzo di un impianto industriale, bianca, a forma di tronco di cono, con due fessure oblique che sembrano degli occhi, che si erge, spettrale, dal fondo.
Chi o cosa rappresentano le statue manichino, cosa ci fanno su un palco allestito in mezzo a quella che sembra essere la piazza di una città d’Italia; dov’è la gente; in quale epoca ci troviamo; in quale mondo, sono tutte curiosità lecite ma inutili. La presenza di cose e figure non è in relazione al ciò che è ma al ciò che non è, non è legata all’essere ma al non essere. Quindi alla domanda cosa sono De Chirico risponde dicendo cosa non sono: ciò che è impossibile a livello linguistico diventa motivo d’esistenza a livello visivo.
Ci si chiede: a che mai può servire una cosa che non ci informa sull’esistenza di ciò che è, ma ci dice ciò che non è? A nulla. È pura speculazione, trastullo mentale, intellettualismo fine a sé stesso, che, come tale, non ha alcuna funzione. Questa assurdità è per De Chirico l’arte.

LA SVOLTA DELLA METAFISICA NEL DOPOGUERRA

A partire dagli anni Venti la Metafisica subisce una svolta clamorosa. I maggiori protagonisti, De Chirico, Carrà e Morandi (1890-1964) l’abbandonano per seguire nuove strade. Rimane solo Alberto Savinio (1891-1952), fratello di De Chirico, in rappresentanza dello sviluppo logico della Metafisica nel Surrealismo. La direzione inaspettata verso cui si dirige la pittura di De Chirico, dopo le altezze della Metafisica, potrebbe essere liquidata semplicemente parlando di involuzione; il che lo collocherebbe nel novero degli artisti che, dopo le efferatezze del periodo avanguardistico, intendono ricondurre l’arte entro i limiti di una liceità meno provocatoria e più costruttiva. Ebbene, se non si può escludere una certa volontà da parte sua di offrire un personale contributo per un desiderabile, quanto più consono ai tempi che correvano allora, “ritorno all’ordine”, De Chirico lo fa però rimanendo fedele agli assunti primitivi della sua metafisica, anche se vi aderisce con forme apparentemente assai diverse. In sostanza De Chirico si convince sempre di più che l’unica possibilità di sopravvivenza dell’arte in un mondo contrassegnato dai cambiamenti scientifici e tecnologici sempre più rapidi, non può che essere quella di conservarla, recintandola in una sorta di “oasi” storica, così come si recinta la natura selvaggia nei parchi nazionali.

DADA

Milano, Studio Schwarz
Marcel Duchamp
FONTANA (1934)
Replica dell’originale del 1917
Orinatoio a rovescio, altezza cm. 60

Philadelphia, Museo d’Arte
Marcel Duchamp
LA MARIEE MISE A NU PAR CES CELIBATAIRES, MEME (LA SPOSA MESSA A NUDO DAI SUOI SCAPOLI, ANCHE O GRANDE VETRO) (1915/1923)
Olio, fogli e filo di piombo su vetro, altezza mt. 2,77 – larghezza mt. 1,75

Mentre tutti si chiedono cosa significhi fare quadri o statue nella società delle macchine, nessuno si sogna di rispondere che forse la società delle macchine non ha bisogno né di quadri né di statue.
Fra tutti i movimenti d’avanguardia che fioriscono nei primi anni del Novecento, Dada è senz’altro quello più all’avanguardia. Spesso l’esordio di queste correnti è accompagnato dallo scandalo, ma nessun esordio è stato tanto scandaloso quanto quello di Dada. La corrente dada non si limita a criticare il Cubismo come fanno le altre correnti, va oltre, critica l’intero sistema delle arti. Più esattamente tutto ciò che è stato considerato arte fino ad ora, vale a dire, un lavoro speciale, finalizzato alla realizzazione di beni speciali, dotati di valore particolare. Con Dada, dunque, si ha un’autentica rivoluzione nella concezione, nei modi e negli strumenti dell’arte, come mai se ne erano avute prima. Vediamo in che cosa consiste la rivoluzione dada.
Tutte le correnti formatesi sulla critica cubista hanno in comune il fatto che sebbene fortemente innovative rimangono sostanzialmente delle opere d’arte nel senso tradizionale del termine, cioè ricerca formale tecnico linguistica. Con Dada l’arte cessa di essere ricerca conoscitiva, processo tecnico finalizzato all’estrinsecazione dell’essere soggettivo, modo di produrre valore attraverso strumenti speciali. L’attività creativa diventa non senso; può valersi di qualsiasi strumento, qualsiasi tecnica; non produce valore ma documenta un processo mentale dato come estetico perché gratuito. L’arte dada è contestazione totale di tutti i valori positivi, anche dell’arte; per Dada la vera arte d’ora in poi sarà l’anti-arte. Negando l’intero sistema dei valori l’arte dada nega sé stessa come valore, ed anche come funzione, essendo la funzione un’azione finalizzata ed avente un valore.

CAUSE DEL DADAISMO

Veniamo ora alle ragioni per cui si è potuto produrre un fenomeno così radicale come il Dadaismo.
La guerra, il sistema di valori costituiti, la razionalità scientifica, sono tutte cose che fanno parte di quella che viene definita civiltà tecnologica e industriale. Anche l’arte si è sacrificata come arte per dare il proprio contributo alla costruzione di questa nuova civiltà, più progredita e razionale, ma i risultati sono stati l’irrazionalità e la distruzione. Ne consegue che in un contesto sociale che vorrebbe essere logico ed è insensato, in quanto crea per distruggere, l’attività creativa non può essere ricerca di valori positivi, si deve adeguare, può essere solo non senso nel non senso; significativo però, in quanto generatore di fatti creativi e non distruttivi, promotore di sprazzi di vita in un panorama di morte. Se il mondo reale è quello che non dovrebbe essere, l’arte reale, concreta per questo mondo, sta in ciò che non è mai stata prima.
Il Dadaismo nasce dalla presa di coscienza da parte di alcuni artisti dell’avvenuto fallimento del ruolo sociale dell’arte quale strumento di formazione dell’individuo verso i valori razionali. Gli artisti dada si pongono dunque il problema di quali valori sostituire a quelli positivi perseguiti dall’arte dei loro predecessori, valori che siano commisurati ad una società in preda alla follia.

I NUOVI VALORI DELL’ARTE DADA

Per Dada se l’arte è espressione dei valori della società a cui appartiene, allora l’azione dell’artista non può mutare il sistema, però lo può aiutare a prendere coscienza di sé. La conclusione a cui giungono i dadaisti è che in una società irrazionale l’arte non può che essere irrazionale. Il significato degli interventi dada vuole essere proprio quello di mettere lo spettatore di fronte ad un’operazione insensata, affinché possa provare un sentimento di stupore frammisto a disorientamento. Ironizzando sulla serietà dell’operazione dada, nonché dubitando della sua artisticità, l’osservatore non fa altro che ironizzare sui suoi valori, su ciò che egli ritiene positivo. Lo scopo dei dadaisti è quello di dimostrare che un’alternativa al sistema binomiale scienza/tecnologia è possibile, e questa alternativa è appunto l’arte dada. Per Dada l’arte dunque si pone come via alternativa, sistema diverso dalla scienza. La base su cui è fondato consiste nella semplice deduzione che se la scienza è serietà, l’arte è gioco.

CONSEGUENZE DELLA NUOVA CONCEZIONE DADA DELL’OPERA D’ARTE COME OGGETTO

Il Dadaismo prende in esame anche la proposta astrattista dell’opera come oggetto e non come interpretazione. Se l’opera astrattista si pone come cosa in sé, fenomeno, e non chiave per intendere i fenomeni, interpretazione, allora significa che anche gli oggetti privati della loro funzione pratica possono essere considerati opere d’arte. Stante l’assunto rimane da vedere se l’arte può svolgere solo la funzione di “specchio” della società.
Mentre Espressionismo e Cubismo sono correnti rivolte a rapportare, integrare l’arte alla società contemporanea, il movimento dada esordisce dichiarando chiuso il ciclo storico dell’arte e si propone di rifondarla su principi totalmente diversi da quelli seguiti fino ad ora, estranei ad ogni forma precedente, adeguati ad una società dominata dall’apparato tecnologico-industriale.

DADA E LA QUESTIONE TECNICA

Dada ha il merito storico di aver ridotto ulteriormente il valore della manualità nelle tecniche artistiche dalla pura gestualità intenzionata dell’astrattismo espressionista al gesto gratuito, casuale, privo di qualsiasi supporto tecnico-strumentale. Così per una diversa via, quella decadentista, Dada arriva alle stesse conclusioni del funzionalismo: l’arte della nuova società tecnologica e industrializzata si esprimerà attraverso i materiali e le tecniche di questa stessa società e la sua presenza sarà colta nell’idea, nell’intuizione che ha dato origine al gesto. Ma a differenza di quest’ultimo il gesto dada non è gesto consapevole, razionale, costruttivo, bensì gesto gratuito, irrazionale, demolitore.

SUDDIVISIONE CRONOLOGICA STORICA E POLITICA DEL DADAISMO

Il Dadaismo nasce ufficialmente a Zurigo nel 1916, almeno secondo quanto afferma Hans Richter (1888-1976), uno dei teorici e promotori del movimento. Ma le prime opere dada compaiono a New York nel 1915, grazie all’attività creativa e promotrice di Marcel Duchamp (1887-1968), Francis Picabia (1878-1953) e, poco dopo, Man Ray (1890-1976), nonché per l’interessamento di un fotografo americano Alfred Stieglitz (1864-1946), a cui si deve l’attività di propaganda attraverso le pagine della sua rivista 291. In realtà le prime avvisaglie di un cambiamento ancora più radicale di quanto vanno facendo le più agguerrite avanguardie si era già avuto proprio con Duchamp, nel 1915, con la sua La mariée mise à nu par ces célibataires, même (La sposa messa a nudo dai suoi scapoli, anche o Grande vetro) e con Picabia, che nel 1913 lanciò l’idea di un’arte amorfa, che non solo non rappresenta nulla ma non è nulla, soltanto gesto.
L’incontro fra Picabia e Duchamp avviene a New York, in occasione dell’avventura americana di Dada, reduci entrambi dalla partecipazione all’esposizione internazionale d’arte moderna del 1913, meglio conosciuta con il nome di “Armory Show”. Dopo quella data, Picabia intensificherà il suo rapporto con l’arte dadaista fondando una nuova rivista che s’intitolerà 391. Nel 1919, con il trasferimento della sede da Zurigo a Parigi per volontà di Tristan Tzara (1896-1963), uno dei fondatori, il movimento può ritenersi già estinto.
Il primo manifesto del movimento viene pubblicato nel 1918 sul terzo numero della rivista Dada, a firma di Tristan Tzara, poeta di origine rumena, il cui vero nome è J. Rosenstok, autore di una poesia “composta” facendo a pezzi un giornale, prendendo a caso delle frasi e collocandole una accanto all’altra senza preoccuparsi del senso logico del discorso che ne sarebbe poi uscito. Secondo Breton (1896–1966), che sarà di lì a poco il principale artefice della fondazione del Surrealismo, il manifesto dell’arte dada più che di Tristan Tzara, sarebbe opera di Walter Serner (1889–1942), un filosofo residente a Ginevra, assiduo frequentatore delle serate dada. La cosa non sembra inverosimile, dal momento che lo stesso Tzara andava affermando che «Chiunque è direttore di dadà».
I fondatori del movimento sono: Hugo Ball (1886-1927), scrittore tedesco, colui che trasforma un caffè di Zurigo in quello che diventerà uno dei più famosi locali dell’epoca, il “Cabaret Voltaire”, Richard Hülsenbeck (1892-1974), scrittore anch’esso, il pittore e scultore alsaziano Seen, o Hans Arp (1887-1966), i già menzionati Tristan Tzara e Hans Richter, Hemmy Hennings (1885–1948), Georges e Marcel Janco (1895-1984). Nel Cabaret Voltaire si svolgono le serate dadaiste, fatte di sberleffi ed ogni sorta di assurdità.
C’è un motivo per cui Dada nasce a Zurigo ed è il fatto che il movimento sorge in piena guerra mondiale, in Svizzera. La Svizzera è in quest’epoca, come lo sarà anche in seguito, un paese non belligerante, quindi rifugio ideale per quanti, contrari al conflitto, non intendono prenderne parte. Fra gli oppositori alla guerra ci sono molti intellettuali e fra questi un gruppo deciso a dare voce al dissenso.

ORIGINE DEL TERMINE DADA

Sull’origine del termine Dada ci sono molte versioni. Una delle più accreditate è quella che fa riferimento alla sera dell’8 febbraio 1916, quando aprendo a caso il dizionario Larousse, Tzara e i suoi amici decidono di scegliere per il loro movimento il nome Dadà, che vuol dire “cavallo” nel linguaggio dei bambini, quindi “innocente mania”, “fissazione”, “cavallo di battaglia”.

DUCHAMP E IL READY-MADE

Philadelphia, Museo d’Arte
Marcel Duchamp
NU DESCENDANT UN ESCALIER N.2 (1912 /1916)
Acquerello, inchiostro, matita e pastello su carta fotografica,
altezza cm. 147 – larghezza cm. 89

La personalità dominante del movimento è Marcel Duchamp, nato a Blainville e morto a Neuilly all’età di 81 anni. Gli esordi vedono l’artista schierato dalla parte dei numerosi critici del Cubismo analitico. Nel celebre Nu descendant un escalier n.2 (ve ne sono più versioni) Duchamp dimostra che il movimento non solo cambia la conformazione esterna dell’oggetto ma ne intacca anche la struttura interna: vale a dire che l’immagine di una persona in movimento non trattiene la struttura della persona che si muove, ma si trasforma in qualche altra cosa, perdendo così il suo legame con la matrice figurativa generatrice. Non passa molto tempo da questa esperienza al momento in cui decide di dar vita ad un nuovo modo di fare arte riflettendo su due punti essenziali della poetica cubista: la concezione dell’opera creativa come oggetto concreto, e non virtuale, e l’idea fondamentale dell’attività espressiva come processo, operazione. Se l’arte è un’operazione e il suo risultato è un oggetto allora non si vede la necessità di utilizzare tecniche legate a concezioni che rimandano alla sua virtualità, né si vede la necessità che l’opera d’arte sia un dipinto, o una scultura. Non sarebbe stato un pensiero tanto diverso da quello che negli stessi anni sta ormai sfiorando le menti di tutti gli artisti più avanzati dell’epoca se non intervenisse in lui una improvvisa illuminazione che lo induce a realizzare qualcosa di completamente inedito. Non c’è dubbio che a favorire lo sviluppo della concezione di Duchamp sia determinante il carattere ipercritico dell’artista nei confronti della società industriale e il suo scetticismo, davvero eretico per l’epoca, sul potere della tecnologia di cambiare la realtà delle cose. Inoltre che a sostenerne l’analisi critica sulla situazione corrente e dunque a varare la sua visione artistica sono i venti di guerra che si stanno alzando sulla vecchia Europa.
L’invenzione di Duchamp consiste nel prelevare un oggetto da un contesto in cui svolge una funzione pratica, cioè un ruolo finalizzato al raggiungimento di un obiettivo
regolato sui vantaggi che arreca, e inserirlo in un nuovo contesto, in cui non ha assolutamente più nessun ruolo pratico. Non avendo più alcun ruolo pratico, o per meglio dire sottraendogli ogni funzione pratica, all’oggetto non rimane altro che la sua visibilità, la sua esteticità. In altre parole si tratta di spostare oggetti dalla dimensione ordinaria o dell’esistenza pratica in un’altra dimensione, quella straordinaria o dell’esistenza estetica, in cui l’oggetto ricrea il suo ruolo.
L’operazione inventata da Duchamp si chiama “ready-made”; è un’operazione volutamente semplice, non occorre alcuna preparazione tecnica, la può eseguire chiunque. Questo perché Duchamp, in polemica con i suoi colleghi, vuole far scendere l’arte anche da quell’ultimo gradino in cui, nonostante gli intenti rivoluzionari, continuano a mantenercela i cubisti e tutte le altre correnti d’avanguardia.
Si tratta di una posizione estremista, radicale, che cancella l’ultimo fattore residuo che lega ancora l’arte moderna alla concezione storica dell’arte. Il Cubismo ha fondato un’arte come espressione di un processo teorico-pratico, ma che si serve, per la sua applicazione, ancora di strumenti tradizionali legati ad un concetto storico dell’arte, legato all’idea borghese di arte come modello tecnico. Ora, nell’era delle macchine, non ha più senso un’attività creativa che contiene ancora fattori di un passato ormai estinto. Dada non si limita a questo; si spinge oltre, fino a negare che l’arte si esprima ancora con la tecnica, qualsiasi tecnica. Potrebbe sembrare un’eresia, in realtà si tratta della precisa intuizione della nuova figura dell’artista in una società dominata dalle macchine e dai processi industriali. Macchine e processi industriali sono solo la parte materiale che ovviamente non può essere esperita da un solo individuo; la tecnica dunque non può essere faccenda personale; non è più un problema dell’artista. Egli si limita ad essere un ideatore, un orchestratore, un direttore-compositore: con ciò Dada nega l’importanza della fase manuale nell’arte.
Come ultima cosa, verrebbe logico chiedersi se la scelta degli oggetti da riordinare in una dimensione puramente estetica debbano avere in sé delle potenzialità estetiche. La risposta è sì, ma proprio perché estetiche non debbono avere affinità funzionali.

New York, Galleria Sidney Janis
Marcel Duchamp
RUOTA DI BICICLETTA (1913)
L’originale è andato distrutto per cui la foto si riferisce ad una ricostruzione del 1951
Ruota di metallo su sgabello di legno, altezza mt. 1,28

Non c’è nulla di più distante fra una ruota di bicicletta che subito richiama alla mente il moto e uno sgabello di legno che fa venire in mente la stasi. Sia la ruota della bicicletta che lo sgabello sono oggetti, ovvero opere dell’uomo, entrambi prodotti della tecnologia moderna, fabbricati dall’industria moderna. Eppure tutti e due hanno un qualcosa di estetico: la ruota è un cerchio perfetto completo di circonferenza e raggi; così lo sgabello è una struttura costituita da un cerchio (il sedile) e quattro assi (le gambe) disposti a circoscrivere uno spazio prismatico, messi in un certo ordine allo scopo di garantire stabilità. Ma fintanto che questi oggetti saranno impegnati in una funzione pratica, cioè si presentano nell’ordine stabilito dalla funzionalità quotidiana non saranno arte, in quanto l’arte è puro valore estetico, dunque non può rappresentare che sé stessa; è pura espressività, immagine privata del suo significato pratico. Perché gli oggetti comuni diventino arte devono diventare opere puramente estetiche, e per diventare opere puramente estetiche devono liberarsi del loro valore utilitaristico. Questa decantazione si ottiene semplicemente decontestualizzandoli dal loro ambito ordinario e ricontestualizzandoli in un ambito straordinario, dove nulla essendo utile tutto diventa estetico. Ad esempio basta unire la ruota della bicicletta allo sgabello per la forcella e rendere così inservibili tutti e due gli oggetti e dunque percettibili come pura espressione. Così operando Duchamp ottiene la riduzione dei significati simbolici ai simboli significanti, attraverso un’operazione creativa che non solo non prevede tecniche, ma neanche strumenti speciali, propri delle discipline figurative.

SCHWITTERS E IL MERZBAU

New York, Museo d’Arte Moderna
Kurt Schwitters
MERZBAU (1923/1932)
Riproduzione fotografica dell’originale andato distrutto da una bomba durante la seconda guerra mondiale
Materiale vario assemblato, altezza pari all’intera abitazione dell’artista ad Hannover

Duchamp sperimenta l’operazione dada sulla relazione spazio-oggetto, ma è possibile estendere questa esperienza all’altra componente strutturale dell’immagine artistica, il fattore tempo. È quello che prova a fare il tedesco Kurt Schwitters (1887-1948), nato a Hannover e morto a Ambleside, in Inghilterra, all’età di 61 anni. Non solo l’operazione di decontestualizzazione e ricontestualizzazione è possibile eseguirla nell’ambito spaziale, cioè trasferire un oggetto da un posto ad un altro, cioè da un ordine oggettuale ad un altro ordine oggettuale, ma è possibile spostarlo anche da un ordine temporale ad un altro. A questa operazione Kurt Schwitters dà il nome di merzbau.
Il merzbau consiste nel prelevare un oggetto che ha svolto, in un sistema di relazioni con altri oggetti, una certa funzione in una certa frazione di tempo e collocarlo in un altro insieme di relazioni con altri oggetti in un’altra frazione di tempo. Cosicché oggetti vissuti rivivono una seconda volta in una seconda dimensione spazio-temporale. Come si fa a prelevare un pezzetto di tempo?
Ogni oggetto quando viene prelevato dallo spazio in cui si trova porta con sé un frammento di quello spazio, altrimenti non ne potrebbe creare uno nuovo, così un oggetto quando lascia una porzione di tempo porta con sé un brandello di quel tempo passato. In altri termini un oggetto che ha fatto il suo tempo nel tempo ordinario è il materiale adatto per poter costituire una nuova sequenza temporale in cui rivivere come pura immagine espressiva dal momento che non ha più alcuna utilità. L’utilità di una cosa per Kurt Schwitters non è data solo dal ruolo che la cosa svolge in un dato contesto spaziale, cioè non solo quando è servita a muovere una macchina, ma anche quando è servita come mezzo di scambio o è stata sottoposta ad un processo di usura o consumo.
Nel merzbau che Kurt Schwitters costruisce nella sua casa di Hannover c’è ogni sorta di materiale raccolto in dieci anni. Biglietti del tram, scatole di cartone, bottiglie di liquori, pezzi di palanche e così via, cioè rifiuti, cose che sono servite un tempo e che poi, finita la loro funzione utile, sono state gettate via. È questo il momento adatto per coglierle, perché il tempo le ha depurate del loro valore utilitaristico e quindi le ha rese elementi puramente estetici, pronti per essere utilizzati nella strutturazione di opere estetiche. Queste non debbono essere necessariamente distinte nelle tradizionali categorie di settore; possono essere semplici oggetti raccolti, ma anche oggetti ulteriormente manipolati con colori, come lo stesso Schwitters dimostra con altri lavori quale l’assemblage del 1921, formato da tavolette di legno di vario spessore e forma, pezzi di sughero di reti di pescatori, retine, raccolti qua e là, colorati e inchiodati su un supporto.

IL SURREALISMO: CONCEZIONE ARTISTICA

Houston, Collezione privata
Max Ernst
EUCLIDE (1945)
Olio su tela, altezza cm. 65 – larghezza cm. 57

Il Surrealismo è molto più che una corrente critica, è una teoria, la teoria dell’arte nell’inconscio. Il Surrealismo è, almeno all’inizio, l’attività creativa che coglie l’arte nelle relazioni strutturali di quelle immagini attraverso cui si rende manifesto l’inconscio, ovvero quella categoria di atti compiuti in totale assenza del controllo della ragione. Nell’applicazione pratica tale principio porta come stretta conseguenza l’automatismo psichico. Il pensiero artistico surrealista non è soltanto avverso al Cubismo, ma si fonda su una teoria che vede il principio dell’arte nei processi inconsci. Per visualizzare l’inconscio ci sono diverse strade; quella privilegiata dal Surrealismo è la rappresentazione dei sogni. La dimensione onirica non è soltanto una dimensione che l’arte esplora meglio di altri strumenti grazie alla sua competenza specifica nel campo delle immagini, è la sede stessa dell’arte, la sfera dove dimora, l’ambito dove andare a cercarla. Infatti nel subconscio onirico i pensieri inconsci sono formulati sotto forma di immagini, e poiché l’arte è uno strumento fatto di immagini risulta essere il più adatto a rivelarne l’esistenza. Questa considerazione può far pensare ad un interesse scientifico dell’attività creativa nel settore specifico del subconscio, e infatti i lavori della prima fase surrealista assumono il carattere di un test psicologico, ma l’arte non si interessa dei sogni per analizzare le connessioni misteriose della psiche, bensì per trovare relazioni estetiche; e queste relazioni per essere estetiche debbono risultare dalla trascrizione assolutamente automatica del sogno in immagine artistica. Il Surrealismo fonda le sue basi concettuali sulle teorie di Sigmund Freud (1856-1939), padre della psicanalisi. Secondo Freud la mente umana è costituita da tre parti: quella che chiama Es (esso in tedesco), l’Io e il Super-io. L’Es equivale alla zona più profonda, quella che non viene mai in superficie; è la sede dei desideri inespressi, insoddisfatti, repressi; è una forza incontrollabile, completamente irrazionale. L’Io è la regione dove opera la coscienza; si trova nella zona superficiale della mente ed equivale ad una piccola porzione dell’intero apparato psichico. Il Super-io sono le convenzioni imposte dalla cultura sociale dominante, cioè il carico di insegnamenti educativi, morali e sociali che spinge l’uomo ad inibire i propri impulsi. Queste tre parti interagiscono tra loro in modo preciso. L’Es è istintivo, senza freni, disinibito; il Super-io è rigido, prestabilito, imperativo; l’Io è interattivo e si pone come mediatore tra le istanze dell’Es e quelle del Super-io. Per visualizzare l’inconscio ci sono diverse strade; quella privilegiata dal Surrealismo è la rappresentazione dei sogni. In pieno accordo con Freud, molti tra la prima generazione di artisti che si è riconosciuta in questa poetica hanno creduto che nel sogno si nascondessero i desideri inconsci che l’obbedienza alle convenzioni borghesi reprimono. Portando attraverso l’arte i sogni alla luce l’attività creativa diventa così il modo più idoneo per liberare l’uomo dalle frustrazioni che l’obbedienza alle regole sociali genera; di qui la preferenza per quei prodotti dell’attività onirica produttrice di immagini prive di senso logico, incomprensibili, dove regna la confusione. Secondo Breton, massimo teorico della corrente, il Surrealismo è: «…automatismo psichico puro mediante il quale ci si propone di esprimere sia verbalmente, sia per iscritto o in altre maniere, il funzionamento reale del pensiero; è il dettato del pensiero con l’assenza di ogni controllo esercitato dalla ragione, al di là di ogni preoccupazione estetica e morale». Ma che cosa emerge dall’attività visualizzatrice delle forze inconsce e dell’attività onirica? Paure; paranoie; angosce; drammi; morbosità; follie; o all’opposto: giocosità; ambiguità; stravaganze. Dunque un mondo più libero sì, ma che non si può certo definire desiderabile, e seppur non fa rimpiangere il mondo convenzionale borghese, non si pone come valida alternativa. L’iconografia surrealista è spesso imitativa dell’immagine subconscia, almeno all’inizio, ma non è la sua rappresentazione; non c’è rapporto proiettivo fra le icone dell’arte e i simulacri del subconscio. L’immagine surrealista non dipende da un’applicazione di regole proiettive, né teoriche né empiriche, ma da un’azione trascrittiva, una sorta di risposta motoria incontrollata, meccanica ad impulsi provenienti dalle regioni più profonde della psiche. Il Surrealismo usa le immagini sia di origine culturale che empirica come le parole scritte; concepisce l’azione artistica come una sorta di scrittura involontaria. Il linguaggio scelto all’inizio è quello del simbolismo: ci si serve di elementi strutturali di origine culturale per comunicare l’invisibile.

I CARATTERI DELL’INCONSCIO

Come nelle principali correnti d’avanguardia è fondamentale l’esperienza visiva così nel Surrealismo è fondamentale l’esperienza onirica, fonte rivelatrice dell’esistenza inconscia.
L’inconscio ha un carattere singolare, riconoscibilissimo rispetto al conscio. Se il conscio è la dimensione del razionale, del distinto, il subconscio è la dimensione dell’irrazionale e dell’indistinto.
Nei sogni le relazioni che alla coscienza appaiono distinte e irrelazionabili, diventano indistinte e rivelano collegamenti tanto più saldi quanto più illogici; principio di questa estetica è il non essere.

LA QUESTIONE TECNICA NEL SURREALISMO

Naturalmente l’automatismo comporta anche una scelta tecnica opportuna. Qualsiasi mezzo è buono, pittura tradizionale, collage, montaggio di immagini e di oggetti, purché non si ponga come problema e agisca soltanto come meccanismo di rilevamento o di produzione delle immagini.
Nel Surrealismo la tecnica non risulta essere un fattore di estrema importanza: difatti si fa ricorso a tutte le tecniche, anche le più insolite; unica condizione da osservare nella maniera più rigorosa è che deve rimanere obbligatoriamente manuale. Questo perché fra la fonte e la trascrizione si deve annullare qualsiasi tipo di mezzo che comporti una qualche forma di attività conscia, ché disturberebbe, pena l’annullamento, l’attività inconscia, cioè andrebbe in conflitto con l’azione di trascrizione automatica. L’arte nella poetica surrealista non si identifica né con il progetto né con la prassi, è un mezzo di adesione spontanea al fenomeno inconscio. Dipingere serve a liberare il proprio inconscio, per questo si escludono i mezzi troppo cerebrali: la manualità dunque, e non la tecnica manualistica, risulta indispensabile.
La scelta della manualità artigianale perciò sta ad indicare l’incompatibilità dell’arte con la tecnologia, ovvero la sua insopprimibile funzione di mezzo di sintonizzazione con l’esistenza inconscia, che è poi l’essenza stessa della vita spirituale, non solo intellettuale o biologica. Quindi la manualità è legata alla sopravvivenza stessa dell’uomo in quanto individuo indissolubilmente connesso al suo inconscio, al suo essere irrazionale; inalienabilità allo stato puro.

IL “COLORE” SOCIALE DELL’INCONSCIO

Il Surrealismo è una corrente ben strutturata, ha precise relazioni con le altre correnti avanzate e si colloca consapevolmente in una posizione critica rispetto a tutti quei movimenti contemporanei ad indirizzo costruttivista, ovvero quelle tendenze che sostengono la tesi dello storicismo dell’arte e del suo coordinamento con il resto della società. Il suo principale obiettivo critico ideologico è quello di sconfessare l’idea di un’arte appartenente alla sfera conscia, fondata sull’atto volontario, guidata dal progetto. Questa idea infatti, a modo di vedere dei surrealisti, funge da ipocrita copertura, dettata dal conformismo sociale e culturale, dei reali ma inconfessabili, perché sconvenienti, desideri borghesi. I surrealisti utilizzano l’arte inconscia dunque per portare alla luce quelli che sono le fantasie e le brame segrete di una classe che si ripara dietro la facciata della rispettabilità, visualizzata dalle forme del potere borghese: la scienza e la tecnica. Per cui l’inconscio che si rivela attraverso la trascrizione surrealista non è necessariamente quello dell’artista, ma quello di un’intera classe sociale, la classe dirigente borghese.

RELAZIONE DEL SURREALISMO CON METAFISICA, DADA E FUNZIONALISMO ARCHITETTONICO

Storicamente il Surrealismo discende dall’esperienza dada e da quella metafisica. I rapporti di dipendenza del Surrealismo da Dada come dalla Metafisica sono più che documentati. Il manifesto dada del 1918 rappresenta la prima adesione del nucleo promotore della corrente surrealista al movimento di Tzara. Il 1921 è invece l’anno che decreta la rottura fra il rumeno e Breton, il principale animatore e ideatore del movimento surrealista. Rottura dovuta all’incompatibilità fra i caratteri dei due movimenti: l’agitazione fine a sé stessa dei primi contro l’esplorazione della scrittura automatica dei secondi. Nel 1924 esce il manifesto del Surrealismo; nel 1928 Breton pubblica l’articolo Le surréalisme et la peinture, una vera e propria teoria surrealista.
Il movimento surrealista si sviluppa contemporaneamente ma in evidente antitesi al Razionalismo architettonico e al nascente design, propugnatori di tesi artistiche fondate sulla relazione logica tra forma e contenuto funzionale. Entrambi puntano ad essere movimenti internazionali, superare i motivi che possono costituire oggetto di distinzione nazionale: infatti L’irrazionale così come la razionalità appartengono alla natura umana, che come tale è senza distinzione di luoghi e di tempi. Tuttavia nel Surrealismo si rimarca la divergenza sulla funzione sociale dell’arte, che nel Razionalismo rimane impostata su un rapporto di collaborazione con le altre forze produttive per cambiare le strutture della società, mentre nel movimento surrealista rimane impostata sul dissenso e sul ribaltamento dei valori costituiti, primo fra tutti quello che fa capo alla repressione degli istinti da parte del decoro borghese, ma, oltre a ciò, anche del buon senso razionale.
Innegabile affinità con il Dadaismo si riscontra pure nella questione linguistica. A guardar bene nell’immagine inconscia si ritrovano gli stessi elementi simulacrali consci, ma decontestualizzati dalla loro funzione pratica per essere ricontestualizzati in un sistema di relazioni la cui funzione non essendo pratica, risulta necessariamente estetica.

MAX ERNST

Fra tutti i surrealisti il più attento alle relazioni tra ambito surreale e cultura borghese è Max Ernst (1981-1976). Max Ernst nasce a Brühl, Colonia, muore a Parigi, all’età di 85 anni. Giunge al Surrealismo passando per l’esperienza dada, dunque la sua formazione è critica più che onirica. Il suo surrealismo non sboccia dalla trascrizione automatica dei sogni, ma dalla critica dei sistemi razionali; le sue immagini surreali risultano dall’applicazione dell’esatto contrario dei principi del razionalismo.
La forma surreale di Ernst dipende dall’assoluta assenza di controllo nella fase esecutiva, cioè a dire che nessuna forma di censura, né razionale né empirica si deve interporre fra l’immagine automatica e il supporto al momento dell’azione estetica.
L’artista sperimenta tutte le tecniche. Utilizza il frottage, una particolare tecnica di calco, mutuata da quel particolare gioco infantile che consiste nello strofinare una matita morbida su una carta fina sovrapposta ad una superficie ruvida o con lievi risalti, proprio perché automatica, priva di qualsiasi implicazione a livello della coscienza. Si avvale anche di altre tecniche simili come il grattage, che consiste nel sovrapporre più strati di colori di diverso tipo per poi tirar via, con un temperino o una lametta, le stesure superiori in modo da scoprire quelle inferiori. Tali tecniche sono scelte proprio perché scarse di difficoltà operative quanto ricche di potenzialità immaginative. Ciò significa che per Max Ernst l’immagine inconscia segue l’azione dell’artista, non la precede.

RELAZIONE DELL’ARTE SURREALISTA CON IL CUBISMO: JUAN MIRÓ

Washington, Galleria Nazionale d’Arte Moderna
Joan Miró
LA FATTORIA (1921/1922)
Olio su tela, altezza mt. 1,24 – larghezza mt. 1,41

Un atteggiamento molto simile a quello assunto dal Surrealismo nei confronti del Dadaismo lo ritroviamo nei confronti del Cubismo. La concezione dell’inconscio in arte non può che ricusare una concezione basata sul controllo del soggetto come quella cubista. Della concezione cubista però al Surrealismo interessano i risultati. L’immagine cubista è, né più né meno, il risultato di un sistema di relazioni esattamente come quello che si dà nel sistema di relazioni che costituisce l’immagine naturale. Ora, se il Surrealismo adotta l’immagine naturale come mezzo linguistico di trascrizione dell’inconscio, risulta logico adottare come termine linguistico anche l’iconismo cubista. È quello che fa per primo Joan Miró (1893-1983), fondatore del Surrealismo astratto.
L’arte surrealista indica nell’automatismo il principio della trascrizione visiva delle pulsioni inconsce. Ora se, come aveva dimostrato Kandinskij (1866-1944), la trascrizione priva di qualsiasi controllo porta al linguaggio astratto, ne consegue che il linguaggio proprio del Surrealismo deve essere necessariamente astratto. L’artista che fa di questa conclusione semplice e diretta la propria poetica è Joan Miró.
Le creazioni di Joan Miró contrariamente a quelle di Ernst, che necessitano di un input reale, nascono direttamente dalla fantasia visionaria. La sua evoluzione verso forme astratte è alquanto rapida. Del 1921/’22 è La fattoria in cui sono ancora chiaramente riconoscibili oggetti concreti. Si tratta di un dipinto dall’atmosfera un po’ naïf, ma se ci si addentra in un’analisi più approfondita si vede bene che non c’è nulla dell’ingenuità spontanea dei seguaci di questa poetica; al contrario tutto è meticolosamente orchestrato a partire dalla disposizione dei rami dell’albero che si erge al centro della composizione, quasi fosse un asse verticale. I colori sono luminosissimi; sono gli stessi dei campi della sua terra, la Catalogna. C’è in quest’opera già tutta la personalità di Miró, una personalità solare associata ad una quanto mai spiccata felicità espressiva. La svolta stilistica avviene quando Joan va a stare definitivamente a Parigi. Qui vive la più eccitante stagione culturale del secolo accanto ad artisti e letterati provenienti da ogni parte del globo. A Parigi fa l’incontro e subito ne resta folgorato con il Surrealismo.

Buffalo, Galleria d’Arte Albright Knox
Joan Miró
CARNEVALE DI ARLECCHINO (1924/1925)
Olio su tela, altezza cm. 66 – larghezza cm. 93

Il suo primo lavoro surrealista è il Carnevale di Arlecchino, opera molto importante per capire la sua particolare interpretazione di questa poetica. Sebbene ancora chiaramente riconoscibili, gli oggetti, semplificati al massimo, non si dispongono nello spazio secondo un sistema di relazioni assolutamente improbabili, ma fluttuano galleggiando come in una camera antigravitazionale. Molti di questi si sono trasformati in figure quasi grottesche, caricaturali, prive di consistenza, senza peso. Sono chiaramente immagini richiamate in vita dall’artista, pescate nel fondo del suo mondo fantastico, subconscio. Sempre nel 1925 firma un’altra tela Il catalano in cui scompare ogni richiamo al linguaggio naturalistico. Da questo momento in poi il suo vocabolario si va definitivamente sviluppando in senso astratto.
I venti di guerra che soffiano sull’Europa degli anni Trenta investono anche lui così da incrinare momentaneamente la spigliatezza espressiva. In seguito a ciò i suoi colori si incupiscono e le forme si caricano di toni drammatici. Del 1937, cioè del periodo della guerra civile spagnola, è il dipinto intitolato Natura morta con una vecchia scarpa, dove le tinte si accendono di toni incandescenti come di bagliori di esplosioni durante la notte. Sono di questo periodo anche le così dette pitture selvagge e i mostri, opere il cui scopo è risvegliare gli uomini dal sonno della ragione, come molti anni prima di lui aveva fatto il connazionale Goya (1746-1828).

ALTRI PROTAGONISTI DEL SURREALISMO: MAN RAY

Man Ray
RAYOGRAPH (1923)
Lastra fotografica impressionata a contatto,
altezza cm. 50 – larghezza cm. 40

Man Ray è un fotografo di professione che aspira a fare il pittore. Il suo vero nome è Emmanuel Radnitsky. Nasce a Philadelphia in Pennsylvania e muore a Parigi all’età di 86 anni. Dopo l’esordio dadaista passa al Surrealismo.
Le sue creazioni più originali sono i rayogrammi. I rayogrammi sono foto ottenute esponendo direttamente gli oggetti su pellicola fotografica alla luce del proiettore da sviluppo, in camera oscura. Il principio naturalmente è suscettibile di infinite variazioni giocando sulla combinazione di diverse pellicole e diversi tempi di esposizione.

MAGRITTE

Liegi, Collezione privata
René Magritte
IL DOPPIO SEGRETO (1928)
Olio su tela, altezza mt. 1,14 – larghezza
mt. 1,62

René Magritte
ILLUMINAZIONE (1934)

René Magritte (1898-1967) è un fiammingo come Ensor (1860-1949), Bosch (1450 c. – 1516) e Bruegel (1525 c. – 1569), e come questi la sua arte è visionaria, fantastica. Muove dalla Metafisica e il suo surrealismo più che nascere dalla trascrizione automatica dei sogni si crea nell’opera dall’accostamento insolito degli oggetti in un contesto insolito. Se il meccanismo è lo stesso che in De Chirico diversi sono i soggetti considerati. Non già manichini allusivi a inquietanti personaggi mitici, ma immagini di persone comuni, cose banali, oggetti usuali tratti dalla realtà di tutti i giorni. Inoltre la sua operazione non si limita alla decontestualizzazione e ricontestualizzazione alogica delle cose, ma si spinge a creare delle sovrapposizioni, a penetrare persino nei corpi aprendoli per mostrarne il contenuto. Questo contenuto è sempre ciò che non ci aspetteremmo mai di vedere. Inoltre con sottile senso del valore estraniante dell’ambiguità, si avvale di accostamenti di oggetti che si danno alla doppia lettura. Di fondamentale importanza in Magritte è la tecnica che si avvale del tradizionale Trompe l’oeil, il quale facendo le cose più vere del vero rende più reali, dunque più inquietanti, le immagini surreali.
Il doppio segreto è un dipinto del 1928 dove è raffigurato un busto di donna (?) davanti al mare a cui viene strappato via un pezzo per poi porglielo a fianco. La parte divelta lascia intravedere l’interno che con gran sorpresa non è costituito dagli organi vitali ma da un fondo rugoso come di corteccia su cui sono sospesi dei sonagli. Questo fatto di vedere con tanta evidenza una realtà che non possiamo spiegare genera nell’osservatore un certo senso di stupore misto a inquietudine. Ma è proprio questo senso misto che si vuole suscitare e dunque per quanto riguarda tale aspetto il quadro si può dire perfettamente riuscito. La stessa cosa accade quando ci troviamo al cospetto di un’immagine in cui guardando la metà inferiore sembra notte mentre guardando quella superiore sembra giorno (si ricordi a questo proposito i bizantini). Sono tali assurdità che provocano sottile turbamento nell’osservatore, illogicità dovute alla compresenza nella stessa immagine di situazioni e oggetti che in natura non si trovano in rapporto tra loro.
Tutte le sue opere sono impostate in questo modo. Come ulteriore esempio possiamo prendere il quadro intitolato Illuminazione in cui, sovrapposte ad un orologio che segna, stando alla posizione della lancetta delle ore, le 8:50 minuti circa, mentre stando a quella dei minuti le 8:08, ci sono due specie di balloons in cui appaiono in uno cirri bianchi contro il cielo azzurro, nell’altro i soliti sonagli sospesi nel vuoto di una cavità dalle pareti rugose, il tutto inserito in quello che sembra essere l’interno di una stanza tinteggiata di rosso.

DELVAUX, MASSON

New York, Collezione privata
Paul Delvaux
LA DONNA CON LA ROSA (1936)
Olio su tela, altezza cm. 45 – larghezza cm. 34

Parigi, Collezione privata
André Masson
IL FILO DI ARIANNA (1938)
Olio e sabbia su tela, altezza cm. 22 – larghezza cm. 27

Anche Delvaux (1897-1994) è belga. Il suo tema fondamentale è la donna. In tutti i suoi quadri compaiono come in una ossessione continua donne nude. Questo particolare ha fatto scatenare una ridda di supposizioni tendenti a psicanalizzare il personaggio. Certo è che la sua opera risente di un comprovato complesso psicologico dovuto al dominio esercitato sull’autore dalla madre.
André Masson (1896-1987) è un surrealista legato al Cubismo. Questo artista è importante per aver unito all’immagine surrealista la scomposizione analitica come parte integrante del linguaggio visivo subconscio, giungendo a sovrapposizioni e compenetrazioni nella trascrizione automatica della visione inconscia.

TANGUY

New York, Museum of Modern Art
Yves Tanguy
MAMMA, PAPÀ È FERITO! (1927)

Per Yves Tanguy (1900-1955) l’esperienza di De Chirico è fondamentale. Ancora giovane ha la rivelazione della sua vera strada da percorrere vedendo dall’autobus un’opera dell’inventore della Metafisica esposta in una vetrina. Nel 1925 aderisce al Surrealismo diventandone uno dei massimi interpreti. La sua visione surreale è caratterizzata dalla rappresentazione di spazi infiniti occupati (è il giusto termine) da strane presenze, come di forme di vita arcaiche, primitive, ameboidi, organismi protozoici. La luce è posta lateralmente, bassa sull’orizzonte a generare ombre lunghe le quali contribuiscono in maniera determinante alla suggestività dell’immagine. Si è parlato nel suo caso di autentiche allucinazioni. La cosa è confermata dai titoli che non hanno nessun legame apparente con le immagini, tuttavia stanno ad indicare uno stimolo o una associazione inconscia che coinvolge l’opera nella sua totalità.
Alcuni esempi: Mamma, Papà è ferito! Oppure: Morto che guarda la sua famiglia; o ancora: Se fosse.

SALVADOR DALÌ

New York, Museo d’Arte Moderna
Salvador Dalì
LA PERSISTENZA DELLA MEMORIA (1931)
Olio su tela, altezza cm. 24 – larghezza cm. 33

Rotterdam, Museo Boymans Van Beoningen
Salvador Dalì
VENERE A CASSETTI (1936)
Bronzo dipinto, altezza mt. 1

Basilea, Museo d’Arte
Salvador Dalì
GIRAFFA IN FIAMME (1936/1937)
Olio su Tavola, altezza cm. 35 – larghezza cm. 27

L’artista che forse più di ogni altro impersona il Surrealismo agli occhi del grosso pubblico è Salvador Dalì (1904-1989). Al contrario per storici, critici e altri esperti Salvador Dalì è stato un ottimo manager di sé stesso, un istrione che si è saputo costruire con molta abilità l’immagine dell’artista geniale, fuori dagli schemi, che dipinge in preda all’ispirazione, in stato di trans. Ciò che maggiormente si critica di lui è l’eccessivo compiacimento per la spettacolarità delle trovate e per il virtuosismo della tecnica, cosa questa che influisce spesso negativamente sull’autenticità dell’ispirazione poetica.
Salvador Dalì nasce a Figueres (Figueras in catalano) in Catalogna e muore sempre a Figueres, quando gli mancano meno di quattro mesi per finire l’ottantacinquesimo anno. E’, come Picasso, fuor di dubbio uno degli artisti moderni più noti al mondo, non solo per le sue opere ma anche e soprattutto per il fatto di essere un vero e proprio soggetto dalla personalità travolgente. In Spagna viene venerato come un santo; per far visita ai suoi luoghi eletti, il museo di Figueres, la casa a Portlligat e il castello di Pubol, si svolgono ogni anno degli autentici pellegrinaggi. Come tutti i soggetti dalla personalità travolgente Dalì è stato studiato, indagato, psicanalizzato. Nei suoi confronti si sono formati schieramenti distinti, quello dei detrattori e quello degli estimatori. Denigrato dai primi e accusato di aver copiato idee altrui viene considerato un genio assoluto dai secondi. Come al solito però per improntarne un breve profilo storico occorre rifuggire dai giudizi di gusto e guardare alle componenti formative del suo linguaggio, nonché alla sua importanza per l’arte contemporanea. Per quanto riguarda le fonti culturali Dalì attinge da molti artisti, moderni e antichi. Da Tanguy, Magritte, De Chirico, Ernst e non ultimo Picasso per quanto riguarda i moderni; i manieristi come il Pontormo (1494–1557) e il Parmigianino (1503-1540), nonché dagli anamorfisti cinquecenteschi, così come pure, almeno a sua detta, dai realisti seicenteschi come Velazquez (1599-1660) e Vermeer (1632-1675), per quanto riguarda gli antichi. E la cosa è abbastanza normale dal momento che ogni artista attinge da chi lo ha preceduto. Sebbene le fonti siano innumerevoli, ciò che conta è vedere cosa esce dalla combinazione delle diverse sollecitazioni culturali; e da questo punto di vista non si può certo negare che quello di Dalì è un linguaggio assolutamente originale. A parte ciò, quel che occorre rilevare dal lato critico è che spesso il suo estenuato virtuosismo subissa la trasmissione delle emozioni più intime. D’altro canto però non si può certo accusarlo di creare le sue immagini surreali con un semplice meccanismo di associazione libera di figure pseudo-naturalistiche. Inoltre bisogna credergli quando ci rivela egli stesso l’automatismo delle sue composizioni, la genesi dei suoi dipinti. Così come si evince dai suoi racconti, al momento della realizzazione di un’opera Salvador medita a lungo davanti alla tela bianca fino all’attimo in cui finalmente vede sorgere qualcosa, e allora, di getto comincia a lavorare come in trance. A volte l’attesa dura tutta la giornata; a volte l’ispirazione arriva di notte; a volte dopo mangiato: come la vocazione, l’arte arriva quando meno te l’aspetti. Il suo metodo surrealista lo chiama paranoico critico, che in altre parole vuol dire vivere lucidamente la visualizzazione delle sue fissazioni più profonde.
Innumerevoli sono le opere, molte delle quali figurano fra le più conosciute in campo surrealista. Impossibile elencarle tutte, basta citarne alcune, fra le più significative, tipo: La giraffa in fiamme, La Venere a cassetti, Il gran masturbatore, i numerosi autoritratti insieme a Gala (1894-1982), sua moglie, e gli strafamosi orologi molli.
Commentiamone qualcuno. Iniziamo dagli orologi molli. Cosa significano gli orologi molli?
È l’interpretazione tutta personale di uno dei più noti temi ricorrenti della pittura surrealista: la persistenza del tempo nella memoria. Non esiste solo il tempo oggettivo, quello scandito dalle lancette dell’orologio, quello che passa indipendentemente dal nostro modo di sentire, seguendo una struttura di intervalli regolari, tutti uguali tra loro. Esiste anche un tempo psicologico, che si restringe o si dilata a seconda delle nostre condizioni esistenziali: è breve quando stiamo bene, ed è lungo quando stiamo facendo cose che non ci piacciono. Insomma il tempo è plastico, non geometrico, dunque gli orologi che lo misurano e lo rappresentano ai nostri occhi non possono essere degli oggetti rigidi, ma, molto più eloquentemente, molli.
Proverbiale e rivelatrice è la genesi degli orologi molli. È lui stesso a raccontarci come è nato questo quadro. Una sera, in procinto di uscire con la moglie Gala e alcuni amici, per un improvviso malessere Salvador è costretto a rinunciare e rimanere a casa. Cena con un pezzo di formaggio fresco e molle ed è l’ispirazione. Presto si mette al cavalletto e in una notte insonne dà vita ad uno dei suoi lavori più celebri.

Madrid, Museo Thyssen-Bornemisza
Salvador Dalì
SOGNO CAUSATO DAL VOLO DI UN’APE INTORNO AD UNA MELAGRANA, UN ATTIMO PRIMA DEL RISVEGLIO (1944)
Olio su tela, altezza cm. 51 – larghezza cm. 41

Figueras, Fondazione Gala-Salvador Dalì
Salvador Dalì
LEDA ATOMICA (1949)
Olio su Tela, altezza cm. 61 – larghezza cm. 45

Per i critici il Sogno causato dal volo di un’ape intorno ad una melagrana, un attimo prima del risveglio è un dipinto che appartiene alla fase decadente, ovvero quella in cui all’artista si imputa il peccato di compiacersi della sua stessa filosofia estetica. Fatto sta che in questa opera, tra le più leggendarie, Salvador si dimostra attento lettore di Freud (1856-1939). Ciò che lo colpisce qui è quel particolare meccanismo per cui a volte avvenimenti esterni vengono “scaraventati” dentro ai sogni con assoluta naturalezza, trovando al loro interno un’assoluta coerenza irrazionale.
Il quadro rappresenta Gala (la donna nuda) mentre dorme e sogna beatamente, quando un qualcosa interrompe bruscamente il suo riposo: un’ape che ronza intorno ad una melagrana. Questo fatto viene subito interiorizzato e trasformato in una immagine in cui la protagonista si sente colpita da una baionetta; intorno pullulano figure assurde come un elefante dalle zampe di ragno e due tigri ruggenti che si materializzano uscendo dalle fauci l’una dell’altra e l’altra dalla bocca di una scorpena.
Le associazioni storiche, oltre che casuali qui sono evidenti: l’elefante con l’obelisco sulla groppa rimanda a quello di Santa Maria sopra Minerva del Bernini (1598-1680), al Pantheon, a Roma. Siamo nel 1944, alla vigilia di un cambiamento stilistico abbastanza significativo. È l’inizio di una nuova fase, in cui l’artista si indirizza verso opere sempre più estrose dal punto di vista della tecnica manualistica tradizionale e contrassegnate da un’accesa emulazione del passato devozionale barocco.