IL POSTAVANGUARDISMO
ARTE E GLOBALIZZAZIONE
LE NUOVE REALTÀ EMERGENTI
LE PROBLEMATICHE: L’ARTE DOPO LA “MORTE DELL’ARTE”
LA QUESTIONE TECNICA OGGI
ASTRATTO E FIGURATIVO
L’INTELLETTUALIZZAZIONE DELL’ARTE MODERNA
IL MERCATO PUBBLICO
INDIRIZZI POETICI ATTUALI
TENDENZE PRINCIPALI DEL POSTMODERNISMO
LA NUOVA CLASSICITÀ E LE ALTRE CORRENTI POST-CONCETTUALI

LA PITTURA NEOESPRESSIONISTA
IL GRAFFITISMO
TENDENZE DELL’ARCHITETTURA CONTEMPORANEA: DAGLI ANNI SESSANTA AD OGGI
INTERNATIONAL STYLE
BRUTALISMO
ARCHITETTURA MINIMALISTA

ARCHITETTURA UTOPICA E RADICALE
ARCHITETTURA POSTMODERNA
HIGH TECH
DECOSTRUTTIVISMO
REGIONALISMO CRITICO
L’ARCHITETTURA DEL DUEMILA
BLOB ARCHITECTURE
ARCHITETTURA SOSTENIBILE
ARCHITETTURA MIMETICA


Il POSTAVANGUARDISMO

Torino, Galleria Massimo Minini
Vittorio Messina
SENZA TITOLO (1986)
Cemento, calcare, ottone, tessuto e neon

L’ultimo approdo del racconto performante è quello che conduce alla conoscenza del linguaggio visivo dei nostri giorni. Prima di far visita alle opere contemporanee, però, procediamo, come di consueto, a tracciare i lineamenti della situazione attuale e delle sue problematiche. Quando lessi per la prima volta ciò che scriveva G.C. Argan (1909-1992) alla fine della sua storia dell’arte italiana «La storia del contrasto tra ricerca estetica e potere non può essere ancora scritta, il contrasto è in atto e ha, come tutti i contrasti, alterne vicende…» correva l’anno 1970 e si era in piena fase conflittuale fra arte e sistema. Oggi, a terzo millennio ormai avviato, è lecito chiedersi se da allora il dissidio continua e, se sì, se ha ragione di sussistere. Quasi tutta l’arte contemporanea critica l’industria dell’arte. Tuttavia alla luce di quanto è dato vedere analizzando la situazione attuale (ma anche quella passata), c’è da chiedersi se la critica sia fondata e fino a che punto. I motivi sono diversi. Tutti gli artisti, sia moderni che contemporanei, devono la loro notorietà alle svariate opportunità che il mercato dell’arte ha offerto e offre loro. Dada, Cubismo, Surrealismo non sarebbero conosciuti se non ci fossero stati i grandi industriali o i collezionisti, cioè la ricca borghesia, a sostenerli, comprando le opere dada, cubiste, surrealiste. Attualmente è sempre la ricca borghesia a sostenere l’arte contemporanea; la differenza con l’arte del Novecento sta nel contesto storico, nelle modalità di sostegno e nel ruolo dei soggetti coinvolti. In passato, il sostegno era motivato anche da un desiderio di prestigio, di innovazione culturale, di identificazione sociale e di investimento personale, e il contesto era di élite. All’epoca di Dada, Cubismo, Surrealismo l’arte era anche un mezzo di espressione rivoluzionaria, spesso con un forte valore artistico e culturale e il mercato era più ristretto e spesso controllato da pochi collezionisti e gallerie. Oggi il mercato dell’arte contemporanea è molto più globale e diversificato. Oltre ai ricchi collezionisti, ci sono miriadi di gallerie, musei pubblici, fondazioni, istituzioni culturali e anche un pubblico più ampio, incuriosito e partecipe. Inoltre, confrontandosi spessissimo con temi sociali, politici e ambientali, l’arte contemporanea trova sostegno anche nelle iniziative pubbliche e nelle campagne di sensibilizzazione. In sintesi, mentre in passato il sostegno era più concentrato nelle mani di pochi ricchi e industriali, oggi il mercato dell’arte coinvolge una rete più ampia di attori, con un ruolo più attivo anche delle istituzioni pubbliche e della società civile. L’arte contemporanea è molto più globale, i contenuti più accessibili grazie ad una più massiccia divulgazione, e il suo mercato è più complesso e articolato. La presenza di grandi fiere, aste internazionali, gallerie di lusso e collezionisti privati fa sì che il commercio abbia un ruolo molto forte nel determinare il valore e la diffusione delle opere. Questo può portare ad un certo assoggettamento dell’arte alle logiche mercantili, come la domanda e l’offerta, i trend del momento e le strategie di marketing. In sostanza, in passato erano gli artisti a fare l’arte, oggi l’arte contemporanea è fabbricata dai mercanti d’arte. Tuttavia non bisogna generalizzare troppo, occorre distinguere. La critica all’industria dell’arte non è rivolta ai singoli commercianti o galleristi in sé, quanto piuttosto al sistema nel suo complesso, che può favorire certi tipi di arte a discapito di altri, o mettere in secondo piano il valore artistico rispetto a quello commerciale. Molti artisti e critici vogliono mettere in discussione le logiche di mercato, la mercificazione dell’arte, e il modo in cui il profitto può influenzare le scelte artistiche. Quindi, anche se la notorietà spesso passa attraverso il circuito commerciale, la critica nasce dal desiderio di mantenere l’arte come forma di espressione autentica e non solo come prodotto di consumo. E qui s’impone l’aspetto paradossale della situazione attuale. Gli artisti quotati sul mercato milioni di dollari è il mercato stesso a volerli liberi di fare quello che si sentono; il mercato premia soprattutto l’originalità e l’autenticità. Se le logiche di mercato influenzano le scelte artistiche, portando gli artisti a creare opere che siano più “vendibili” o “di tendenza”, perché prendersela con il mercato e non con la debolezza dell’artista? Perché prendersela con l’altro e non con la propria fragilità? Tutto ciò sembra voler cercare una giustificazione alla propria tendenza al cedimento, ed è molto infantile. Se poi ci si spinge avanti nel discorso con coerenza, la conclusione a cui si giunge è ancora più paradossale. Artista veramente libero è colui che è costretto a fare un altro lavoro per sopravvivere come libero intellettuale, oppure è colui che la cultura ufficiale ignora, o non ritiene che possa far concludere buoni affari; si è artisti liberi solo se si è indipendenti dal mercato, ovvero non si è professionisti.

ARTE E GLOBALIZZAZIONE

Nell’ultimo ventennio del XX secolo, di fronte al fenomeno dell’integrazione dell’arte in funzione di una esportazione in scala mondiale del modello economico capitalista, vale a dire di fronte al fenomeno della globalizzazione, i toni della contestazione non si sono affatto spenti, anzi si sono amplificati arrivando a livelli sempre più spettacolari. Tuttavia nulla può il neo-modernismo contro le forze immani della speculazione e pertanto la sua azione si risolve nella produzione di opere uniche in mezzo ad un oceano di oggetti seriali, opere che vanno a rimarcare, e non a livellare, le divisioni interclassiste della moderna società tecnologica e industriale. L’opposizione alla restaurazione dei regimi autoritari attraverso l’informazione globalizzata è il dato che induce gli artisti contemporanei a rivendicare la libertà espressiva delle avanguardie e quindi a rendere correnti i valori romantici contro un mondo che si va sempre più qualificando come un mondo ad un’unica dimensione. Ciononostante la sensazione è che oggi di artisti autenticamente romantici non ne rimangono che pochi. Le loro espressioni sono gli ultimi sussulti di un periodo che ormai sta tramontando definitivamente, se non già tramontato; sono le ultime sacche di resistenza di un innegabile periodo di cambiamento globale nel riflusso generalizzato delle spinte rivoluzionarie. Ciò detto, in conclusione si può affermare che, al di là delle singole tendenze, essere artisti oggi significa essere tutti uniti contro la morte delle libertà espressive individuali.

LE NUOVE REALTÀ EMERGENTI

Le esposizioni degli ultimi anni hanno abituato gli appassionati a vedere di tutto, dalle installazioni sempre più assurde e sempre più spettacolari al ritorno dei quadri figurativi con chiare allusioni classiciste, dal riproporsi della manualità più certosina alla Videoarte e all’arte computerizzata. Nulla di travolgente dunque, solo un maggiore e più diffuso eclettismo, con un denominatore comune però: provocare stupore o turbamento nel fruitore.
La vera novità, invece, è costituita dal fatto che attualmente accanto alle correnti d’avanguardia sono iniziate ad emergere altre realtà artistiche, ignorate fino a qualche decennio fa. Cosicché, nella straordinaria varietà e complessità dell’attuale universo delle arti visive è possibile distinguere, in via generale, se non ci si perde nella miriade di stili e linguaggi, alcune realtà culturali ben differenziate per caratteristiche, orientamenti, substrato socioeconomico, problematiche, circuiti commerciali e informativi.
La situazione attuale è paragonabile ad un sistema atomico senza nucleo, dotato solo delle orbite elettroniche, in cui ad ogni anello corrisponde una realtà socioculturale ben precisa. Così c’è il circuito delle grandi mostre, delle famose case d’asta, dei mass-media, centrale, e c’è quello occupato dall’arte delle piccole gallerie, delle estemporanee e delle esposizioni da strada, periferico. Nell’epoca della globalizzazione, i passaggi dalle orbite periferiche a quelle centrali dovrebbero essere garanzia di maggiore varietà di espressioni e contenuti, e invece l’industria dell’avanguardia assorbe l’intensità anticonvenzionale pur lasciando inalterato il contenuto e il messaggio originale.

LE PROBLEMATICHE: L’ARTE DOPO LA “MORTE DELL’ARTE”

Nella storia dell’arte, dalla preistoria agli inizi del Novecento, non c’è mai stata una rottura tanto radicale quanto quella portata avanti da Dada, dove l’attività creativa non solo non si fonda più sull’abilità manuale dell’artista, ma addirittura diventa un gioco. Dal Dadaismo in poi solo l’Arte Concettuale è stata ancora più radicale. Infatti, in questa corrente, portando alle estreme, paradossali conseguenze l’assunto dada, si afferma che per esprimersi, l’arte non ha più bisogno dell’opera, le basta una “dichiarazione d’intenzionalità”. Ora se il concetto di avanguardia è legato a quello di rivoluzionamento della tradizione, ci si chiede cosa potrà mai esserci ancor più all’avanguardia dell’Arte Concettuale. Insomma, se l’Arte Concettuale è la fine di un discorso di crescente demolizione dei vecchi valori, in cosa potrà ancora evolversi l’arte? Ma non basta: se le avanguardie hanno rappresentato quanto di più emancipato ci possa essere in fatto di libertà espressiva, ci potrà essere qualcosa di più progredito?
Dopo l’apparizione sulla scena della “Conceptual Art” dunque il problema principale che riguarda la cultura estetica dei nostri giorni è quello di stabilire cosa ci sarà dopo la morte dell’arte. Sotto quale forma l’arte potrà sopravvivere come valore in un contesto dove non esistono più valori ideali. Se l’arte è “finita” cosa si proporranno di fare quegli operatori che non vogliono rinunciare al loro status di liberi intellettuali?
Dopo la scoperta dei pattern e il loro uso linguistico, dopo Dada e la Conceptual Art, cioè, in altre parole, dopo che si è arrivati all’espressione diretta del soggetto, eliminando perfino l’opera d’arte come tramite, cosa mai ci potrà essere ancora? Definire l’arte dopo la morte dell’arte è il compito che spetta agli artisti contemporanei. Le nuove proposte di definizione non mancano, ma prima di andare a vedere in che cosa consistono occorre fare chiarezza sullo stato dell’arte attuale. Con il termine “morte dell’arte”, termine alquanto enfatico, in realtà non s’intende la fine di tutta l’arte, ma solo di un’idea di arte, l’idea romantica di arte: quella dell’artista bohémien, dell’eroe ispirato e solitario, del genio tormentato che produce nel silenzio del proprio studio; dell’arte rappresentativa, narrativa, della pittura fatta con il pennello e della scultura fatta con lo scalpello. Quando gli artisti hanno dichiarato di non voler fare più gli artisti, intendevano dire, cosa che è puntualmente avvenuta, di volersi trasformare nei più attuali operatori estetici. Di fatto dopo aver raggiunto il punto zero con il rifiuto degli artisti di fare arte, l’arte ha continuato a prosperare, trasformandosi e reinventandosi, sviluppando nuove modalità di produzione, fruizione e interpretazione delle discipline artistiche. Con l’avvento del computer la figura dell’artista romantico si è dissolta. Al suo posto è emerso un nuovo profilo: l’artista-programmatore, il designer di sistemi, colui che progetta strutture più che immagini, che scrive codici informatici invece di dipingere. Questo è ciò che accade oggi nel rapporto tra creatività e tecnologia. La domanda se quella generata dall’algoritmo è arte non ha senso. Si ricordi sempre il pronunciamento di Protagora di Abdera: «L’uomo è misura di tutte le cose, di quelle che sono per ciò che sono e di quelle che non sono per ciò che non sono». È importante chiedersi invece quale arte stia emergendo da questa nuova alleanza tra uomo e macchina. Da quel che è dato vedere, fino ad oggi sembra che non si possa parlare di rivoluzione semantica. Quel che si può dire, invece, è che la vecchia rottura fra arte e industria è ricucita, rendendo superate le provocazioni iconoclaste del Dadaismo e ridando corpo alla razionalità produttiva della Bauhaus, dove l’arte smetteva di essere pura espressione individuale per farsi linguaggio condiviso, oggetto riproducibile, forma industriale. Tuttavia il motivo che ha spinto gli artisti romantici a non voler più fare arte, polemico nei confronti della società che vuole strumentalizzare l’arte, permane, ma sembra non generare più risposte adeguatamente ribelli. Decade così anche l’ultima preoccupazione critica, ovvero che se privare la società dell’arte (romantica) è privarla di qualcosa di cui ha veramente bisogno.

LA QUESTIONE TECNICA OGGI

Milano
Studio azzurro
STORIE PER CORSE N. 6 (1992)
Videoinstallazione

Aix-la-Chapelle, Neue Galerie
Gérard Garouste
LA CAMERA ROSSA (1983)
Olio su tela, altezza mt. 2,50 – larghezza mt. 2,95

Per il pensiero romantico qualsiasi sia l’oggetto da cui si parte, realtà percettiva o psichica, l’arte non è nella rappresentazione di queste realtà, ma nel modo con cui vengono espresse, razionale o emotivo che sia, ma sempre assolutamente automatico, immediato, istintivo. Per ognuno di questi modi diventa di fondamentale importanza sapere se il sentimento è necessariamente legato alla manualità dell’operatore o no. Senza dubbio per far muovere una matita su un foglio per riprodurre l’immagine di un oggetto ci vuole una sensibilità manuale maggiore che farla comparire su uno schermo spingendo dei tasti. Ma in un’epoca in cui l’arte non è più legata all’abilità artigianale la scelta dipende dall’idea che si ha riguardo all’espressione dei sentimenti. Occorre stabilire se questi si esprimono nell’operazione artistica in via di definizione o nell’opera d’arte finita; si rivivono con l’artista che li ha vissuti o si contemplano con l’artista che li ha elaborati.
Sulla questione tecnica, a quanto è dato vedere, sembra che la differenza di peso fra le immagini fatte a mano e quelle fatte a macchina si sia ulteriormente radicalizzata. Di questa radicalizzazione sembrano tener conto le ultime, recentissime espressioni che tornano a rimarcare le differenze fra arte manualistica e arte meccanizzata invece che abbandonare la prima, come sembrava naturale, in favore della seconda. Non è certo che si tratti veramente degli ultimi segni di vita dell’artigianalità nell’arte come sostengono alcuni osservatori.
Le espressioni del futuro, a partire dal XXI secolo, qualunque siano, dovranno tener ancora conto delle differenze fra manualità e meccanicismo dopo una eventuale risoluzione in parità del peso delle stesse, dunque di un inevitabile smarrimento della ragion d’essere della manualità nell’arte.
Se da un lato non c’è più alcuna ragione per mantenere la manualità nelle tecniche artistiche, dall’altro non è pensabile un mondo dove non c’è più alcun contatto diretto col mondo esterno o con la propria sensibilità manuale senza la mediazione di una macchina, un mondo fatto di solo controllo, dove tutte le emozioni vengono filtrate da un mezzo meccanico. Ma non è neanche possibile pensare ad un’arte che non è più arte solo perché produce cose o situazioni con le macchine.
La fase attuale si presenta dunque, incredibilmente, non priva di prospettive costruttive per la manualità nelle arti cosiddette visive, anche se molti artisti della generazione corrente hanno abbandonando le tecniche visive tradizionali per rivolgersi a quelle multimediali.

ASTRATTO E FIGURATIVO

Art & Language
OSTAGGIO XI (1988)
Olio su tela e acrilico su playwood, altezza e larghezza mt. 1,29 c.

Salvo
LUCE E LUNA (1986)
Olio su tela, altezza mt. 1,49 – larghezza mt. 1,19

Per quanto riguarda l’aspetto stilistico si può dire che il linguaggio moderno oscilli fra l’astratto e il figurativo. Sembra infatti che le scelte che impegnano gli artisti contemporanei vertano sulle ragioni che conducono a optare per l’uno o per l’altro. Tuttavia l’arte non è una semplice questione di partigianeria morfologica, e non è neanche una questione di contenuti e l’attività creativa per essere vera creatività non deve proporre necessariamente nuovi contenuti, né nuove tecniche: oggi le tecniche oscillano fra le installazioni e un ritorno alla manualità. Astratto e figurativo potrebbero sembrare posizioni inconciliabili, eppure entrambi gli orientamenti condividono un punto fondamentale: nell’astratto così come nel figurativo l’arte è concepita come visualizzazione di un atteggiamento e in nessun caso è considerata più proiezione di una realtà data.

L’INTELLETTUALIZZAZIONE DELL’ARTE MODERNA

Uno dei caratteri precipui che contraddistingue l’arte attuale è la sua evidente intellettualizzazione. Nell’arte moderna le poetiche nascono dalle poetiche, secondo una dialettica di tesi e antitesi; la comprensione dell’arte dunque diventa sempre più dipendente dalla conoscenza della storia dell’arte. Questo porta ad una intellettualizzazione fuori misura dell’arte moderna, la quale ha perduto ormai ogni contatto con i valori semplici, diretti, comuni a tutti gli uomini, indipendentemente dalla loro cultura. Ciò contribuisce ad estraniarla dalla contemporaneità. Resta tuttavia il dubbio di fondo: ma di questa assenza importa poi veramente a qualcuno?

IL MERCATO PUBBLICO

Non si può terminare questa riflessione senza accennare ad una realtà che è andata sempre più influenzando la produzione di opere d’arte nell’ultimo stralcio del secondo millennio e nel primo del terzo: il mercato pubblico.
Una delle forze che ha cambiato il corso delle discipline creative nell’ultimo secolo è senz’altro il mercato pubblico. Sempre negli ultimi anni al posto dei movimenti spontanei si sono sviluppate altre correnti, ben diverse da quelle pionieristiche delle origini. L’arte, quella autonoma, cioè prodotta a fini esclusivamente culturali, ha trovato sempre più la sua naturale collocazione nei grandi circuiti economico-commerciali sostenuti con denaro pubblico. Se da un lato queste strutture apparentemente assicurano una maggiore autonomia delle opere rispetto a quelle inerenti il mercato privato, dall’altro si rivelano un sistema per favorire non già la qualità, ma le buone conoscenze fra i membri dell’apparato critico e politico. Non si nega che questi organismi riducano sempre di più la distanza fra arte e istituzioni, ci si chiede più che altro qual è la differenza tra la condizione degli artisti che lavorano per questi regimi e quelli che lavorano per i regimi totalitaristi. In altri termini si può affermare che il potere, difensore dello status-quo, ha assorbito le spinte contrarie all’integrazione intervenendo nel sociale con la creazione di istituzioni ad hoc, come musei d’arte moderna, biennali, quadriennali ecc. e con la committenza, sempre più frequente, di opere pubbliche; gli artisti non allineati si sono trasformati nei venerati maestri del Modernismo, celebrati e divinizzati dalla critica, spesso compiacente; i loro lavori sono divenuti dei cult; il loro linguaggio, o meglio l’assenza di linguaggio, la loro incomunicabilità, già lessico sostenuto, anche se ignorato, dal potere privato, è divenuto anche il lessico sostenuto, anche se personalizzato, dal potere pubblico. Di qui l’interrogativo: nell’attuale status-quo dei paesi democratici, ha più ragion d’essere un linguaggio che esprime la mancanza di libertà espressiva e di conseguenza l’incomunicabilità? Non sarebbe meglio che l’arte riprendesse a parlare in modo comprensibile, cioè tornasse a comunicare dei contenuti conoscitivi, piccole verità affinché si conservino in seno a quella minoranza che ancora non si è arresa? Le avanguardie storiche avevano visto nel modernismo un modo per uscire dal vecchio mondo ed entrare nel nuovo. Il primo post-avanguardismo aveva cercato di convogliare la spinta progressista delle correnti rivoluzionarie nella costruzione del nuovo mondo. Il neo-avanguardismo, vivendo di fatto la realtà moderna dominata dalle forze economiche e tecnologiche controllate dal capitalismo, limitative della libertà espressiva, ha intrapreso un’azione di contestazione al sistema che, dopo una prima fase molto aggressiva e innovativa, si è andata affievolendo fino ad essere completamente assorbita dall’apparato socioculturale borghese. Stante questo quadro storico generale, il punto nodale da sciogliere è capire se ha ancora senso il linguaggio delle avanguardie o forse sarebbe meglio pensare ad un nuovo linguaggio, non rivoluzionario, ma di conservazione di quei valori universali di conoscenza e libertà per coloro i quali riusciranno a sopravvivere alla massificazione. L’incomunicabilità che caratterizza le espressioni creative dal dopoguerra fino alla estrema ratio dell’arte concettuale ha un limite: sorge dall’impossibilità per l’arte di svolgere il suo ruolo formativo nell’attuale società dei consumi, quindi è esercitata solo come pura esistenza al di fuori del sistema socioeconomico capitalista. Eppure questa stessa arte, oggi più che mai, muove un mercato miliardario proprio nel mondo in cui dice di sopravvivere a stento. A quanto pare dunque il rapporto tra arte e società si è ricucito (ammesso che si sia mai rotto); gli artisti ribelli, irriducibili, sono diventati i maestri venerati della nuova cultura occidentale, e non solo occidentale. Figurano nei musei e nelle case della classe dirigente, segno evidente che sono stati ormai assorbiti nel sistema sociale, economico e politico. L’arte moderna oggi la si celebra in spazi faraonici appositamente allestiti, la si studia nelle scuole di stato, la si crea su commissione, la si lancia sul mercato come un qualsiasi prodotto di consumo. Che fondatezza possono avere le contestazioni degli artisti se accettano poi il posto che la società capitalista riserva loro nella struttura globale del mondo moderno, creandole spazi privilegiati ed esclusivi in cui prosperare? Paradosso per paradosso, oggi si è veri artisti liberi fin tanto che si è antimodernisti (non moderni). La meditazione su queste realtà ha come effetto immediato l’aumento del numero di autori che si riconoscono nella linea dell’integrazione; di contro si assiste alla riduzione della carica rivoluzionaria a forme di neo-manierismo e manifestazioni di folclore in quegli autori che si riconoscono nelle linee della partecipazione anti-integrazionista e dell’alienazione.
Le attuali performance più che scandalizzare divertono, sono diventate spettacoli dagli esiti scontati; la forza sovversiva delle avanguardie storiche, a cui esplicitamente quelle attuali si richiamano, si è affievolita fino a stemperarsi in un fisiologico ripiegamento su posizioni ormai inermi. E poi, gli artisti di oggi sono ben lontani dai pionieri del secolo scorso; i contestatori sono divenuti ormai oppositori autorizzati; l’anticonformismo è sotto controllo e si è tramutato in un ottimo affare per la moderna borghesia al potere che gestisce le grandi mostre. In seguito a ciò diventa d’obbligo chiedersi se i valori romantici siano ancora d’attualità e quindi sia ancora giusto perseguirli, o meglio preservarli. Né si intravede, al momento, una via d’uscita nell’arte digitale, poiché non risolve affatto, anzi acuisce, le problematiche etiche.

INDIRIZZI POETICI ATTUALI

Biennale di Vienna
Nam June Paik
INSTALLAZIONE (1993)

Videoinstallazione
Paolo Borghi
EROSIONE IMPOSSIBILE (1990)
Bronzo, altezza cm. 32 – larghezza cm. 54

Montreal, Museo delle Arti
Riccardo Dalisi
MARIPOSA (1989)
Panca

Montreal, Museo delle Arti
Anish Kapor
PER ACCOGLIERLO IN SÉ (1983)
Legno, polistirolo, gesso e pigmenti, panca

Fine precipuo dell’arte nell’epoca della globalizzazione è sopravvivere per non rassegnarsi a vivere in un mondo fatto su misura per soddisfare gli interessi degli “affaristi”. La maniera in cui l’arte intende tener fede a questo impegno è operando per contrastare gli effetti della globalizzazione. Ad esempio continuando a combattere fenomeni quali il conformismo visivo, la lettura a senso unico, l’omologazione lessicale causata dallo strapotere dei mass-media. Attraverso quali vie l’arte anti-integrazionista lo intende fare appare abbastanza chiaro. Ci sono le strade già sperimentate come quelle percorse dalla Op Art e dalla Pop Art, quindi ci sono le nuove tendenze etniche in cui ai linguaggi globalizzati si contrappongono quelli delle minoranze linguistiche, quindi ancora intende farlo con l’invenzione continua di nuovi percorsi visivi e di nuove poetiche che incrementino nuovi modi di vedere il mondo, insomma con l’incoraggiamento dei linguaggi personalizzati, come nelle arti computerizzate.
Gli indirizzi espressivi delle ultime correnti anti-integrazioniste abbracciano una vastissima gamma di forme. Si va dall’Iperrealismo all’Astrattismo, dalla gestualità alla programmazione, al ritorno alla manualità; c’è di tutto, di più.
Con il richiamo a queste tesi fondamentali possono essere spiegate molte delle infinite espressioni poetiche contemporanee: l’arte post-concettuale, la nuova classicità, la nuova ricerca multimediale, la nuova pittura, il post-minimalismo, la nuova scultura, la transavanguardia.
Le risposte a queste problematiche sono per il momento raggruppabili in quattro tipi:

  1. continuare sulle stesse linee d’intervento delle neoavanguardie, cioè continuare un’arte di contestazione;
  2. riprendere, sviluppare e approfondire i contenuti delle principali poetiche sperimentaliste dei più significativi maestri “visivi” della seconda metà del Novecento, ovvero continuare la ricerca visiva fine a sé stessa;
  3. rivisitare correnti e maestri del Novecento per utilizzarne i linguaggi e rapportarli alla nuova realtà sociale, vale a dire promuovere l’eclettismo e il citazionismo;
  4. alienare sempre di più l’arte dalla dimensione moderna della società, ovverosia collocarla fuori del tempo.

TENDENZE PRINCIPALI DEL POSTMODERNISMO

Il profilo critico dei principali orientamenti contemporanei sono:

  1. La rivoluzione permanente; l’arte come modo d’essere contro-tendenti. Di questa posizione l’unica cosa a lasciare perplessi è che l’espressione critica va ad alimentare il mercato controllato dalla classe sociale criticata. La proposta risulta dunque alquanto paradossale.
  2. Il ritorno alle espressioni storiche, cioè a dire fare del cosciente manierismo. Lodevolissima quanto logica conseguenza: proseguire commentando ed approfondendo le varie correnti artistiche che hanno segnato il corso dell’arte moderna. Così facendo si rinuncia alla rivoluzione permanente e c’è il rischio di cadere nel citazionismo o nella migliore delle ipotesi nel culturalismo.
  3. La ricerca continua. Qui il rischio è la gratuità. Chiunque può dire di fare ricerca; il problema è vedere quanto la ricerca sia interessante e suscettibile di sviluppi, quanto invece sia vacua, e lasciare la soluzione al computer non risolve il problema.
  4. Lo storicismo, cioè ritorno alla storia dell’arte. In questo caso è come dire che l’esperienza avanguardista si è chiusa, dunque non c’è altro da fare che tornare a rivolgersi al passato. Ma l’esperienza avanguardistica si può dire veramente chiusa? La ricerca è finita? La spinta rivoluzionaria ha ancora qualcosa da dire? La ricerca sicuramente continua e la rivoluzione non è morta: la farà l’intelligenza artificiale, non l’uomo.
  5. Il realismo. Ma questa linea di ricerca viene ormai più seguita soprattutto affidandosi alla fotografia, quindi semmai si deve parlare di realismo in senso espressionista. Anche in questo caso però significherebbe non credere più nell’efficacia dell’azione rivoluzionaria in una situazione dove non esistono più le condizioni, semplicemente perché non esiste più la situazione da cui le rivoluzioni prendono alimento, per lo meno in Occidente. L’arte rivoluzionaria può avere ancora una ragione d’essere in altre situazioni, in altre realtà come quelle delle nazioni oppresse. Ma guardando alle esperienze provenienti da tali fronti non ci si potrà certo sorprendere di vedere un linguaggio molto simile a quello prodotto in Occidente negli ultimi cinquant’anni: siamo in un mondo globalizzato.
  6. Il Surrealismo. Rimane ancora un campo ricco e produttivo sebbene inizi a battere la fiacca dovuta soprattutto al compiacimento che spesso offusca l’autenticità delle manifestazioni e il manierismo che investe il settore. Le opere surrealiste sono sempre più controllate e gli effetti volutamente ricercati con conseguente annullamento della spontaneità dei risultati che ne qualifica l’esistenza. Ricapitolando, dunque, le linee moderne sono:
  1. Rivoluzione permanente
  2. Ritorno alle radici, ai movimenti d’avanguardia del Novecento
  3. Ricerca continua
  4. Ritorno alla storia dell’arte
  5. Realismo espressivo
  6. Surrealismo.

Mi pare che ne manchi una: ignorare l’arte contemporanea e tornare alla rappresentazione della natura (Wildlife Art).
Da quanto è dato vedere le realtà espressive in cui si ritrovano questi orientamenti sono costituite dalle installazioni, l’Arte computerizzata, la Video Arte, il neo-figurativismo. Le installazioni sono operazioni di origine dada, dove continua a prevalere il concetto che associa l’arte al non funzionalismo dell’opera; nell’Arte computerizzata prende corpo la maggior parte dell’astrattismo attuale di matrice geometrica, dell’iperrealismo e dell’eclettismo attuali; la Video Arte si può considerare una specie di installazione virtuale, spesso associata a performance. Nel neo-figurativismo sono comprese tendenze quali il Neo-surrealismo, il Neoespressionismo, il Graffitismo, e la Nuova Classicità.

LA NUOVA CLASSICITÀ E LE ALTRE CORRENTI POST-CONCETTUALI

Carlo Maria Mariani
OTTAVO SOGNO – IL POTERE (1993)
Olio su tela, altezza cm. 121 larghezza cm. 89

Dopo la scomparsa dell’arte, come attività che coinvolge la sensibilità manuale, l’unica sua ragion d’essere nell’attuale società industriale e tecnologica è rappresentata dalla volontà di conservare nelle opere correnti una sua impronta come memoria o proseguire sulla strada dell’incomunicabilità in attesa di tempi migliori: se la libera creatività, garantita dall’operato diretto e istintivo, è morta, non ci può essere arte nel presente, ma solo nel passato o nel futuro.
Le manifestazioni poetiche più recenti, come la Nuova Classicità, l’Anacronismo, il Neomanierismo, ma anche la pittura neoespressionista, tedesca, francese e americana, la pittura colta, il citazionismo, la pittura dei nuovi nuovi, la Transavanguardia e il Graffitismo si possono comprendere ancor di più se lette come espressioni della volontà di conservare la memoria dell’arte. Al punto d’arrivo della Conceptual Art, con la sospensione della produzione di tutti i valori, i nuovi indirizzi figurativi oppongono la loro ricerca dei valori nella storia dell’arte, recente e passata, o la perpetuazione del blocco. In tali correnti si palesa in modo quanto mai eloquente il divario fra arte e società. Tuttavia rimane da vedere come si conciliano i loro assunti che ripristinano il concetto di oggetto di valore con la problematica del declassamento dell’arte a produttrice di oggetti non commerciabili. Nei nuovi classici, negli anacronisti, ipermanieristi, pittori colti, citazionisti, nuovi nuovi il passato artistico è un territorio da ripercorrere con la memoria, senza soffermarcisi sopra. La cultura storica riaffiora qua e là in contesti spazio-temporali completamente scollegati, formando una presenza anomala, artificiosa, priva di contenuti espliciti, spesso ironica, comunque estranea ed estraniante. Più che una rivisitazione del passato per trarre insegnamenti è il passato che riaffiora a tratti nel presente a costituire motivo di esistenza enigmatica e inquietante. In ciò le correnti neo-manualistiche si avvicinano alla Metafisica e all’ultimo De Chirico. Pieno recupero della pratica tecnica trabocca da Ottavo sogno – il potere di Carlo Maria Mariani dove l’immagine riporta ad una classicità favoleggiata. In Alberto Abate, anacronista, il classico è solo allusione tematica che non si esplicita ma si arguisce dalla presenza di elementi simbolici come le maschere tragiche. Bruno d’Arcevia, caposcuola della corrente neo-manierista ha come obiettivo esplicito il recupero della grande tradizione pittorica rinascimentale e le sofisticate tecniche dei manieristi, dal Pontormo ad Andrea del Sarto, ribadendo il concetto che l’invenzione non prescinde dalla qualità del manufatto. Ubaldo Bartolini raggiunge il massimo riproponendo un classico paesaggio alla Carracci con la tecnica dell’aerografo. Le citazioni non riguardano solo l’arte classica. Ad esempio l’inglese Stephen Mc Kenna torna alla prospettiva ottocentesca ottenuta mediante il rapporto luce-ombra; Herman Albert si rifà ad immagini del primo post-avanguardismo degli anni Trenta; Paolo Borghi, comasco, è uno scultore decostruttivista: opera la decostruzione del mito sconvolgendo l’impianto aulico dell’arte classica; Igor Mitoraj, polacco, rivive la classicità attraverso i reperti archeologici proponendo grandi frammenti di teste e busti smembrati. Una delle ipotesi avanzate riguardo alla problematica sorta in seguito alla morte dell’arte decretata dalla Conceptual Art è quella fornita dal critico Achille Bonito Oliva nel 1980 che individua nel ritorno alla pittura una possibile soluzione. A tal fine ha teorizzato e promosso la Transavanguardia italiana. Cosa intendesse per ritorno alla pittura viene esplicitato dall’opera di Domenico Paladino, anche noto come Mimmo. L’artista campano, pittore, scultore e incisore, tra i principali esponenti del movimento artistico teorizzato dal critico, pone come obiettivo della sua arte il proseguimento, il commento e l’approfondimento delle varie correnti artistiche che hanno segnato il corso dell’arte moderna. Si tratta inequivocabilmente di un ritorno alle espressioni storiche, cioè a dire fare del cosciente manierismo modernista. Lodevolissima quanto logica conseguenza dello sviluppo storico dell’attività creativa del XX secolo: si rinuncia alla rivoluzione permanente e si cade nel citazionismo. In lui è quanto mai esplicito il richiamo alle tesi fondamentali che hanno caratterizzato le avanguardie del Novecento. Si va dal Neoespressionismo al Cubismo, da Kirchner a Picasso passando per Matisse; si toccano esperienze scultoree di un Martini, di un Marini, un Giacometti; non si disdegnano saggi di Astrattismo, Graffitismo, né le installazioni. Tutte hanno un solo denominatore: non sono più le tecniche meccaniche a dover acquisire peso per portarsi a livello di quelle manualistiche, ma sono queste ultime a non doverne più perdere per non estinguersi. Insieme a Paladino, si dirigono verso la rivisitazione trasversale dei maestri del Novecento, Sandro Chia, che dopo un passato nell’environment torna ad un figurativo mistico e visionario dal tono monumentale; Francesco Clemente che preferisce muoversi tra Roma, l’India e New York; Enzo Cucchi il cui nomadismo arriva fino agli albori della storia dell’arte, al primitivismo magico, al confronto con la natura, con la luce, con il buio; Nicola De Maria il quale si riallaccia alla Color Field Painting sperimentandola sulle più diverse scale espressive, dalle piccole tele alle stanze intere.

LA PITTURA NEOESPRESSIONISTA

Agli inizi degli anni Sessanta nella Germania Occidentale si forma una nuova generazione di artisti che si richiama al surrealismo letterario del visconte di Lautréamont e di Antonin Artaud. Le giovani leve si ritrovano su un punto programmatico comune: fondare un’arte che si oppone al dominio artistico americano, dando vita al recupero di un’identità nazionale fondata sull’Espressionismo tedesco. I critici chiamano questa nuova tendenza «pittura selvaggia». Il Neoespressionismo tedesco è caratterizzato da una rinvigorita espressività deflagrante che si impadronisce dell’immagine e ne devasta le strutture. Markus Lüpertz, boemo, dal 1963 inizia a dipingere modificando continuamente tecniche e modelli artistici, accostandosi in ciò alla Transavanguardia italiana. Il ritmo delle sue composizioni richiama il ditirambo, canto corale ispirato al culto di Dioniso. E proprio al dio che incarna il rinnovamento della vita si sente legato come artista di una generazione che vuole rinascere dopo la morte dell’arte. Jiri Georg Dokoupil, cecoslovacco di origini, tende al recupero dei diversi stili emergenti nella pittura contemporanea. A.R. Penck è lo pseudonimo di Ralph Winkler, tedesco, cerca con la pittura di elaborare un nuovo sistema di comunicazione contro il sistema sociale, ormai chiuso. Sviluppa immagini antropomorfe simili a quelle dell’Art Brut di Dubuffet e del disegno infantile. Sigmar Polke, polacco, passa dall’espressionismo astratto ad una figurazione critica, ironica e corrosiva; Anselm Kiefer, allievo di Beuys a Düsseldorf, riporta la pittura espressionista alla dimensione romantica, aggiungendovi di suo una nuova vigoria semantica. In Francia la nuova pittura tende al recupero di un espressionismo razionale alla Matisse, ma contaminato da memorie surrealiste e metafisiche con Jean Michel Alberola, algerino. Con Gérard Garouste, pittore e scultore parigino, riaffiorano nel presente memorie che risalgono addirittura al Manierismo, con visite atemporali nel Barocco e nel surreale. Negli U.S.A. Il neoespressionismo assume un carattere diverso: è la ricerca di una figuratività che rompe il dominio della Pop Art. Julian Schnabel, newyorkese, in linea con l’ideologia della Transavanguardia italiana, subisce il fascino dell’Espressionismo Astratto, ma anche del New Dada di Jasper Johns e di Rauschenberg, tuttavia non si perde nel citazionismo e riesce a sviluppare un linguaggio originale. David Salle, di Oklahoma City, lavora sulla contaminazione di stili diversi che spesso fa coesistere nello stesso dipinto, magari diviso in più parti in senso ironico.

IL GRAFFITISMO

Le origini del Graffitismo risalgono al 1972, quando sui vagoni e sulle pareti della metropolitana di New York, al posto delle scritte politiche, erotiche, oscene, iniziano a comparire scritte e disegni fatti con le bombolette spray. Non è vandalismo, è il modo attraverso cui la massa di giovani emarginati dei ghetti americani si rapportano alla cultura artistica dominante e alla cultura di massa, ovvero con un linguaggio selvaggio, un modo di esprimersi che più tardi verrà definito arte di frontiera. All’inizio il fenomeno innesca reazioni più o meno roventi: si cerca di combatterlo cancellando scritte e disegni spendendo fino a 150.000 dollari per la loro rimozione. Ma dopo un po’ si pensa ad un loro sfruttamento sia artistico che commerciale. Il Graffitismo fa il suo esordio nella galleria Fashion Moda, e viene presentato come l’arte che sostituisce le stanche manifestazioni delle transavanguardie. Occorrono solo 3 anni al sistema per abbuffarsi, digerire e gettare nel cestino dei rifiuti il nuovo corso della creatività americana: nel 1975 il Graffitismo si può ritenere estinto. Solo pochissimi graffitisti riescono a superare la morte precoce del genere. Rammellzee (Stephen Piccirello), portoricano, è un personaggio di per sé fuori le righe; è una specie di capo guerrigliero che ha come arma la teoria delle lettere armate, detta anche Panzerismo iconoclasta o Futurismo gotico. Tra i suoi obiettivi primeggia la rifondazione del linguaggio della scienza. Intende elevare il graffitismo a espressione di una rinnovata cultura estrapolando i termini da una miscellanea di fonti teoretiche, storiche e neo-vernacolari. Tra le prime figurano la semiotica, la fisica, la matematica, tra le seconde il conflitto nucleare, le strategie belliche medievali, tra le terze figura il linguaggio dei cosiddetti derelitti della società (slang): emarginati, rapinatori, ubriaconi, carcerati. Jean Michel Basquiat, di Brooklyn, trasporta sulle sue enormi tele i modi stilistici dei graffitisti in composizioni border line, che si collocano sulla linea di confine tra figurativo e astratto con riferimenti all’Art Brut, all’Action Painting e al disegno infantile. Basquiat viene ricordato dalle cronache per la sua collaborazione con Warhol. Keith Hӓring, nato in Pennsylvania, inventa una sorta di scrittura pittografica, una lingua neo-primitivista dal sapore fumettistico, risultato di una gestualità semplice ma controllatissima. Dei tre graffitisti riportati in questo racconto è quello che risente di più della Pop Art e forse per questo è il graffitista che ha avuto più successo in America.

ARTE CONCETTUALE E COPYRIGHT

Emblematici della situazione dell’arte dopo la sua morte sono due artisti che hanno fatto parlare molto di sé: Damien Hirst e Maurizio Cattelan, trasformando l’opera d’arte in un marchio o in una forma di branding personale. Il primo ad incanalare la creatività in una strategia di gestione e promozione della propria immagine professionale è stato Andy Warhol (1928–1987), divenendo egli stesso un marchio vivente. Warhol è il precursore: arte e pubblicità si fondono, il marchio è l’arte. Fondatore della Pop Art, portò nel settore della creatività visiva indipendente immagini popolari e consumistiche: lattine di Campbell’s, ritratti di Marilyn Monroe, ecc. Trasformò la riproduzione meccanica in atto artistico. Lavorava nella “Factory” – un vero e proprio laboratorio dove produceva opere in serie con assistenti. Il suo profilo professionale era simile a quello degli inventori di marchi: usava icone riconoscibili (proprio come i brand); il suo stile era inconfondibile; l’identità Warhol (parrucca, occhiali, atteggiamento distaccato) era parte del prodotto; Ha anticipato il concetto di influencer molto prima dei social. Innegabili sono le somiglianze con Cattelan: Entrambi ironizzano sul sistema dell’arte e sulla società dei consumi. Entrambi sono brand in sé, non solo per le opere che producono ma per il modo in cui si presentano. Entrambi trasformano l’idea in oggetto commerciabile. Altra figura di rilievo a trasformare l’opera d’arte in un marchio o in una forma di branding personale è quella di Damien Hirst. Hirst trasforma l’attività creativa in impresa creativa: l’arte come investimento e spettacolo. Esponente del gruppo YBA (Young British Artists), impersona la figura dell’artista come imprenditore. Celebre per opere provocatorie come lo squalo in formaldeide, il teschio ricoperto di diamanti, le medicine cabinet. Ha costruito un vero e proprio impero artistico: produzione in serie, laboratori, operazioni di marketing, vendita diretta. Gestisce l’arte come un’azienda. Ha marchiato la morte, la medicina, la scienza come temi artistici con una forte identità visiva. Ha addirittura saltato le gallerie e venduto direttamente da Sotheby’s nel 2008, come un brand lanciato in IPO (initial public offering). Condivide con Cattelan la provocazione quale mezzo di comunicazione. Entrambi strumentalizzano e criticano il mercato, ma ne traggono anche profitto. Entrambi hanno botteghe di produzione, come nel Rinascimento, ma con una logica moderna, quasi industriale. Cattelan è un sabotatore del sistema; lo prende in giro: l’arte è una truffa dichiarata, ma (genialmente) venduta come oro. Si definisce spesso un impostore; usa l’umorismo, il paradosso, l’auto-sabotaggio. Ogni opera è un evento mediatico, virale prima ancora che artistico. Il suo “marchio” è l’ironia e l’imprevedibilità. Ha costruito un’identità dove l’idea è tutto, spesso più importante del risultato visivo.

Londra, Saatchi Gallery
Damien Hirst
THE PHYSICAL IMPOSSIBILITY OF DEATH IN THE MIND OF SOMEONE LIVING (1991)
Vero squalo tigre, vetro, acciaio, soluzione di formaldeide al 5%; altezza mt. 2,17 – larghezza mt. 5,42 – profondità mt. 1,80

Tema ricorrente nelle installazioni concettuali di Damien Hirst è la morte. L’intento dichiarato in queste operazioni è indurre l’osservatore a riflettere sulla precarietà della vita; l’esistenza è una rincorsa verso ciò che la delimiterà e la annullerà. Parte della critica interpreta le sue “opere” come un invito a trovare la bellezza (arte) nelle immagini più atroci, nelle espressioni più raccapriccianti; un’altra parte sostiene che le sue performance abbiano una finalità purificatrice, rigenerativa, liberatoria dalla paura della morte. Mettere l’uomo di fronte alla morte per esorcizzarla non è una cosa nuova. Molti altri artisti l’hanno fatto, dipingendo immagini anche truculente, ma nessuno è arrivato a presentare cadaveri squartati di animali interi. The physical impossibility of death in the mind of someone living (L’impossibilità fisica della morte nella mente di qualcuno che vive) è un’Installazione concettuale che consiste in uno squalo tigre di 4,3 mt. conservato immerso in formalina in una teca di vetro. La versione originaria è stata commissionata ad Hirst nel 1991 da Charles Saatchi, che l’ha rivenduta nel 2004 a Steven A. Cohen per una cifra non rivelata, che si dice essere stata di almeno 8 milioni di dollari (forse più), pari a 6.892.451,90 €. Il lavoro è costato all’autore 50.000 sterline (57.404,00 €). Nel 2006, a causa del suo deterioramento, lo squalo è stato sostituito con un nuovo esemplare tramite un’operazione finanziata da Cohen, costata circa 100.000 dollari (86.145,00 €). L’opera originale fu esposta per la prima volta nel 1992, durante l’inaugurazione di una serie di mostre di giovani artisti britannici alla Saatchi Gallery. Dal 2007 al 2010 la versione sostitutiva è stata prestata al Metropolitan Museum of Art di New York City. Il primo squalo fu catturato al largo di Hervey Bay nel Queensland, in Australia, da un pescatore incaricato di farlo. Il secondo è stato una femmina di circa 25-30 anni, (equivalente alla mezza età) catturata sempre al largo della costa del Queensland. Seguirono altri squali. Nel settembre 2008, The Kingdom, ancora uno squalo tigre, è stato venduto all’asta Inside My Head Forever, per 9,6 milioni di sterline (oltre 3 milioni di sterline in più rispetto alla sua stima), equivalenti a 8.269.920,00 €. Hirst non ha esposto solo pescecani. Ha presentato anche una serie di altri animali conservati in formaldeide. Nel 1993, alla Biennale di Venezia, ha esposto “Mother and child”, due metà sia di un vitellino, sia di una mucca, divisi per sempre. Qui la maternità, come soggetto classico dell’arte, viene terribilmente reso palese sconvolgendo tutti i canoni, nell’intento di affermare come anche un legame indissolubile dato dalla procreazione comprende la morte. Al suo attivo c’è anche l’esposizione di una pecora (Lontano dal gregge), un vitello di 18 mesi con il disco della dea egizia Hathor tra le corna (aggiunte) d’oro 18 carati (Il vitello d’oro) e una colomba in volo (La verità incompleta). Le performance con animali imbalsamati esposti e venduti a cifre folli sono state ferocemente criticate. Nel 2003, la Stuckism International Gallery espose A Dead Shark Isn’t Art, uno squalo esibito al pubblico due anni prima di quello di Hirst da Eddie Saunders nel suo negozio di Shoreditch (Londra), JD Electrical Supplies. Gli Stuckisti (appartenenti al movimento artistico Stuckism) suggerirono che Hirst potesse aver preso l’idea per la sua opera dall’esposizione nel negozio di Saunders. Nel 2004, in un discorso alla Royal Academy, il critico d’arte Robert Hughes definì The Physical Impossibility of Death in the Mind of Someone  Living un'”oscenità culturale”. A mettere in dubbio l’etica della parte dell’opera di Hirst che coinvolge animali morti ci si sono messi anche numerosi critici. Una stima, fa ammontare il numero di creature uccise per le opere di Hirst a 913.450, compresi i singoli insetti (Caroline Goldstein in Artnet). Il film britannico-ungherese del 2009 Lo Schiaccianoci in 3D presenta una scena in cui uno squalo domestico viene folgorato in una vasca d’acqua, che il regista Andrei Konchalovsky cita come riferimento all’opera d’arte di Hirst. Proprio a fronte dei giudizi spesso negativi, le installazioni di Hirst fanno sorgere spontaneo un interrogativo: è proprio necessario mostrare animali che sembrano ancora vivi, ma indubbiamente morti poiché squartati, per farci capire la precarietà dell’esistenza? Non è solo una domanda retorica che riguarda la morale. Al di là del giudizio se quella di Hirst sia arte (Postmodernismo anti- Stuckism) o meno, resta da vedere se e come l’oggetto giustifica l’idea (il mezzo il fine), se l’autore riesce a comunicare ciò che intende esprimere. Occorre vedere fino a che punto soggetti come gli animali squartai in una società attratta dallo show dell’eccesso induca la gente a riflettere oppure soddisfa la loro morbosità verso la realtà scioccante, la notizia eccezionale; occorre vedere se destabilizzano o incuriosiscono, o, all’opposto, repellono e basta. Sebbene Hirst rientri nelle espressioni contemplate nell’estetica contemporanea del realismo attuale, senza riproduzione d’immagine, ma prelevando oggetti da un contesto ed esponendoli in un altro contesto, per poi sottoporli alla riflessione dell’osservatore, lo fa prelevando non oggetti, ma esseri viventi e proponendoli cadaveri per farci esorcizzare la paura della morte. Qui l’action non è più la riproduzione di oggetti banali del quotidiano ingigantiti, bensì animali squartati. Se l’artista intende far riflettere l’uomo comune sulla morte oppure esorcizzarne la paura ponendocela davanti in maniera così brutale, beh, non ci riesce! Quello che suscita Hirst con le sue vacche squartate è disgusto, ironia, irritazione, condanna, ma non per la morte, bensì per una pratica che si fonda sull’utilizzo di un materiale sicuramente reperito con modalità di sicura violenza, diretta o indiretta che sia. Ad un livello più “sottile”, tutt’al più suscita domande sulla tecnica: come ha fatto ad ottenere delle sezioni così perfette in animali che sembrano ancora vivi? Domande che si possono fare ad un chirurgo che effettua autopsie, non ad un artista. Dunque l’obiettivo di suscitare riflessioni sulla morte, a giudicare da questi risultati risulta evidentemente fallito. Può suscitare riflessioni una morte che si esprime come un brand? Si può mettere in mostra come fosse un nome, un termine, un segno, un simbolo, o un disegno, o una combinazione di tutte queste cose, miranti a identificare beni o servizi di un venditore o un gruppo di venditori e a differenziarli da quelli dei concorrenti, dunque come un prodotto commerciale? Hirst non è un artista rivoluzionario, ma rappresenta il punto di deviazione dell’impostazione pop verso forme sempre più morbose. Claes Oldenburg rifaceva oggetti banali giganteschi per far riflettere l’osservatore sulla banalità paradossale del quotidiano industriale. Hirst squarta e amputa cadaveri di animali. Non ci troviamo di fronte ad un artista, bensì ad un uomo traumatizzato che cerca e propone come arte il suo modo degenerato di esorcizzare la morte. Sembra che la sua macabra ispirazione ha origini in una visita a 16 anni dell’obitorio di Leeds che lo riempì di stupore e gli lasciò il fascino del cadaverico per sempre. Hirst non ha messo in mostra solo cadaveri squartati. In “A Thousand Years” sistema una testa di mucca scuoiata in una teca comunicante con una seconda teca contenente delle larve di mosca. Queste, attratte dal possibile nutrimento, passando da una parte all’altra in cerca della vita, trovano invece la morte: una lampada che le riduce in cenere. La messa in scena del nascere della vita, l’evolversi e il risolversi con la sua fine, sta a significare che l’artista non si accontenta più di mettere la morte in vetrina, ma vuole farla accadere in diretta. È vero! La realtà ha aspetti crudeli che non ci possiamo nascondere: la crudeltà di chi espone dei bigattini per ammazzarli. La morte dunque sta nello spettacolo quotidiano: il che è difficile metterlo in dubbio. Le immagini che arrivano da tutto il mondo mostrano guerre, fame, malattie, paura mista a disgusto. Continuando a ragionare sullo stesso filo conduttore di Hirst si può arrivare a chiedersi quale sarà il prossimo passo: vedere la morte di un uomo? Hirst non lo ha fatto. C’è arrivato prima l’artista ceco David Černý, il quale invece di uno squalo ha messo in una vasca piena di formaldeide la figura di Saddam Hussein legato mani e piedi, opera esposta al Museo di Arte giovane Ayoma di Praga. Conclusione: in una conversazione con lo scrittore Gordon Burn, Hirst dice “Tagliateci tutti a metà, siamo tutti fottutamente uguali”. Cosa vuol significare l’affermazione di Hirst? Dimostra forse la sua convinzione che si debbano “uccidere le cose per poterle guardare”?

Miami Beach, Art Basel Miami Beach
Maurizio Cattelan
COMEDIAN (2019)
Banana vera, nastro adesivo, installazione su muro

“Comedian” è una vera banana attaccata al muro con del nastro adesivo grigio. È stata esposta per la prima volta in 3 edizioni distinte (performance) in una galleria d’arte, durante lo svolgimento della fiera Art Basel, tenutasi nel 2019, a Miami Beach, in Florida. Esibita ad una mostra d’arte potrebbe far pensare ad una provocazione o una burla (e in sostanza lo è), ma è una presa in giro acquistata informalmente per circa 120.000 USD, equivalenti a 103.284,00 € (due versioni), e 150.000 USD, pari a 129.105,00 € (la terza). Il 20 novembre 2024, una di queste “burle” è stata rivenduta all’asta da Sotheby’s per 5,2 milioni di USD (circa 6,2 milioni con le commissioni), ovvero 5.336.340,00 €. Viste le cifre, se non si vuol credere all’interpretazione che la liquida come uno scherzo, allora diviene legittimo chiedersi cos’è. “Comedian” non è una “scultura” tradizionale né una “performance” nel senso classico, è una scultura/installazione concettuale, descritta anche in termini di meta-installazione o una performance economica. La sua particolarità, a parte la cifra esorbitante sborsata per comprarla, risiede nel fatto che mai una banana ha fatto riflettere tanta gente sull’arte. L’opera (chiamiamola ancora così) non è d’immediata lettura. Costringe l’osservatore – abituato dai mass-media ad un atteggiamento passivo nei confronti delle immagini – ad impegnarsi, farsi delle domande; le risposte riflettono i diversi gradi di approfondimento dei significati contenuti in essa. Il concept non è una novità assoluta. In linea con tutta la tradizione dell’arte concettuale, per la quale l’arte non deve essere necessariamente un oggetto fisico, ma sta nell’idea, Cattelan ribadisce che l’arte è anche contesto, pensiero, critica, e relazione con lo spettatore. L’oggetto – la banana – materia corruttibile, può essere sostituito. Ciò che viene venduto non è una cosa, è un certificato di autenticità, con le istruzioni per la sua reinstallazione: comprare una banana, usare un certo tipo di nastro, applicarla secondo precise indicazioni. Quindi ciò che si compra davvero è l’idea, il diritto di riprodurla secondo le istruzioni; un concetto. Non si fa così anche con i brevetti? E allora perché tanto scalpore? Infondo Maurizio Cattelan può essere paragonato a chi inventa un marchio e lo capitalizza, anche se con delle importanti differenze di contesto e significato. Oltre al contenuto speculativo, la “banana” ha anche un proposito dimostrativo. Ironizza sul fatto che il mercato dell’arte possa dare un valore assurdo a qualsiasi cosa, purché venga “legittimata” come arte. Vendere una banana per 150.000 dollari prova che non è la qualità dell’oggetto a determinarne il prezzo, ma il suo status nel sistema dell’arte. Una banana vale pochi centesimi, ma una banana con il nome di Cattelan diventa un’opera d‘arte da sei cifre. Ad un ulteriore livello di approfondimento, la “banana” assurge ad antitesi della concezione storica dell’arte come qualcosa di eterno. Infatti, l’oggetto – materia organica, deperibile – accetta la propria temporaneità, ma l’idea può essere riprodotta all’infinito. E in un mondo che cerca la permanenza, “Comedian” ci parla di transitorietà, ripetizione, futilità e valore attribuito. La “banana”, che marcisce, è simbolo della transitorietà, della decadenza e del tempo che passa. In un mondo che cerca l’eternità nell’arte, Cattelan ci ricorda che tutto si consuma, anche l’arte. “Comedian” è dunque una riflessione sull’effimero, in contrasto con l’aspirazione dell’arte a durare nel tempo. Tra i molti strati valoriali della performance c’è quello per cui l’opera spinge l’osservatore a chiedersi se sia arte o no. Gli addetti ai lavori l’hanno giudicata come una provocazione sul valore dell’arte, sul consumo e sul mercato, una satira del sistema dell’arte contemporanea, che a volte attribuisce valori astronomici a oggetti apparentemente insignificanti. Altri l’hanno vissuta come un segno dell’assurdità del sistema dell’arte contemporanea, una vera follia, confortati in ciò dal fatto che tre esemplari dell’opera erano stati venduti per cifre tra i 120.000 e i 150.000 dollari. Molti hanno deriso l’opera, considerandola il simbolo di quanto l’arte contemporanea sia “ridicola” o “fuori dal mondo reale”. Qualcuno l’ha definita “una truffa”, “una presa in giro dell’intelligenza”, ma c’è stato pure chi ci ha visto una critica intelligente al capitalismo, al valore simbolico e alla mercificazione dell’arte. Una frase tipica ricorrente è: “Anche mio figlio di 5 anni può fare una cosa del genere!”, normale davanti all’arte concettuale, ma che spesso è proprio il punto dell’opera: chi decide cosa è arte? Stanti le più disparate critiche, ciò che accomunava tutte le reazioni è stato il fatto che ciò che veniva venduto non era la banana, un frutto, ma il diritto di ricreare l’opera secondo i parametri stabiliti. A far lievitare il valore di “Comedian” ci si è messa anche una vicenda singolare. Un altro artista, David Datuna, ha staccato la banana dal muro e l’ha mangiata davanti al pubblico dicendo: “Sono un artista anch’io. Questa è una performance: Hungry Artist.” Il gesto ha diviso ancora di più l’opinione pubblica. C’è chi lo ha considerato un atto vandalico e chi come un’estensione coerente dell’opera: l’arte come dialogo, provocazione, atto performativo. Curioso è pure il fatto che la galleria non ha sporto denuncia, e ha semplicemente sostituito la banana con un’altra. Il certificato dell’opera, infatti, lo permetteva. Dal punto di vista storico artistico, di fronte a quest’opera critici e curatori si sono divisi: Alcuni l’hanno difesa come un’erede diretta di Duchamp e della sua “Fontana” (l’orinatoio firmato); altri l’hanno bollata come operazione commerciale furbissima, più marketing che arte. Ma tutti hanno concordato su un punto: “Comedian” ha fatto discutere il mondo intero sull’arte, e questo è già un effetto potente. La “banana” non è un’idea inedita, ci sono illustri precedenti. Il più remoto è senz’altro Fontana (1917) di Marcel Duchamp, un orinatoio rovesciato firmato “R. Mutt”. Il più clamoroso è Merda d’artista (1961) di Piero Manzoni, 90 scatolette contenenti, si dice, feci dell’artista. Quindi c’è Dropping a Han Wall Drawings di Sol LeWitt (dal 1968 in poi) costituita solo dalle istruzioni per realizzarla; Dynasty Urn (1995) di Ai Weiwei, una foto dell’artista che lascia cadere e rompe un vaso antico. “Comedian” non è un’opera isolata, ma si inserisce perfettamente nel percorso artistico di Cattelan, che da sempre lavora sul confine tra arte e provocazione, tra banale e sacro, tra scherzo e critica profonda. Opere precedenti in sintonia sono: La Nona Ora (1999), Papa Giovanni Paolo II colpito da un meteorite. Scandalo enorme. Un’immagine potente che mette in discussione l’autorità e la sacralità. Novecento (1997) un cavallo impagliato appeso al soffitto Simbolo del fallimento, della tensione tra gloria e rovina. Anche qui l’impatto visivo è forte, ma il messaggio è sottile. Him (2001), una statua di Hitler bambino inginocchiato. Shock e ambiguità. L’opera costringe a confrontarsi con la storia e con il potere delle immagini. Tutte queste opere, come Comedian, non danno risposte. Fanno domande scomode. La critica al sistema dell’arte è un tema ricorrente in Cattelan, il quale ha sempre usato umorismo e provocazione, considerando il ruolo dell’artista come figura ironica e dissacrante, capace di smascherare le contraddizioni del sistema dell’arte. Le sue opere sono spesso comiche, ma con sottotesti seri: la “banana” è ridicola, ma parla anche di valore, effimero, status. L’opera di Cattelan rientra in quel circuito di opere che rappresentano a pieno titolo la follia dell’arte concettuale contemporanea. In definitiva Maurizio Cattelan è un Imprenditore nel settore della proprietà intellettuale, un professionista che inventa marchi e li capitalizza. Allo stesso modo, crea un marchio su un’idea distintiva (nome, logo, identità) che può essere monetizzata indipendentemente dal prodotto. A differenza di un professionista ordinario, lui, artista, è libero di criticare il sistema, una critica che pone molti dubbi sulla sua legittimità, dal momento che sempre lui, artista, trae vantaggio dal sistema che critica. “Comedian”, come altre opere, ha assunto un valore economico esorbitante proprio in quel mercato che deride e definisce assurdo. Come chi vive di brevetti vende o cede i diritti di esposizione o riproduzione dell’opera. Ironizza sul mondo dell’arte, ma nello stesso tempo è parte integrante di quel mondo che alimenta con le sue performance. Ha costruito un’identità artistica riconoscibile, provocatoria e spesso ironica. In questo senso, è lui stesso un marchio nel mondo dell’arte contemporanea. Qualcuno dice che c’è differenza. Infatti: un marchio serve a vendere un prodotto, Cattelan invece non vende un prodotto, vende un messaggio; non vende una cosa concreta, vende un simbolo, una cosa appartenente alla dimensione spirituale. È vero che un marchio si può usare all’infinito, mentre le opere di Cattelan, per quanto possano avere repliche o versioni simili, spesso sono pensate come pezzi unici, o comunque legate a un contesto specifico. Ma anche se ciò non lo fa agire come un imprenditore classico rimane contraddittorio il suo gioco con l’assurdità del sistema dell’arte. Brevetta un’idea paradossale, dal forte carisma simbolico, ad alto valore economico e mediatico, la mette in vetrina e costringe l’osservatore a riflettere, quindi se la vende alla barba di chi sta ancora a riflettere se “Comedian” è arte o no, dimenticando che a questa domanda ha dato già una risposta 2.500 anni fa circa, seppure indiretta,  Protagora di Abdera (490 a.C.–415/411 a.C.) affermando che l’uomo è misura di tutte le cose, di quelle che sono per ciò che sono e di quella che non sono per ciò che non sono. Se è vero, come è vero che Maurizio Cattelan ha capito il gioco del mercato e lo sfrutta, è anche vero che il mercato sfrutta gli argomenti critici di Cattelan per assorbirli e depotenziarli immettendoli nel proprio sistema. È lo stesso mercato che lo vuole libero di criticare: sembra che la società trovi attraente ciò che la critica. In altre parole Cattelan è un oppositore autorizzato a fare opposizione. L’artista non va oltre la critica, non propone una soluzione per risolvere la follia del mercato, fa come Delacroix che inneggia alla rivoluzione, ma poi frequenta i salotti esclusivi di Parigi. Eppure le soluzioni ci sarebbero: basterebbe ignorare mercato, società capitalista e urbanità.

Proprietà privata
Banksy
THE GIRL WITH BALLOON (2018)
Vernice spray, vernice acrilica, tela, cartone; altezza cm. 101 – larghezza cm. 78 – spessore cm. 18

Alle esperienze graffitiste, concettualiste e pop si rifà Banksy, celebre artista britannico di street art, noto per le sue opere provocatorie e spesso satiriche, che affrontano temi sociali, politici e culturali. La sua identità rimane tuttora sconosciuta, e il mistero che lo circonda contribuisce ad accrescere l’interesse attorno alla sua figura. Uno dei suoi lavori più iconici è Girl with Balloon (nota anche come Balloon Girl o Girl and Balloon), una serie di murales realizzati con la tecnica dello stencil, apparsi a Londra a partire dal 2002. Tutte le versioni presentano lo stesso soggetto: una bambina che lascia volare via un palloncino a forma di cuore, solitamente di colore rosso. Nel 2018, una copia dell’opera è stata messa all’asta da Sotheby’s. Subito dopo essere stata venduta per la cifra record di 1.042.000 sterline (all’epoca circa 1.184.360 euro), è stata parzialmente distrutta da un meccanismo nascosto nella cornice, attivatosi non appena il banditore ha concluso la vendita. L’opera si è così “autodistrutta”, venendo tagliata verticalmente a metà: un’azione orchestrata dallo stesso Banksy, che in seguito ha rinominato il lavoro Love is in the Bin (“L’amore è nel cestino”). Sotheby’s ha dichiarato che si è trattato della “prima opera d’arte nella storia ad essere stata creata durante un’asta dal vivo”. Tre anni dopo, nell’ottobre 2021, Love is in the Bin è stata nuovamente battuta all’asta dalla stessa casa e venduta per 18.582.000 sterline (circa 20.680.000 euro), segnando un nuovo record per un’opera dell’artista. La speculazione commerciale sulle copie di Girl with Balloon non è un episodio isolato. Già prima — e poi ancora dopo — oltre ad altri murales, sono state messe in circolazione numerose stampe tratte dallo stencil originale, in edizioni limitate, oggi divenute opere grafiche di grande valore. Tuttavia, è importante precisare che Girl with Balloon non è nata solo per fini commerciali. Banksy ha utilizzato varianti di questo disegno anche per sostenere cause sociali: nel 2005 sulla barriera in Cisgiordania, nel 2014 per sensibilizzare sulla crisi dei rifugiati siriani, e in occasione delle elezioni britanniche del 2017. L’immagine della bambina con il palloncino viene spesso interpretata come un invito a non perdere la fiducia nei propri sogni e nelle possibilità che la vita può offrire, anche di fronte alle difficoltà. La bambina incarna la speranza, l’innocenza e il desiderio di libertà; il palloncino che si allontana rappresenta la perdita, l’illusione o la fragilità della speranza in un mondo complicato. In questo senso, Girl with Balloon non è solo un’icona commerciale, ma un’opera capace di stimolare una riflessione sulle sfide sociali, sulla speranza e sulla vulnerabilità umana. Il suo messaggio è semplice, diretto, universale — tocca corde profonde della coscienza collettiva. Potrebbe essere abbastanza, ma il contenuto non si limita all’ambito sociale: coinvolge anche il mondo dell’arte contemporanea e le sue contraddizioni. Il gesto di autodistruggere l’opera ha un significato esplicito: rifiutare che l’arte diventi mero strumento di profitto. Tuttavia, proprio questa azione ne ha aumentato il valore economico, rendendola ancora più desiderata e simbolicamente potente. Paradossalmente, la distruzione è stata letta da molti come un atto artistico in sé, una performance che ha rafforzato il messaggio di critica alla mercificazione dell’arte. Una domanda inevitabile, di fronte a Girl with Balloon, è se l’artista riesca davvero a comunicare il proprio messaggio, oppure se finisca per contribuire a quel sistema speculativo che intende criticare. È coerente, ci si chiede, denunciare la commercializzazione dell’arte fornendo allo stesso tempo materiale adatto ad alimentarla? A ben vedere, questa contraddizione è centrale nell’arte contemporanea, e Banksy non fa eccezione. La sua operazione può essere considerata fallita se si ritiene che abbia allontanato il pubblico dall’interesse per l’arte, lasciandone il controllo a pochi artisti e collezionisti. Al contrario, può dirsi riuscita se l’obiettivo era suscitare un dibattito proprio sulle contraddizioni del mercato artistico. Nel luglio 2017, un sondaggio commissionato da Samsung su un campione di 2.000 britannici ha inserito Balloon Girl al primo posto tra le opere d’arte britanniche più amate. Un risultato che dimostra quanto l’opera sia entrata nell’immaginario collettivo. Nonostante il successo, i dubbi sulla schiettezza e l’efficacia dell’intento restano: se gran parte dell’arte contemporanea critica l’industria dell’arte, è lecito chiedersi quanto sia autentica ed incisiva questa denuncia, considerando che spesso la fama degli artisti è legata proprio al mercato che contestano. Nel caso di Banksy, le sue opere e performance sembrano intenzionalmente progettate per smascherare le logiche del sistema dell’arte, anche se ciò comporta inevitabilmente un aumento del valore delle sue creazioni. È una strategia consapevole che mira a mettere in evidenza le incoerenze di un sistema dove anche la critica diventa parte del gioco commerciale. Molti artisti contemporanei si trovano in bilico tra la volontà di esprimersi liberamente e la necessità di conformarsi alle logiche del mercato, finendo spesso per creare opere più “vendibili” o “alla moda”. Banksy, almeno in apparenza, sembra resistere a queste dinamiche. Eppure, anche chi cerca di sottrarsi alle regole del sistema finisce per essere assorbito da esse, in un contesto artistico sempre più complesso e interconnesso. Considerata un’immagine simbolica del nostro tempo, Girl with Balloon, con la sua semplicità visiva e la profondità del messaggio, incarna le contraddizioni del mondo contemporaneo. È vero: spesso chi investe in queste opere è parte di quel sistema economico che genera disuguaglianze e fragilità sociali. Il fatto che questi investitori possano apprezzare un messaggio di speranza e fiducia, pur essendo talvolta responsabili delle condizioni che quel messaggio denuncia, è un paradosso evidente, che alcuni potrebbero trovare affascinante, altri ipocrita. Forse si tratta di una forma di consapevolezza, o forse solo del desiderio di mostrarsi sensibili e “buoni”, anche quando le azioni concrete non seguono questa filosofia. Resta il fatto che l’arte può ancora avere un valore critico e simbolico, e contribuire a stimolare riflessioni, discussioni e — idealmente — mutamenti. Naturalmente, un investimento più diretto in progetti sociali o artistici meno noti potrebbe avere un impatto più concreto e duraturo. Ma anche attraverso le sue contraddizioni, l’arte continua ad aprire spazi di possibilità. E questo, forse, è già un passo importante verso un cambiamento.

VIDEOARTE

Denis Santachiara
ITALIAN NIGHT (1988)
Lampada in alluminio

Nel movimento dada l’arte si riduce ad un gesto che finisce per escludere la tecnica, ma si qualifica come artistico in quanto anti-funzionale. Tra il Novecento e il Duemila, l’arte visiva mostra sempre più spesso tendenze di tipo nichilistico. In molti casi, segue la direzione presa dalla cultura contemporanea, che tende a sostituire la realtà con il virtuale, con immagini che non rimandano più a nulla di concreto. Nelle forme più estreme, diventa un’arte senza scopo né direzione, dove tutto si confonde e resta solo un senso di caos ritmico. La Videoarte, una corrente che nasce negli anni Sessanta-Settanta, fonda la propria azione sull’anti-funzionalità, ma non esclude la tecnica, anzi è proprio tecnica e l’utilizzo delle moderne tecnologie di comunicazione espressiva a delinearne il profilo. Il medium visivo, lo indica il termine stesso, è il video, utilizzato in modo anti-convenzionale come installazione, come loop, come integrazione con oggetti e spazio fisico. Le fonti ispiratrici principali sono il cinema, la televisione e i videoclip; il metodo è quello dada, di decontestualizzate e stravolgimento della struttura logico-narrativa. Il fine è indurre lo spettatore a riflettere su temi universali, di tradizionale pertinenza dell’arte, quali i sentimenti, l’identità, la vita, la morte, lo spirito. L’artista interviene attivamente nella realizzazione dell’opera d’arte, creando con mezzi moderni virtualità il cui valore consiste nello stimolare esperienze qualitativamente superiori. Qui la manualità è pressoché zero; quel che conta è l’idea.

Torino, Museo Castello di Rivoli
Nam June Paik
SENZA TITOLO (1992)
Installazione. Foto dell’opera in mostra al Palazzo delle Esposizioni di Roma durante la rassegna Il Novecento

Venezia, Biennale
Nam June Paik
Installazione (1993)

New York
Concerto per TVcello e videotape (1969)

Nam June Paik (1932–2006), è uno dei pionieri della video arte. Obiettivo precipuo dell’artista coreano è quello di riscattare il linguaggio televisivo dalla sua natura di mezzo di comunicazione di massa al servizio di una società i cui valori dominanti sono il vuoto apparire e il consumismo. Nell’installazione esposta alla biennale di Venezia nel 1993 il risultato è ottenuto componendo dei monitor a formare una sorta di tela gigantesca in cui l’immagine è formata dai singoli video in onda sugli schermi. Ognuno di questi è una porzione della figura totale. In sostanza Nam June Paik utilizza la TV in qualità di materiale da costruzione come farebbe un pittore con il colore o lo scultore con il marmo, l’argilla, la pietra, o un mosaicista con i monitor al posto delle tessere.
Il senso critico nei riguardi del potere alienante e persuasivo della divulgazione televisiva rientra nel discorso più generale dell’impiego dei mass-media in sede politica ed economica. L’opera Zen for film del 1963 è una clip muta della durata di otto minuti in cui, se si eccettua titolo e autore, si vede solo uno schermo vuoto, bianco. Il titolo fa riferimento all’omonima filosofia orientale, ma il significato sta nel fatto che l’artista mette a disposizione dell’osservatore uno spazio bianco che egli stesso può riempire con la propria immaginazione o lasciare bianco, cioè fa l’esatto opposto di quello che propone la televisione e cioè ore e ore ininterrotte di immagini, suoni e pubblicità che alla fine inibiscono nel fruitore la propria capacità d’immaginazione.
Nel 1969 Paik con la performance Concerto per TVcello e videotape, si rende protagonista, insieme alla violoncellista Charlotte Moorman, di uno scandalo che si concluse con l’arresto della partner per atti osceni in luogo pubblico. Durante l’esibizione la donna mostrò il corpo nudo ad eccezione dei seni, coperti da due piccoli monitor che trasmettevano immagini interagendo con il suono del violoncello.

Bill Viola
THE GREETING (1993)
Installazione multimediale

Bill Viola
THE CROSSING (1996)
Installazione multimediale

Bill Viola
OBSERVANCE (2002)
Installazione multimediale

Londra, cattedrale di St. Paul
Bill Viola
MARTYRIS (2014)
Installazione multimediale

Le video installazioni di Bill Viola si ispirano all’antica funzione dell’opera d’arte quale contenitrice di messaggi perenni e universali. Per realizzarle l’artista impiega le tecnologie più avanzate: filmati, video hi-fi, schermi LCD, registrazioni multimediali. I temi vanno dall’espressione delle emozioni più semplici e comuni a quelle più drammatiche e intense. Nel trattare gli argomenti il videoartista attinge spesso ai capolavori della storia dell’arte. In The Greeting (L’incontro), video presentato per la prima volta alla Biennale di Venezia del 1995, inaugura la fase più rimarchevole della sua parabola professionale, in cui espone la personale interpretazione di Videoarte: sostituire pennelli e colori con i mezzi che danno forma e voce alla nostra contemporaneità, come il mezzo digitale. L’opera è palesemente ispirata a La visitazione del Pontormo, databile al 1528-1530 circa, custodita presso la Pieve di San Michele Arcangelo a Carmignano. Il dipinto del pittore cinquecentesco mostra l’incontro tra Maria, in attesa di Gesù, e sua cugina santa Elisabetta (o secondo altri sua zia), incinta di san Giovanni Battista. Il video di Viola ci mostra invece due donne in conversazione, interrotte dopo qualche minuto da una terza figura femminile. Quest’ultima si avvicina alla più giovane, le sussurra qualcosa all’orecchio ed infine l’abbraccia. Sullo sfondo appare una scura via cittadina, dove si riconoscono alcuni scarni edifici fuori scala. Il filmato di Bill, realizzato con una macchina da presa fissa, completamente al rallentatore, non vuole essere una semplice trasposizione in chiave moderna dell’opera del Pontormo, non imita un quadro del passato, ma intende cogliere il senso universale e atemporale di una situazione, l’incontro, nella quale si esplicita una delle più primitive emozioni umane: l’affetto. Non solo. Tra le due opere è possibile cogliervi anche un parallelo storico artistico. Il Pontormo nella Visitazione manifestava la sua interpretazione di Rinascimento, Bill in The Greeting, manifesta la sua idea di Video Art. All’Incontro è affidato anche un messaggio: Non correre via dalla vita, stare dentro le piccole cose, perché lì accade il profondo. In The Crossing (L’incrocio), due video sono proiettati contemporaneamente sui due lati di uno stesso pannello trasparente. In uno si vede l’artista avvolto dalle fiamme; nell’altro lo stesso corpo viene sommerso da una cascata d’acqua. Il filmato punta ad essere fortemente suggestivo e avvolgente, sfruttando gli effetti drammatici ottenuti dai contrasti estremi tra illuminazione e oscurità. La sequenza rappresenta l’annullamento dell’uomo per opera delle forze naturali, l’acqua e il fuoco. La scena è costruita con estrema cura: un uomo rivolto verso lo spettatore viene avvolto gradualmente dalle fiamme che scaturiscono dal suolo, prima come lievi bagliori, poi in un incendio sempre più vasto. Contemporaneamente, sull’altro schermo, lo stesso uomo viene colpito da gocce d’acqua che diventano man mano un diluvio. Alla fine, tutto si dissolve: restano solo piccole fiammelle e poche stille di rugiada, intese quale simbolo di trasformazione o fine. L’immagine richiama nella tematica il romanticismo di artisti come Blake, Turner o Caspar David Friedrich, mentre nella forma le cupe tele del Seicento, il tutto reinterpretato con strumenti e linguaggi del presente. In Observance (Osservanza), un gruppo di persone reali si muove lentamente davanti a qualcosa che provoca dolore e commozione. Tuttavia, ciò che osserva resta nascosto allo spettatore, lasciando spazio all’immaginazione e all’empatia. Martyrs (Earth, Air, Fire, Water) è una installazione collocata su una parete nella Cattedrale di St. Paul a Londra, come una tradizionale pala religiosa. Rappresenta il primo caso in Gran Bretagna di un un’opera permanente di questo tipo all’interno di un edificio per il culto. È costituita da 4 video al plasma verticali, incorniciati da un’essenziale struttura di acciaio, disegnata da Foster and Partners e realizzata da Marzorati Ronchetti. In essi si vedono 4 figure, una per pannello, investite dai 4 elementi naturali primordiali: terra, aria, fuoco e acqua. Sono immagini che elaborano la classica tematica religiosa del martirio, visualizzate però mediante il linguaggio contemporaneo del video. Qui il contesto le è proprio: Fa tornare alla memoria un polittico dove soggetti fortemente iconici risaltano sullo sfondo scuro, illuminati dal retro e dall’alto, con effetti chiaroscurali di seicentesca memoria. Ogni figura è inizialmente ferma, poi, lentamente, la terra si solleva ai piedi della prima, il vento scuote la seconda, il fuoco avvolge la terza, l’acqua si rovescia sulla quarta; gli elementi invadono lo spazio, la quiete viene infranta. I martiri non urlano, non mostrano spasmi, non hanno gesti eccessivamente teatrali. C’è una sorta di accettazione, una resistenza interiore. Alla fine l’assalto degli elementi si placa. Nonostante la violenza, ciò che si coglie non è solo e semplicemente il dramma, la sofferenza non è fine a sé stessa, ma si spiritualizza diventando luce, elevazione, contemplazione. Con questa messa in scena tecnologica, Viola sottolinea che i martiri sono testimoni del dolore, della fede, della resistenza, dell’adesione ai propri valori anche di fronte al tormento. Si tratta dunque di vecchi contenuti in nuove forme espressive, tuttavia trattati in modo non dogmatico. Pure se l’opera è collocata in una cattedrale e richiama l’iconografia religiosa, Viola mescola elementi di misticismo orientale e occidentale, le figure non sono santi identificati, ma individui che rappresentano una condizione umana universale. Il messaggio è esplicito: resistere, anche quando il mondo ti “piove addosso”, sopportare il dolore, il disagio e anche la morte, pur di rimanere fedeli ai propri valori, alla propria fede, alle proprie convinzioni e principi; sostenere, resistere, guardare il dolore, il tuo, degli altri, quello che è “oltre”, e forse trovare senso anche lì.

ARTE COMPUTERIZZATA: RIFLESSIONI TRA TECNICA, LINGUAGGIO E RESPONSABILITÀ

Tommaso Tozzi e Giacomo Verde
CARTOLINA-MANIFESTO DEL PROGETTO PRESENTATO E RIFIUTATO ALLA MANIFESTAZIONE “CONTRO LA PENA DI MORTE” (Firenze 29/30 novembre 2000)

Con il termine arte computerizzata intendo riferirmi a quell’insieme di opere generate mediante l’uso del computer, sia in presenza sia in assenza di criteri condivisi per la loro valutazione. Le sue radici storico-ideologiche affondano nell’arte del Novecento, a partire da Dada e, ancor più significativamente, dalla Conceptual Art. In questi movimenti, l’atto creativo tende a spostarsi sempre più sul piano della progettazione e dell’ideazione, piuttosto che su quello dell’esecuzione manuale, mettendo progressivamente in discussione la figura dell’artista faber. Il lavoro artigianale, storicamente considerato elemento distintivo dell’opera d’arte, perde centralità, lasciando spazio all’intervento della macchina. Sotto il profilo tecnico, i pionieri dell’arte programmata includono figure come László Moholy-Nagy (1895–1946), con i suoi progetti artistici sperimentali; Sol LeWitt (1928–2007), secondo cui “l’idea diventa una macchina che fa l’arte”; François Morellet (1926–2016), capace di fondere rigore matematico e gesto personale; Harold Cohen (1928–2016), creatore del programma AARON, progettato per realizzare disegni e dipinti in autonomia. Meritano inoltre menzione Bruno Munari (1907–1998), Giovanni Anceschi e Gianni Colombo (1937–1993), membri del Gruppo T, attivo negli anni Sessanta e promotore della Programmed Art. Con l’avvento del nuovo millennio e il rapido sviluppo delle tecnologie digitali, il computer si è imposto come lo strumento ideale — l’“operaio perfetto” — per l’arte concettuale e programmata: un esecutore privo di volontà, ma capace di tradurre comandi in immagini in tempo reale. Sul piano visivo, ciò ha prodotto un’estetica nuova, ma solo in apparenza. Si tratta infatti di un linguaggio che, pur suscitando entusiasmo per la sua novità, presenta nodi critici da analizzare. Il primo di questi riguarda il linguaggio stesso. Ogni linguaggio è costituito da vocaboli, radicati nella cultura di chi li utilizza. Le intelligenze artificiali che generano arte (GAN, transformer, reti neurali) non pensano, né vogliono creare qualcosa. Non apprendono dalla natura, non agiscono con consapevolezza né provano emozioni. Non vi è alcuna intenzionalità nel loro operare. Le IA non inventano nuovi vocaboli, né compiono scelte culturali autonome. Analizzano grandi quantità di dati (immagini, testi, musica) e riconoscono pattern, che poi ricombinano per generare variazioni su quanto già esistente, secondo modelli basati su input umani e finalità programmate. In sostanza, riflettono la cultura di chi le ha progettate, istruite e alimentate, nonché di chi interagisce con esse. Da questa premessa derivano due criticità fondamentali. La prima riguarda l’output: i risultati generati sono spesso molto simili, sotto il profilo linguistico, a modelli già noti. Poiché l’originalità espressiva è uno dei tratti distintivi dell’attività creativa, la mancanza di tale elemento nelle IA solleva interrogativi sulla natura artistica delle loro produzioni. Ma domandarsi se ciò che è prodotto da una macchina possa essere considerato arte è, in fondo, un falso problema. Se ci si attiene a una visione romantica della creatività — intesa come facoltà esclusivamente umana, radicata nell’esperienza, nell’intuizione, nell’inconscio e nell’intenzionalità — allora l’IA non potrà mai essere ritenuta creativa. Se invece si adotta una prospettiva funzionalista, secondo cui ciò che conta è la qualità dell’output (la sua novità, rilevanza e significatività per l’essere umano), allora anche l’IA può essere considerata creativa, pur in assenza degli altri requisiti. Va precisato che l’arte computerizzata non sostituisce l’arte tradizionale, ma la ridefinisce. L’autore non è più necessariamente colui che realizza materialmente l’opera — intesa come oggetto unico, concluso e irripetibile — ma assume il ruolo di progettista: scrive il programma che genererà l’opera. L’unità dell’opera si scinde: da un lato il processo elaborativo, dall’altro il risultato visibile. La materia, da sostanza estetica pronta a ricevere l’impronta concreta del gesto, si trasforma in virtualità temporanea. L’opera d’arte, un tempo pensata per essere contemplata, può oggi essere modificata in tempo reale dall’utente attraverso input, interazioni e comportamenti. Quanto alla tecnica, essa resta inscindibile da una sensibilità visiva e da scelte estetiche analoghe a quelle richieste dalla pittura o dalla scultura. Alla luce di ciò, la vera domanda da porsi diventa: in che modo l’IA, sviluppata e guidata da esseri umani, può riflettere la libertà creativa, nel rispetto della responsabilità etica e del pluralismo culturale, evitando derive di controllo e tutelando la dignità umana? La risposta è semplice, quanto cruciale: tutto dipende da chi controlla l’IA. Ed è qui che entra in gioco un altro elemento fondamentale: il rapporto tra tecnica e società. È convinzione diffusa che la tecnica sia un semplice strumento nelle mani dell’uomo. Ma l’osservazione del presente suggerisce che tale visione è ormai superata. Con l’intelligenza artificiale si rende evidente la crescente dipendenza dell’uomo dalla macchina. Già due secoli fa, Hegel parlava di eterogenesi dei fini, sostenendo che un fenomeno, al crescere quantitativo, può produrre un mutamento qualitativo del paesaggio complessivo. In questa linea si inserisce anche Marx, che intravide nel passaggio del denaro da mezzo a scopo l’origine del consumismo. Heidegger, infine, fu tra i primi a riconoscere la trasformazione della tecnica da semplice strumento a condizione universale per il raggiungimento di qualsiasi obiettivo. Anche il funzionamento degli algoritmi rivela molto: essi si basano sulle risposte di chi si interfaccia con l’IA. Se l’utente è poco critico e possiede un bagaglio culturale superficiale, l’intelligenza artificiale, operando su un insieme di input sempre meno complesso, genererà inevitabilmente risultati sempre più omogenei, standardizzati e, purtroppo, sempre meno creativi. È proprio per contrastare questa deriva che molti giovani artisti si stanno oggi impegnando sul fronte della creatività computazionale. In linea con il pensiero di Margaret Boden (1936–2015), teorica dell’arte generativa, essi non vedono l’arte computerizzata come creativa perché produce novità, ma perché espande lo spazio del possibile, offrendo nuovi modi di pensare, vedere e sentire. L’uso dell’IA da parte di questi artisti mira a indicare una direzione alternativa, capace di impedire che la tecnologia si limiti ad assecondare l’attuale tendenza verso la dipendenza dell’uomo dalla tecnica. Tuttavia, esiste un “tuttavia”. Non è realistico immaginare un mondo in cui l’uomo possa rinunciare a un contatto diretto, viscerale, con la propria sensibilità manuale. Si può davvero apprezzare un tramonto digitale senza aver mai vissuto l’emozione autentica di un tramonto naturale, osservato in silenzio sulla riva del mare, in una calda sera d’autunno? Il limite di un totalitarismo artistico tecnologico sta proprio nel rischio di confondere la virtualità con la realtà, e nel formarsi una cultura sempre più mediata da altri. E quando è lo stesso osservatore a creare database e algoritmi, magari partendo da disegni realizzati a mano, diventa evidente quanto sia difficile — e talvolta inadatto — affidarsi a un mezzo digitale per restituire la complessità dell’esperienza umana.

TENDENZE DELL’ARCHITETTURA CONTEMPORANEA: DAGLI ANNI SESSANTA AD OGGI

A differenza dei linguaggi moderni nei campi della pittura e della scultura che nascono da situazioni di incompatibilità con il sistema, non tutti i linguaggi architettonici attuali nascono dalla stessa circostanza. L’architettura contemporanea sorge soprattutto dalla critica all’architettura razionalista, entrata ormai in crisi dopo aver assunto un carattere globalista. La causa fondamentale della crisi del Razionalismo Architettonico “internazionale” sta nella concezione di uno spazio e di una società come entità astratte, universali, come si vuole che siano e non come sono, un pensiero che si configura tra l’altro nella volontà di liberarsi dal naturalismo romantico e dallo storicismo degli “stili”. Ma il superamento del naturalismo romantico e dello storicismo degli “stili” non cancella il problema della natura e della storia. Il dialogo continua a porsi anche se impostato su basi completamente nuove. Dopo l’esperienza razionalista la natura non è più, come era stata durante tutto il lungo periodo preindustriale, il “Creato”, cioè la rivelazione in forme sensibili dell’intelligenza e della volontà divina, né la storia è più il disegno della provvidenza per la salvezza finale dell’umanità. Natura e storia sono tutta un’altra dimensione: la natura è il luogo, la storia il tempo della vita. Con l’avvento della generazione di architetti contemporanei le ragioni dei maestri razionalisti vengono sempre più spesso dimenticate e alla fine ciò che si critica e si condanna delle loro posizioni è il cartesianesimo. Questo, secondo i detrattori, impedisce un’adesione più stringente degli elementi architettonici alle esigenze di fatto e limita la libertà espressiva. Ma dalla critica del cartesianesimo estetico non si è passati a creare un’estetica basata su nuove teorie, bensì si è passati a creare un’estetica anti-cartesiana, un linguaggio anti-razionalistico, ovvero, in definitiva, un linguaggio anticlassico contemporaneo. È la critica dunque il motore che muove l’architettura contemporanea, e la critica non si ferma al Razionalismo; si critica la critica e così all’infinito nel dubitabile presupposto che criticando si migliora sempre. Risultato? Il proliferare delle correnti: avveniristiche, fantastiche, realistiche, utopistiche, revisionistiche, ecc. Stanti le differenze tra le varie formule, tutte le tendenze hanno un denominatore che ne accomuna i linguaggi, anche per quanto riguarda pittura e scultura. Nel caso di queste due arti è il fatto che le contingenze da cui sono sorte alcune correnti hanno subito un mutamento e pertanto non hanno più ragion d’essere; per quanto riguarda l’architettura i linguaggi si sono trasformati in esercizio di stili, tutti perfettamente integrati nel sistema. Ciò lo spiega il fatto che nel campo dell’architettura l’assorbimento delle spinte rivoluzionarie è stato più rapido e profondo che nelle altre discipline artistiche, così come pure la crisi dei motivi base delle avanguardie. Questo perché per sua stessa natura il costruire è più soggetto a vincoli socioeconomici, politici e tecnologici. Cosicché nei progetti successivi a quelli dei maestri modernisti entrano in gioco parametri che non hanno niente a che vedere con i criteri considerati nelle opere della prima metà del Novecento. Negli ultimi decenni la condizione di emarginazione che aveva spinto gli artisti della generazione post-bellica a negare ogni collaborazione con la società si è estinta. Oggi gli artisti delle avanguardie storiche sono diventati dei venerabili maestri e gli architetti contemporanei delle star. Dunque il linguaggio rappresentativo di una generazione di creativi che non si sentiva integrata al sistema non può essere lo stesso rappresentativo di una generazione di creativi che invece è ormai pienamente funzionale al sistema. Certo è assolutamente innegabile che l’architettura per la sua stessa natura non ha potuto emarginarsi completamente; l’architettura ha sempre a che fare con realtà contingenti; gli architetti non possono permettersi di non fare architettura come i pittori che non dipingono e gli scultori che non scolpiscono. I centri commerciali servono, i musei, i teatri, le banche, le case ecc., sono tutti ambiti dove la disciplina costruttiva è chiamata a svolgere un ruolo. Se pittura e scultura possono interrompere la comunicazione con la società e denunciare la propria incongruità con il mondo moderno, non così l’architettura, che comunque deve servire a qualcosa, altrimenti non è più architettura, ma modellato. Non è che l’architetto deve personalmente costruire gli edifici o i complessi edilizi, ma comunque le sue idee si devono trasformare in oggetti concreti che servono necessariamente a soddisfare esigenze pratiche, poiché se così non fosse si tratterebbe di progettazione e non di architettura. È pur vero che ai giorni d’oggi gli architetti si limitano al progetto, anzi alla sola idea, o tutt’al più si rifugiano nell’utopismo, oppure nella rivolta contro il Razionalismo che voleva invece integrarsi al sistema, ma è anche vero che molti interventi finiscono per fallire gli obiettivi per mancanza di adesione alle situazioni reali o per troppa eccentricità, producendo opere che poi vengono abbandonate. Tuttavia, segno distintivo della disciplina è che deve creare spazi fruibili e questo le impedisce di vivere in un mondo solamente ideale. A parte ogni cosa, presunta o effettiva, di sicuro c’è che nell’architettura contemporanea non è più lo spazio ad adattarsi all’uomo e alle sue esigenze, ma è l’uomo ad adattarsi allo spazio e alle sue esigenze espressive. Due sono le critiche fondamentali a questa nuova impostazione. La prima è che la risemantizzazione del linguaggio architettonico deve essere supportata sempre da una necessità funzionale, altrimenti si offusca la natura specifica della disciplina costruttiva: non si fa architettura, ma scultura, scenografia, teatro. E difatti teatrali sono ormai diventate la maggior parte delle mega-costruzioni, ma sarebbe meglio dire mega-installazioni contemporanee. La seconda riguarda i costi che devono essere proporzionati alle reali esigenze pratiche, altrimenti si rischia di creare spazi inservibili con enorme spreco di denaro per la loro realizzazione e la loro manutenzione, ovvero si rischia di costruire cattedrali nel deserto. Tutto quanto ciò premesso passiamo ad analizzare le tendenze più significative che caratterizzano il panorama moderno dell’architettura contemporanea. Iniziamo dall’International Style.

INTERNATIONAL STYLE

Parigi, Défense
VEDUTA D’INSIEME (iniziata nel 1958)

Il Razionalismo aveva avuto la pretesa di riorganizzare secondo ragione la vita sociale attraverso l’architettura e il design; non c’è riuscito. La società ha preso un’altra strada: si è indirizzata verso forme di comportamento sempre più irrazionali e differenziate. In questo contesto il severo pragmatismo dei padri del modernismo si è trasformato in stile e in quanto tale è precipitato al livello di semplice progettualismo di immobili. Svuotato delle sue istanze etiche, estetiche e politiche è diventato mero espediente per un’edilizia economica e invasiva e il suo linguaggio è divenuto il linguaggio della speculazione edilizia, da un lato, e della propaganda politica dall’altro. E a far fronte al degrado del Razionalismo non è bastato l’impegno degli architetti più sensibili alle problematiche del momento, anche perché, intanto, contro l’ortodossia funzionalista cartesiana si era sollevata una nutrita schiera di critici e oppositori. Venendo alla storia non si può prescindere dal fatto che, consolidata la pace tra le forze dell’area occidentalista, l’attività costruttiva decolla in molti paesi tecnologicamente avanzati. Sulla scia delle sperimentazioni degli anni Sessanta il linguaggio architettonico si fa sempre più lontano dal frasario ortodosso del Razionalismo modernista, indirizzandosi verso forme più dinamiche e fantasiose. La pressione esercitata dall’esigenza di nuovi percorsi, l’utilizzo sempre più largo dei programmi digitali, la ricerca di nuovi valori espressivi, i nuovi materiali, le nuove problematiche ambientali, l’allentamento delle tensioni ideologiche inducono i discepoli dei maestri del primo Novecento a cambiare decisamente rotta. Tutti insieme questi fattori hanno delineato il volto dell’architettura contemporanea.
Con il termine architettura contemporanea si intende l’architettura che si è andata realizzando dagli anni sessanta ad oggi. Le tendenze sono molteplici e spesso confuse per via della loro trasversalità. Spesso risulta difficile stabilire a che stile appartenga un edificio moderno, ma ciò non è poi così importante, importante è conoscere le filosofie che accompagnano le varie poetiche architettoniche.
L’elenco è lungo; le principali sono: L’International Style; il Brutalismo; l’Architettura Radicale; l’Architettura Postmoderna; il Decostruttivismo; la Blob-Architecture; l’High Tech; la Bioarchitettura; l’Architettura Sostenibile; l’Architettura Mimetica; l’Architettura Zoomorfa; l’Architettura Complementare; il Regionalismo Critico e la Nuova Architettura Classica. Il termine International Style designa quella particolare linea architettonica che si ispira ai principi informatori dei maestri razionalisti del primo dopoguerra: Le Corbusier, Walter Gropius e Ludwig Mies van der Rohe. L’espressione compare per la prima volta nel saggio The International Style: Architecture since 1922, scritto da Philip Johnson e Henry-Russell Hitchcock nel 1932 a complemento della prima mostra di architettura moderna tenuta nello stesso anno al Museum of modern art di New York. Nel saggio gli autori auspicavano la realizzazione di un linguaggio architettonico internazionale. Questo si sarebbe dovuto fondare su alcuni punti chiave quali: semplificazione della forma; ricerca di equilibrio, regolarità e flessibilità; rifiuto dell’ornamento; preferenza espressiva per i volumi piuttosto che per le masse; utilizzo di materiali tipo vetro, cemento, acciaio; accoglimento delle tecniche di produzione di massa industrializzate; trasparenza nella visualizzazione della corrispondenza tra forma e funzione; superamento delle istanze storicistiche nonché di qualsiasi regionalismo. In sintesi l’essenza dell’International Style si può trovare nella famosa frase di Le Corbusier: “Una casa è una macchina in cui vivere”.
Nel secondo dopoguerra forme cubiche, finestre in riga, disposizioni a griglia, angoli a 90 gradi, diventano le frasi di un linguaggio internazionale globale, che per la sua universalità, la sua duttilità, la sua economicità piace agli speculatori. Alle critiche mosse sulle questioni di merito si aggiungono così quelle suscitate dall’indebolimento delle motivazioni originarie. Ciò causa la rivolta antirazionalista delle nuove tendenze emergenti.
L’esempio più clamoroso che riguarda la diffusione dello stile internazionale in Europa è il distretto della Défense con il grande arco quadrato. Tuttavia le enormi strutture realizzate per sorreggere gli imponenti edifici della Manhattan parigina potrebbero indurre a classificare l’intero complesso come espressione dell’High Tech.

BRUTALISMO

Lignano Sabbiadoro, villa Spezzotti
Marcello D’Olivo
ESTERNO (1955/1957)

Il Brutalismo è una corrente architettonica nata negli anni cinquanta del Novecento in Inghilterra, vista come il superamento del Movimento Moderno in architettura. Il termine è del 1954 e deriva dal béton brut di Le Corbusier che caratterizza l’Unité d’Habitation di Marsiglia, e più in particolare da una frase presente nel suo libro Verso una architettura del 1923: «L’architecture, c’est, avec des matières brutes, établir des rapports émouvants».
Il Brutalismo è caratterizzato dall’impiego rude del cemento a vista (in francese béton brut), modellato in forme plastiche che richiamano esteticamente la veste architettonica dell’Unité d’Habitation. I volumi delle membrature risultano accentuati, robusti, tali che forma pervasiva e materiale grezzo si uniscono nello spazio in un linguaggio estetico di grande vigore strutturale.
Gli edifici brutalisti si distinguono per l’aspetto macrostrutturale non corrispondente all’effettiva necessità d’impiego del materiale da costruzione, utilizzato abbondantemente in qualità di linguaggio espressivo, in modo tanto massiccio da declassare le tamponature a irregolarità casuali informalmente distribuite.

ARCHITETTURA MINIMALISTA

Spazi essenziali, tinte primarie uniformemente stese, ripetizioni di unità appena variabili in forme e dimensioni, un frasario siffatto non poteva risparmiare l’architettura e infatti il carattere trasversale della poetica minimalista ha finito per improntare di sé anche l’arte del costruire. L’Architettura Minimalista è quella che si avvicina di più ai precedenti razionalisti del modernismo architettonico, soprattutto nell’interpretazione di un Mies van der Rhoe nella sua fase nuovayorkese dove trova nella ripetitività modulare senza fine dei suoi grattacieli anti-espressionisti la chiave per lo sviluppo di un nuovo linguaggio. Il Minimalismo Architettonico, nato negli anni sessanta, è impostato su due concetti fondamentali: la multifunzionalità e la multi-gestione dello spazio. Per multifunzionalità in parole semplici si intende rendere una stanza adattabile allo svolgimento di più funzioni; per multi-gestione s’intende rendere facilmente gestibile il cambio di destinazione di un ambiente attraverso un agevole utilizzo della tecnologia. La concezione minimalista non comprende solo lo spazio abitativo, ma si confronta anche con lo spazio urbano nei confronti del quale si propone come minima invasività all’interno di un contesto dato, antropizzato o naturale che sia. Inoltre il concetto minimalista si estende a comprendere anche i materiali costruttivi, impiegati nell’ordine di pochi strettamente necessari e di massima semplicità tecnica nell’utilizzo e montaggio. Il Minimalismo artistico proiettato nel campo dell’architettura ha assunto un significato diverso, tanto che applicato a questa disciplina ne ha comportato la risemantizzazione del termine. Non si tratta più infatti di una semplice riduzione agli elementi essenziali dell’edificare, ma coinvolge una vera e propria filosofia della vita. Nell’accezione architettonica prevale la tendenza a possedere e fare solo quello che è strettamente necessario, essenziale. Si direbbe una filosofia da convento: difatti il Minimalismo si ispira allo zen giapponese, estendendolo non solo allo spazio fisico, ma anche mentale. Inserita nell’orizzonte socioeconomico del mondo contemporaneo la filosofia minimalista suona come una via alternativa e opposta all’orientamento dominante. Si tratta di un modo di evadere dagli eccessi del consumismo, dalla vita puramente materiale, dal caos, dal futile, per il perseguimento di una libertà intesa sia in senso fisico, come liberazione dall’eccesso di oggetti che opprimono l’ambiente della vita, sia in senso spirituale come congedo dall’oppressione psicologica delle preoccupazioni indotte dal sistema e acquisizione di momenti riservabili alla riflessione e alla meditazione. Contrariamente a quel che si potrebbe essere indotti a pensare questo stile esistenziale non porta a vivere in uno spazio vuoto o sterile possedendo un numero predefinito di oggetti, ma permette di concentrare le proprie forze e la propria mente sulle cose più umili ed accessibili all’umano, cose che danno senso e valore alla vita. Nei tempi attuali il Minimalismo si è evoluto, o sarebbe meglio dire è andato estremizzandosi in nuove proposte di modelli abitativi, consistenti in “casette” mobili varcanti i confini che separavano le abitazioni dalle roulottes, dimore inferiori a una decina di metri quadri, realizzate in osservanza dei principi di risparmio spaziale, materiale ed economico. Su questa strada il pensiero minimalista ha incontrato quello ambientalista dando origine alle Hobbit Houses.

ARCHITETTURA UTOPICA E RADICALE

Il Razionalismo Architettonico prevedeva la programmatica risoluzione dell’architettura nell’urbanistica, dunque la trasformazione della figura professionale dell’architetto in quella dell’urbanista. Questa metamorfosi implicava la rinuncia al lavoro tradizionale di progettazione dei singoli edifici per passare all’individuazione di funzioni, aree, categorie, tipologie per istituire un livello ragionato di vivibilità nelle città che si andavano ricostituendo dopo la seconda guerra mondiale. La storia ha dimostrato che l’evoluzione pensata dai padri del Razionalismo Architettonico non è andata nella direzione da loro immaginata. Negli anni settanta l’Architettura Utopica ribalta il rapporto per cui è l’urbanistica a risolversi nell’architettura. A dimostrazione di quanto vanno teorizzando, i sostenitori di tale tendenza si prodigano nell’ideare intere città fatte di macrostrutture. L’Utopismo nasce tra gli anni sessanta e settanta allorquando le poetiche dell’incomunicabilità e del rifiuto sviluppatesi soprattutto in pittura fanno la loro comparsa anche in architettura, comportando quale conseguenza l’insorgere di un paradosso. La disciplina costruttiva ha come caratteristica precipua la trasformazione dell’idea in realtà concreta e fruibile. La pittura può anche decidere di non esprimersi mediante quadri comprensibili, si tratta sempre di una attività senza utilità pratica, ma un progetto che decide di non concretizzarsi in una realtà fruibile crea qualche problema. L’idea di fondo dell’Architettura Utopica è quella di estendere il concetto di architettura a tutto l’ambiente di vita e non solo al costruito, comprendendo così anche il design, la moda, l’arte più in generale. Sua caratteristica precipua è il dare più importanza al progetto che all’opera finita. In ciò si accosta ideologicamente all’arte concettuale. Il limite di tale indirizzo sta nel fatto che non si capisce più dove inizia e dove finisce l’architettura; l’assunto non lascia spazio a dubbi: tutto può essere architettura. Una tale conclusione genera una diaspora identitaria, per cui molti architetti non sono più tali nel senso tradizionale del termine, ma si trasformano in operatori estetici. L’altro limite consiste nel fatto che la tendenza si esaurisce in un’infinita produzione di idee irrealizzabili dove si scatena di tutto: fantasia, ironia, propensione al grottesco e al visionario. Al contrario, allo stato delle realizzazioni concrete non si avvertono i risultati delle idee proclamate nelle esperienze fattuali. Fra i nomi più rilevanti vanno menzionati Bill Katavolos, Walter Jonas, Yona Friedman, Paul Maymont, Arata Isozaki e Kiyonori Kikutake, questi ultimi allievi di Kenzo Tange. Ma a raggiungere il massimo della notorietà è il gruppo londinese degli Archigram, il quale si serve dei linguaggi derivati dalla cultura dei media, cartoons, riviste, telegrammi (‘archi-grams’), ovvero gli stessi delle raffigurazioni pop, per demistificare il progetto e trasformare l’architettura in un processo di comunicazione in linea con le caratteristiche di consumismo e massificazione della nuova realtà urbana. In Italia si sviluppa negli stessi anni una corrente analoga denominata Architettura Radicale. Il termine radicale è di Germano Celant, noto anche per quello di Arte Povera. Le prime manifestazioni dell’Architettura Radicale risalgono alla fine degli anni cinquanta: è una delle tante correnti che nascono in controtendenza al razionalismo diffuso. Punto critico fondamentale è il rapporto forma/funzione, avvilito da applicazioni impersonali e ripetitive. Visioni di città, agglomerati edilizi, interventi sul territorio, hanno in comune il fatto di essere progetti fondati su scenari ipotetici. Il radicalismo più agguerrito non si consuma in Italia, ma in Austria, dove si rivendica un’architettura assoluta, completamente svincolata dalla funzione, per un recupero di valori emozionali e irrazionali, quindi nel 1968 Hans Hollein arriva a dichiarare che “tutto è architettura”. In questa affermazione estrema c’è la volontà di annullare i confini disciplinari e adottare linguaggi estranei a quelli tradizionali dei progetti, quali scritti, performance, body art, installazioni spaziali, filmati, così come design di ambienti e di oggetti, di architetture possibili. In Italia le sperimentazioni di Hollein e Walter Pichler, esposte alla mostra Architektur, Vienna 1963, sono di stimolo ai gruppi fiorentini Archizoom Associati e Superstudio (dicembre 1966), in cui le contaminazioni linguistiche vengono intese come strumento di contestazione della disciplina, per un diverso modo di vivere l’architettura e l’urbanistica. La particolare importanza assunta dal design nelle realizzazioni radicali ha spinto l’architettura a caricarsi di elementi irrazionali fino ad allora rimasti esclusi. Specialmente in Italia dove risulta fondamentale la figura di Ettore Sottsas, principale artefice dell’interpretazione radicale all’interno dei confini peninsulari. Come prevedibile il radicalismo italiano dalla metà degli anni settanta sfocia nella ricerca anti-design e solo dopo riprenderà il suo percorso formativo di nuove generazioni di architetti, designers e artisti. Negli anni novanta è già revival, tuttavia il fenomeno radicale non mancherà di produrre delle eco nell’architettura sperimentale contemporanea.

ARCHITETTURA POSTMODERNA

New Orleans, Piazza d’Italia
Charles Moore
VEDUTA D’INSIEME (1979)

San Francisco, Museo d’Arte Moderna
Mario Botta
ESTERNO (1992/1995)

Stoccarda, Nuova Galleria di Stato
James Stirling
ESTERNO (1985)

In architettura il termine post moderno è più che mai ambiguo. Etimologicamente andrebbe applicato a tutte le costruzioni realizzate a partire dagli anni sessanta del secondo dopoguerra ad oggi, tuttavia stilisticamente si impiega solo per indicare alcuni edifici varati in tale periodo i quali presentano segni evidenti di citazionismo, ma non è così per tutti. Nel settore regna la più totale confusione a causa della trasversalità delle esperienze architettoniche contemporanee.
Il Postmodernismo si leva contro uno dei punti considerati deboli dello stile internazionale e cioè il fatto che in esso non si tiene in alcun conto della storia nazionale. Cosicché nello stile post moderno la storia riappare come apparato decorativo in qualità di stralci di memoria. Risultato? Tra sontuosi grattacieli ecco levarsi colonne classiche, frontoni, archi e capitelli.
Le prime esperienze postmoderne hanno iniziato a manifestarsi già dagli anni cinquanta del Novecento, ma confluiscono in un movimento identitario nella seconda metà degli anni settanta. L’architettura postmoderna vede i natali in America e in Europa, trovando seguaci anche in Italia.
Con l’introduzione di elementi formali classici o comunque dedotti dal classicismo i sostenitori del Postmodernismo non intendono un ritorno al classico dopo l’era dell’architettura moderna, né mirano a rimeditare lo spessore storico della tradizione. Non si tratta dunque di un neo “ritorno all’ordine”, l’utilizzo di elementi greco-romani serve in generale ad aprire un dialogo fra post moderno e pre moderno.
I giudizi sul citazionismo postmodernista sono molto contrastanti. Secondo i critici più esclusivisti il classicismo estremamente semplificato sembra identificare una nuova corrente eclettica, imparentata con quella di fine Ottocento. A riprova di ciò risulta molto istruttivo considerare due opere inquadrate nello stesso stile ma molto distanti tra loro. Nel Museum of Modern Art di San Francisco in California dello svizzero Mario Botta si evince la franca volontà di continuare oggigiorno ad onorare la tendenza razionalista; nella Nuova Galleria di Stato di Stoccarda e nel monumentale palazzo per uffici di Poultry Street di Londra, terminato nel 1998, dopo la sua morte, lo scozzese James Stirling (1926-1992) si muove tra esperienze decostruttiviste ed espressioniste del primo dopoguerra.

HIGH TECH

Parigi, Centro Pompidou
Richard Rogers – Renzo Piano
ESTERNO (1971/1977)

L’High Tech (Alta Tecnologia) è una corrente architettonica sviluppatasi negli anni settanta; è nota anche con i termini di Espressionismo strutturale e Postminimalismo strutturale (Lara-Vinca Masini). Anche l’architettura high tech nasce come reazione al modernismo razionalista, ritenuto ormai privo di originalità, ripetitivo, anonima applicazione di forme standardizzate, prioritariamente votato alla ricerca della massima funzionalità nella massima economicità. Contemporaneamente però si pone quale sviluppo delle idee moderniste supportate da una maggiore innovazione dal punto di vista tecnologico e strumentale. Praticamente, ferma restando la ricerca della funzionalità, la tendenza si orienta verso obiettivi estranei al movimento moderno quali: sorprendere mediante l’edificazione di fabbriche completamente avulse dal contesto; magnificare l’aspetto crudamente tecnologico degli stabili; esprimere una rinnovata fiducia nelle potenzialità della tecnologia a migliorare il mondo; tutti elementi irrazionalisti.
Tensostrutture, sbalzi inverosimili, scale mobili, teleschermi, impianti bene in vista diventano i vocaboli identificativi del linguaggio high tech. Le caratteristiche principali che lo contraddistinguono sono: indipendenza tra funzione interna e forma esteriore; polifunzionalità e flessibilità degli spazi; utilizzo frequente della prefabbricazione; trasparenza; esposizione enfatica delle componenti tecniche e funzionali della costruzione. Quattro sono gli elementi del linguaggio specifico: la maglia, il tunnel monodirezionale, sviluppato sia in senso orizzontale che verticale, la cupola geodetica.
In Italia il concetto high tech appare per la prima volta nel Manifesto dell’Architettura futurista del 1914, mentre il movimento si sviluppa sempre nei primi anni settanta, in linea col resto d’Europa.
L’High Tech annovera fra i suoi maggiori esponenti l’inglese Richard Rogers e Renzo Piano. Insieme firmano il Centre Pompidou di Parigi, un museo che ospita una delle più imponenti raccolte di arte contemporanea del mondo. È un immenso edificio fatto di acciaio, alluminio, vetro (di cemento ce n’è poco) che sembra ancora in fase di costruzione, con la carpenteria ancora da disarmare. Di Renzo Piano è anche il Kansai International Airport di Osaka: non un semplice aeroporto ma un’intera isola artificiale. Le sue strutture possenti riprendono l’idea nerviana della forma qualificata dalla statica. Altri esempi di High Tech sono la modernissima stazione di Lione Satolas costruita fra il 1989 e il 1994 su progetto di Santiago Calatrava, spagnolo, quindi la stazione di Lille in Francia di Jean Marie Duthilleul.

DECOSTRUTTIVISMO

Bilbao, Museo Guggenheim
Frank O. Gehry
ESTERNO (1992/1997)

Venice, Los Angeles, Chiat/Day Building
Frank O. Gehry
ESTERNO (1985/1991)

Il Decostruttivismo è la più clamorosa antitesi al Postmodernismo, ma al di là di esso del Razionalismo Architettonico e di quella tendenza che viene ritenuta la sua continuazione: l’High Tech. Il fenomeno si manifesta in via ufficiale durante una mostra tenutasi nel 1988 a New York. In quella occasione l’organizzatore, l’architetto Philip Johnson (1906-2005), parlò di “Deconstructivist Architecture”.
In questo indirizzo c’è la propensione ad inserire forme sempre più liberamente inventate e articolate che danno l’idea di equilibrio precario, momentaneo, al posto di quelle geometriche, perfette e rispondenti a ferree logiche matematiche. Caratteristiche distintive sono la presenza di spazi concavi e convessi che si intersecano fra loro a formare un complesso volumetrico dal carattere irregolare. Questo gioco da origine ad un movimento sgangherato di masse che suscita l’idea di un edificio che sta lì lì per crollare, disgiungersi similmente ai petali di un fiore che sta appassendo, sconnettersi e perdersi i pezzi come se fosse investito da un ciclone, destrutturandosi per l’appunto. Variabilità e disordine è la regola, per seguire la quale spesso si esagera nel deforme, nel paradossale e nella sovrabbondanza di materiale. Uno degli aspetti più singolari che identificano la Deconstructivist Architecture è l’introduzione ricorrente di pareti che sembrano aprirsi come fogli di carta. La variabilità riguarda anche la “pelle” cromatica dell’edificio. Questa infatti è spesso costituita di scaglie di titanio le quali riflettono la luce ambiente, registrandone i continui cambiamenti. Tale accorgimento conferisce all’immobile un colore diverso a seconda del tempo, dunque un aspetto mutevole.
Secondo alcune interpretazioni il Decostruttivismo si riallaccia storicamente al Costruttivismo russo degli anni venti, completandone idealmente il radicalismo avanguardistico con l’esasperazione della destabilizzazione della purezza formale.
Al contrario del Movimento Moderno che critica, la Deconstructivist Architecture non pone i temi sociali alla base del proprio interesse, risultando così nell’esercizio un’architettura puramente edonistica.
Uno degli architetti che impersonano al meglio questa tendenza è il canadese Frank O. Gehry, classe 1929. Fra le opere più significative ci sono il Museo Guggenheim di Bilbao, in Spagna, e il Chiat/Day Building, chiamato anche Binoculars Building, a Venice, Los Angeles. La prima opera (seconda in ordine cronologico) è considerata il suo capolavoro. L’edificio presenta una serie di criticità di cui le principali sono rappresentate dall’elevato costo riferito ad una costruzione sperimentale e l’impatto negativo sull’ambiente circostante a causa della sua architettura “scomposta”, nonché all’inidoneità funzionale. L’inaspettato successo del Museo a livello mondiale fece cadere tutte le critiche, portando alla città basca enormi benefici di immagine e di turismo, ripagando ampiamente l’investimento. Commissionato dalla Solomon R. Guggenheim Foundation il Museo faceva parte di una radicale rivalutazione urbanistica della città con edifici istituzionali, una nuova metropolitana e un aeroporto internazionale. Gran parte delle superfici esterne dell’opera museale progettata da Gehry è ricoperta con lastre di titanio su una struttura che si avvolge e si svolge su sé stessa, mettendo in evidenza la plasticità dei suoi volumi i quali, seppur deformati e asimmetrici, mettono ordine nel disordine. La collezione permanente del museo comprende opere d’arte del Novecento, europee e americane, di arte contemporanea basca e spagnola. All’interno vengono organizzate anche importanti mostre temporanee.
Nella seconda opera Frank inserisce un binocolo gigantesco, alla cui realizzazione chiama a partecipare il coetaneo Claes Oldenburg e Coosje van Bruggen (1942-2009). È un edificio per uffici caratterizzato innanzitutto dall’insolita facciata, ma anche dal blocco che sorge alla destra, dove una serie di mezzi pilastri/mensola si susseguono serrati in modo scomposto.

REGIONALISMO CRITICO

Il Regionalismo Critico nasce in contrapposizione all’internazionalismo modernista. Non è un ritorno all’architettura tradizionale, non vuole opporsi al progressismo attuale, non cerca di creare una nuova cultura, ma adattare la cultura moderna alle caratteristiche fisiche, ambientali e culturali del posto. Un modo per soddisfare tale principio è quello di utilizzare i materiali locali e le tecniche costruttive legate alla tradizione. Non va confuso con il Postmodernismo. Kenneth Frampton la definisce un’architettura di resistenza; mantiene i moderni standard di sostenibilità, ma è fatta per stare dove sta, non ovunque. È lui, critico britannico, a pubblicare nel 1983, sulla rivista Perspecta dell’Università di Yale, il saggio “Verso un regionalismo critico: sei punti per un’architettura di resistenza”, in cui difende l’indipendenza culturale, economica e politica dell’architettura in una realtà globalizzata. Frampton sostiene che partendo da specifiche condizioni del contesto locale si possa sviluppare una nuova architettura. Ineccepibile dal punto di vista teorico la sua dottrina suscita perplessità nell’applicazione pratica, o per lo meno nelle slanted houses, strutture dove il legame tra casa e paesaggio è portato all’estremo fino al punto da negare alla costruzione il suo naturale appiombo sul terreno.

L’ARCHITETTURA DEL DUEMILA

Con l’avvento del terzo millennio la spinta rivoluzionaria radicale passa nell’architettura contemporanea, meno idealistica e più pragmatica. L’utopismo diventa realtà, i mega-interventi sono pratiche concrete, le creazioni fantasiose hanno trovato chi le finanzia e l’anti-razionalismo è diventato anti-cartesianesimo. Vengono progettati e poi costruiti complessi edilizi titanici che non solo sono organizzati internamente come dei piccoli quartieri ma di questi ne hanno anche la capienza. Delle utopiche città sospese o sotterranee ciò che si traduce in realtà sono le cupole geodetiche, i tendoni isolanti, i grattacieli svolgenti funzioni di contenitori trasparenti e climatizzati di complessi spaziali polifunzionali. Tramontata l’esigenza difensiva la città diventa spazio organizzato principalmente in funzione della comunicazione sociale. Il progresso tecnologico sempre più rapido e inarrestabile e l’invenzione di nuovi materiali abbattono i limiti che ostacolavano l’invenzione formale: la tecnologia industriale può fare tutto, anche rendere reale la fantascienza. L’invenzione formale torna come principio nella progettazione di un’urbatettura che si avvale di strutture rispondenti ai bisogni psicologici di un’utenza concreta e non teorica, non meno delle esigenze funzionali, ma che tuttavia non si preoccupa delle finalità politico-sociali che implica la disciplina costruttiva. Risultato? Nuove regge per nuovi Re Sole, ecomostri abbandonati, mega-ville trasformate in set scenografici per film e servizi di moda, quartieri nuovi di zecca deserti, o, peggio, degradati, sprechi di materiale, spazi e denaro, spesso pubblico, architetti super pagati soltanto per le griffe. Questa architettura non è fatta per migliorare la vita di tutti; la residenziale privata è per chi vive sopra le righe, la pubblica per magnificare i finanziatori, spesso le istituzioni con i soldi dei cittadini, a volte i privati. Dal punto di vista linguistico domina quello che si può definire uno pseudo-neogotico-barocco. Nato come rivolta contro i canoni cartesiani, il linguaggio architettonico contemporaneo è diventato a sua volta un canone: il canone che esprime l’avvenuta integrazione della modernità rivoluzionaria nello status quo. La semantica di questa architettura, come l’incomunicabilità artistica, ha perso la sua carica eversiva, non ha più ragione d’essere se non la semantica del linguaggio dell’arte integrata. Come nella Roma imperiale, l’architettura contemporanea pseudo-neogotica-barocca si esprime solo nelle moderne domus, nei moderni colosseum, nei moderni forum, nei moderni horrea: ovviamente una società come quella borghese non può che identificare i propri monumenti con i mercati. Tuttavia dietro tanta magnificenza si nasconde il pericolo che molte di queste architetture diventeranno anzitempo dei ruderi, con l’unica differenza che di loro, forse, non resterà alcuna memoria, poiché prive di anima.

BLOB ARCHITECTURE

Graz, Kunsthaus
Peter Cook – Colin Fournier
ESTERNO (2003)

La Blob Architecture è caratterizzata dall’adozione di forme organiche, amebiformi, rigonfie. Il nome allude esplicitamente al film di fantascienza Blob (Fluido mortale) del 1958, interpretato da Steve McQueen (1930-1980). L’architettura blob è un’architettura computer assistita; i seguaci di questa corrente si servono largamente di programmi tipo CAD per i loro progetti.
Il termine risale al 1995 e va attribuito all’architetto statunitense Greg Lynn. Fa il suo ingresso ufficiale nel 2002 allorquando compare sul New York Times Magazine.
I precedenti storici più recenti vanno ricercati nei disegni utopici del 1960 firmati dal gruppo inglese Archigram, mentre quelli più remoti nei disegni organici degli espressionisti tedeschi come Bruno Taut (1880–1938) e, soprattutto, Hermann Finsterlin (1887–1973).
Sebbene agli occhi dei profani appare come una novità assoluta, in sostanza le strutture blob sviluppano il concetto di copertura geodetica in cui l’edificio è pensato come una costruzione libera, ammantata in un grande involucro, spesso una facciata multimediale. Questo elemento architettonico, fatto di vetro acrilico intelaiato su una gabbia metallica, non svolge semplicemente le funzioni primarie di rivestimento, protezione e illuminazione, ma è utilizzato come grande schermo per film e animazioni. Sostanzialmente la Blob Architecture è una singolare fusione tra architettura, design, media, computer art, cinema e fotografia, una tendenza che si pone come continuatrice di quella linea espressiva che persegue l’idea di fusione delle arti.

ARCHITETTURA SOSTENIBILE

Milano, Bosco verticale
Stefano Boeri
ESTERNO (2014)

Malaga, prototipo di architettura sostenibile
Juan Blázquez – Oficina Técnica Municipal Ayuntamiento Alhaurín de la Torre
PROSPETTO LATERALE (2016)

Le emergenze sanitarie provocate dall’inquinamento, il problema del rifornimento energetico legato alla limitata disponibilità dei combustibili fossili, il conseguente sviluppo delle idee ecologiste hanno fornito gli elementi fondamentali per l’insorgenza di una delle tematiche più sentite in campo architettonico negli ultimi anni, il rapporto tra ambiente antropico e ambiente naturale, spesso conflittuale. La ricerca di soluzioni per appianare il contrasto tra i due ambiti ha dato origine ad una specifica tendenza: l’Architettura Sostenibile. Questa corrente viene indicata anche con i termini di Green Building, Bioarchitettura o Architettura Bioecologica. Non si tratta di uno stile quanto piuttosto di un approccio culturale applicato a progetti finalizzati a limitare l’impatto con l’ambiente naturale: infatti sotto la stessa definizione rientra una copiosa varietà di edifici dagli aspetti architettonici più diversi come grattacieli, case mimetiche, invisibili, nonché apparentemente tradizionali e le pop-up houses, le case passive.
La Bioarchitettura non è una novità. Ha visto i natali negli anni settanta in Germania con la baubiologie (bioedilizia) i cui sostenitori sono stati i primi a capire che il problema del rapporto artificiale/naturale si risolve con l’adozione di materiali riciclabili e sistemi di approvvigionamento e consumo di energie rinnovabili. Tuttavia anche loro sono stati preceduti da Le Corbusier, il quale ha posto le basi di un’architettura dialogante con la natura attraverso soluzioni quali i giardini sul tetto, nei singoli appartamenti e nei condomini, il trattamento dei fabbricati come se fossero degli immeubles-villas, i pilotis per sollevare i blocchi edilizi e lasciar scorrere il verde liberamente sotto di essi, la libertà di pianta e facciata di svolgersi indipendentemente dalla struttura portante.
L’Architettura Sostenibile combatte gli sprechi e il degrado promuovendo il risparmio di risorse e il minimo utilizzo di materiali inquinanti, ovvero sposando il principio della decrescita e del limite. Non si accorda con un’economia intesa nel senso di consumo immediato e a basso prezzo, ma si schiera con un sistema che consente di evitare gli sperperi e la dilapidazione delle risorse naturali.
Privilegia le tecniche di costruzione “a secco”, l’uso di elementi modulari, il riciclo dei materiali, il recupero di strutture e edifici in disuso onde evitare il consumo di suolo e di materie prime, la riduzione di misure e accessori fatto salvo il comfort.
L’Architettura Sostenibile ha un obiettivo artistico: armonizzare l’estetica con le esigenze tecniche e funzionali degli edifici.
Le sue entusiasmanti finalità non devono comunque offuscarne i limiti, poiché al di là delle intenzioni occorre appurare se i giardini pensili degli anni Duemila salveranno il pianeta dalla condanna di avere davanti agli occhi mostri fatti di ferro e cemento.

ARCHITETTURA MIMETICA

Pawling, New York, Hobbit Hollow House
Jim Costigan
ESTERNO (2014-2018)

Compresa nella grande famiglia dell’architettura ecosostenibile, l’Architettura Mimetica nasce in contrapposizione a tutta l’architettura invasiva: Brutalista, High tech, Post-moderna, Decostruttivista, Blob. La poetica che ispira il mimetismo edilizio si può condensare in una riflessione fondamentale. Molti fabbricati contemporanei esaltano gli elementi costruttivi e i materiali tra cui primeggiano cemento e acciaio con scarso interesse per le criticità che creano all’ambiente. Spesso questi mostri edilizi soffocano il contesto che li ospita e non hanno riguardo alcuno per il preesistente. L’Architettura Mimetica si schiera contro tale atteggiamento aggressivo della strutturalità ostentativa delle super tecnologie, ricercando un’edilizia compatibile con la natura. Tra i sostenitori della mimesi architettonica c’è la convinzione che il mondo naturale può convivere col mondo artificiale, sapendo bene che le soluzioni sono diverse e quella mimetica, nella quale il costruito fa corpo unico con il naturale, è una delle tante, forse quella più sincera.


Bibliografia arte del periodo romantico o moderno

D. Diderot, Salons (1759-1781).

J. J. Winckelmann, Storia dell’arte nell’antichità (1764).

I. Kant, Critica del giudizio (1790).

G. Lukács, La teoria del romanzo (1920).

E. Cassirer, La filosofia dell’Illuminismo (1932).

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