FIRENZE
GLI ULTIMI GIOTTESCHI A FIRENZE
LA SCUOLA RIMINESE
BOLOGNA
MODENA
PADOVA


FIRENZE

Firenze, Orsanmichele
Andrea di Cione detto Andrea Orcagna
TABERNACOLO DI ORSANMICHELE (prima del 1350; secondo altri terminato nel 1359)
Marmo e mosaico

A Firenze nella seconda metà del Trecento il giottismo si fa linguaggio di moda. Supporto materiale al diffondersi di quella che è ormai diventata accademia è ancora Santa Croce e Orsanmichele.
Orsanmichele è una torre-loggia adibita a centro cittadino coperto per la pratica degli affari della borghesia mercantile fiorentina. La struttura architettonica sembra che si debba a Taddeo Gaddi (1290 c. – 1366), giottesco divenuto architetto per l’occasione. Astro del momento nella città gigliata è Andrea di Cione, detto l’Orcagna (1308 c. – 1368). Suo è il tabernacolo che orna la chiesa sita nel piano superiore della loggia.
Più di Giotto (1266 c. – 1337), Andrea è pittore, architetto e scultore, ma al contrario di lui non è il poeta che ha un suo messaggio ideale da comunicare alla società, bensì è il tecnico che risponde solerte a tutte le richieste della comunità. È il cantore attrezzatissimo, abilissimo, privo però di contenuti, o meglio, che fa della tecnica stessa il contenuto del suo fare arte. Le sue opere sono perfette nell’esecuzione, corrette nella rappresentazione dei soggetti, sapientemente equilibrate nella composizione di forme e colori, insomma sono un prodotto di altissima qualità ma anche di scarsissimo entusiasmo. Insieme ai fratelli Nardo (morto nel 1366) e Jacopo (1325-1399) affresca l’intera navata di Santa Croce, nonché il coro di Santa Maria Novella, ma ahimè il tempo e le calamità hanno inesorabilmente cancellato l’intero sforzo. Questi affreschi rivestono una particolare importanza dal punto di vista storico in quanto ci rendono più che mai evidenti gli ideali morali e sociali di quella stessa società di cui l’artista ne è il portavoce visivo.

Firenze, chiesa di Santa Maria Novella, cappellone degli Spagnoli
Andrea Bonaiuti detto Andrea da Firenze
TRIONFO DI SAN TOMMASO (1365 c.)
Affresco: particolare della decorazione parietale

Contemporaneo dell’Orcagna è il Buonaiuti (1319-1377). Le sue opere maggiori si trovano nell’altra chiesa-museo di Firenze, Santa Maria Novella, nel cosiddetto cappellone degli Spagnoli: in realtà la sala del capitolo del complesso domenicano che fa capo alla chiesa. In questo lavorone, Andrea traduce in un linguaggio pittorico moderno un contenuto letterario fornito da altri. La cura descrittiva e la sapienza tecnica qui non hanno altro scopo che quello di rendere attendibili i concetti che devono essere illustrati. Sembra, ma non è, una riedizione delle soluzioni ambrosiane nel Buono e Cattivo Governo. Infatti in Ambrogio messaggio ideologico, concettuale e forma sono tutt’uno, forma e contenuto sono uniti nella figura dell’artefice, in Andrea invece le due cose sono scisse: da una parte la regia, la mente, dall’altra la tecnica, la mano, l’artista.

Firenze, chiesa di Santa Croce, cappella Rinuccini
Giovanni da Milano
NASCITA DI MARIA (prima del 1365)
Affresco: particolare della decorazione parietale

Reagiscono al tecnicismo, brillante ma freddo e deproblematizzato degli Orcagna e del Buonaiuti, Giovanni di Jacopo di Guido, detto Giovanni da Milano (1325 c. – 1370) e il cosiddetto Giottino (1324 c. – 1372 c.), figlio di Stefano, pittore giottesco.
Giovanni da Milano, lo dice il nome stesso, proviene dalla Lombardia, recando seco le novità di questa terra. Passa da Firenze nel decennio compreso fra il 1360 e il 1370 e oltre a dipingere qualche tavola affresca la cappella Rinuccini in Santa Croce, con varie storie evangeliche.
Nel particolare con la Natività di Maria i personaggi, le pie donne che assistono Anna, sono giganti che si muovono al rallentatore in una strettissima stanza da letto. L’architettura c’è, ma è un interno domestico; il colore è squillante ma disteso; la linea è molto morbida ed è indirizzata a cogliere i sentimenti di intimità famigliare che inondano la scena.

GLI ULTIMI GIOTTESCHI A FIRENZE

Agnolo Gaddi (1350 c. – 1396), figlio di Taddeo, riduce a sterile accademia l’austero giottismo del padre. All’accademismo agnolesco si ribella Spinello Aretino (1350 c. –1410), ma è un’opposizione che non fa storia: il giottismo di fine secolo è ormai un filone saturo.

LA SCUOLA RIMINESE

Roma, Galleria Nazionale d’Arte Antica
Giovanni da Rimini (oggi attribuito ad un artista ignoto)
STORIE DI CRISTO (inizio XIV secolo)
Tavola, altezza cm. 71,5 – larghezza cm. 112

Urbino, Galleria Nazionale delle Marche
Maestro di Campodonico
CROCIFISSIONE (1345)

Affresco staccato (proveniente dalla chiesa di San Biagio in Caprile)

Parigi, Museo del Louvre
Pietro da Rimini
DEPOSIZIONE (1330/1340)

Tavola, altezza cm. 43 – larghezza cm. 35

Firenze non è, come si potrebbe essere indotti a credere, l’unica erede dei grandi artisti della prima metà del Trecento; altre città leggono e interpretano Giotto in maniera originale e problematica. Di fondamentale importanza per la diffusione del gotico toscano nell’Italia del nord è il nodo riminese. A partire dai primi decenni del XIV secolo domina in campo pittorico, e non solo, la tendenza allo sviluppo in senso cromatico del linguaggio giottesco, fatto di solidi volumi.
Non si sa se Giotto abbia mai messo piede a Rimini, né se vi abbia mai lasciato opere: il grande crocifisso che penzola dal soffitto del tempio Malatestiano è solo presunto suo, l’attribuzione non è certa. Tuttavia la sua presenza a Padova non tarda a procurare effetti di rilievo e si fa sentire in modo particolare nel momento in cui la massiccia richiesta di frescanti nel nuovo mercato che il francescanesimo è venuto creando spinge molti artefici riminesi ad abbandonare la carriera di miniatori per intraprendere quella di affrescatori e creatori di pale. La riconversione settoriale oltre che salvare l’artigianato riminese produce un salto di qualità nella cultura artistica del luogo, facendo balzare momentaneamente le botteghe romagnole all’avanguardia delle regioni del Nord Italia e facendole assurgere a ponte per la diffusione del giottismo in una regione ancora legata alla cultura bizantina.
Il passaggio dalla cultura iconica di matrice duccesca a quella rappresentativa di matrice giottesca è palpabile in una serie di opere di maestri attivi nella prima metà del Trecento. Nella tavoletta con storie di Cristo di Giovanni da Rimini, che si trova nella Galleria Nazionale d’Arte Antica, a Roma, è quanto mai evidente l’influenza di Duccio (1255 c. – 1319 c.), sia nella ripartizione in pannelli aurei che nel mezzo espressivo, il colore; per il resto Giovanni attinge da Giotto. Da lui apprende il senso della drammatizzazione e la strutturazione per volumi; da lui deriva il senso dello spazio come vuoto capiente. La citazione è diretta nel primo riquadro in basso a sinistra: la scena ricorda molto da presso il Compianto della cappella degli Scrovegni di Padova. Ma qui la profondità è ridotta, non c’è nessuna figura che da le spalle, e il profilo dei rilievi dietro gli astanti non equilibra il rapido precipitare delle linee in direzione del nodo visivo formato dall’accostarsi dei volti di Maria e Gesù, bensì lo accentua.
Quando si passa a considerare gli affreschi, come quelli che si trovavano nella chiesa di San Biagio a Caprile, allora il discorso cambia e la migliore soluzione al dilemma fra cultura fiorentina e senese sembra essere quella rappresentata da Pietro Lorenzetti (1280 circa-1348). Potrebbe sembrare quello dei maestri riminesi vero e proprio eclettismo e invece non lo è, in quanto, almeno nelle individualità maggiori, si avvertono delle indubbie note di sintesi personali.
Nella deposizione del Louvre, datata 1330/1340, ad esempio, Pietro da Rimini (morto nel 1345) dimostra di essere, anche lui, molto vicino all’altro Pietro, il Lorenzetti, ma al contrario di questi il riminese non trasforma la misura drammatica in tragica, la riqualifica nel fluente effondersi del colore attraverso cui partecipa affettivamente all’avvenimento.

BOLOGNA

Bologna, Museo Davia Bargellini
Vitale da Bologna
MADONNA DEI DENTI (1345)

Tavola, altezza cm. 157 – larghezza cm. 83

A Bologna c’è Vitale da Bologna. Di lui si hanno notizie dal 1334 al 1359. Del 1345 è la Madonna dei Denti. La Madonna dei Denti non è una semplice tavola devozionale, ma un’autentica dichiarazione di poetica.
La poetica di Vitale, all’opposto degli indirizzi dominanti nelle poetiche della metà del Trecento, invece d’impostarsi sulla fusione di Giotto e Simone Martini (1284 circa-1344), s’imposta sull’incompatibilità delle loro due visioni. Analizzando infatti la pala si possono notare alcune incoerenze stilistiche. Ad esempio il trono dove siede la Madonna disegna con i suoi braccioli e il sedile una rientranza tattile, chiaramente praticabile, ma la figura non entra in questo spazio, ne viene spinta fuori dal cuscino rosso scarlatto, contemporaneamente però viene richiamata indietro dal drappo disteso sullo schienale. I due devoti (probabilmente i committenti), dagli abiti color terra, sembrano ritratti al naturale, mentre la Madonna, in rapporto al contesto spazio-temporale, rimane una figura al di fuori, con quell’espressione assolutamente estatica, tutta presa nel suo alone aureo, alone creato dagli smalti del cuscino vermiglio, dall’oro del drappo e dal blu del manto. Infine il Bambino, robustamente plastico, sembra indeciso se ritrarsi nello spazio creato dal corpo della madre o protrarsi sul piano limite dove si trovano i devoti.

Bologna, Pinacoteca Nazionale
Vitale da Bologna
NATIVITÀ DI MEZZARATTA

Affresco staccato trasferito su tela (proveniente dalla chiesa di Santa Maria a Mezzaratta)

La stessa poetica si ritrova sperimentata in ambito narrativo, nella cosiddetta Natività di Mezzaratta. In questo affresco il caos è solo apparente. In realtà è il modo che ha Vitale di dire che le cose sono altro dalla logica umana; non sottostanno al suo ordine, tendono a rompere le linee prospettiche della rappresentazione giottesca per disporsi in gruppi dislocati alle estremità opposte del dipinto. Non è la massa a dare forma al vuoto informe; le figure non sono funzione dello spazio; sono loro, con la creazione di una mobilità convulsa, a determinarlo. In questo “presepe” tutto è instabile, tutto è agitato da un’oscura energia interiore che affiora e increspa la materia cromatica impedendo al colore di definire geometricamente la forma. La simmetria è rotta, i piani sono frantumati, la composizione esplosa. Il colore è denso, grumoso, contrastato; sull’intera vicenda sembra soffiare un vento impetuoso che tutto muove e tutto invade.

Bologna, Pinacoteca Nazionale
Vitale da Bologna
STORIE DI UN SANTO MONACO (quinto decennio XIV secolo)

Particolare
Tavola, altezza cm. 78 – larghezza cm. 38 (dimensioni del particolare)

L’originalità della visione vitaliana si conferma nelle Storie di un santo monaco. Non si sa a quale santo si riferiscono esattamente le storie, probabilmente a sant’Antonio, ma questo inconveniente non toglie assolutamente nulla al valore dell’opera.
Il racconto è strutturato per “spot” diremmo oggi: episodi brevi ed intensi, senza successione. Il santo non ha niente di eroico: resuscita i morti tirandoli su a forza di braccia; salva un impiccato contro il parere delle autorità cittadine, sostenendolo materialmente quando ormai il peso morto del condannato ha già piegato l’albero a cui è appeso. La luce illumina i frammenti; scorre veloce sulle figure mettendone in evidenza la nervosa fattura lineare; fissa gesti e sguardi come il flash di un’istantanea: niente di più lontano dai sistemi opposti di Giotto e di Simone Martini.
La fantasia di Vitale non è superficialità di pensiero, al contrario, è pensare che la realtà visiva è fatta di fenomeni che come tali hanno ugual peso nella definizione dell’insieme concepito come il luogo dei singoli episodi. E l’abilità di Vitale sta tutta nella capacità di cucire uno accanto all’altro questi frammenti di vita individuale. Un intellettuale dunque Vitale, originale e prolifico in una situazione che altrove tende ad isterilirsi. Il suo realismo empirico, libero da regole geometriche, dà linfa alla cultura padana, una cultura che trova la sua identità in una linea equidistante tanto dal modernismo classico dei giotteschi quanto dal modernismo gotico dei martiniani.

MODENA

Treviso, ex convento di San Nicolò, sala capitolare
Tommaso da Modena
I CARDINALI UGO DI BILLON E NICCOLÒ DI ROUEN (1352)
Particolari della decorazione parietale

Padova, battistero
Giusto de Menabuoi
STRAGE DEGLI INNOCENTI (1375/1377)
Particolare della decorazione parietale
Affresco, altezza mt. 1,50

Fra i tanti artisti padani che prendono spunto da Vitale da Bologna va ricordato Tommaso da Modena (1325 c. – 1379 c.). Da Vitale Tommaso prende il gusto di mettere sullo stesso piano realtà osservate da punti di vista diversi, il modo per dare risalto all’individualità delle cose in sé, come si vede, ad esempio, negli affreschi della sala capitolare del convento domenicano di San Nicolò di Treviso. Quando egli passa però a narrare storie come quelle di sant’Orsola, che si trovavano in origine nella chiesa di Santa Margherita, il racconto, al contrario di quello di Vitale, si fa estremamente lento e sincopato.
A Padova Giotto non lascia solo seguaci e interpreti del posto, ma crea un canale aperto agli scambi culturali fra la città veneta e Firenze. È infatti fiorentino Giusto de Menabuoi (1330 c. – 1390 c.) che lavora nel battistero e nella basilica del Santo. In lui è evidente l’impostazione giottesca per masse, ma si dimostra molto permeabile all’interpretazione coloristica data dai senesi dell’impostazione del maestro di Vespignano, nonché sensibile a Giovanni da Milano, soprattutto nelle ambientazioni interne.
Con il Guariento (1310 c. – 1370 c.) il linguaggio giottesco subisce una decisa inflessione in senso bizantino. Ma non si tratta di un’involuzione, bensì di una forte pressione della committenza feudale. Nello stesso tempo si completa proprio a Padova lo sviluppo in senso naturalistico dello storicismo del maestro fiorentino. A compiere il passo è Altichiero di Zevio (1330 c. – 1390 c.).

PADOVA

Padova, oratorio di San Giorgio
Altichiero di Zevio
DECOLLAZIONE DI SAN GIORGIO (1380)
Particolare della decorazione parietale
Affresco, altezza mt. 3,07 – larghezza mt. 2,35

Altichiero muove da Tommaso da Modena, ma se ne distacca per un empirismo più acuto e una sensibilità cromatica più sottile, qualità che gli permettono di cogliere la natura nella sua infinita varietà dei suoi aspetti particolari; con lui la naturalezza giottesca si trasforma in naturalismo testimoniale.
L’impostazione dello spazio pittorico è prospettica, ma, sebbene concisa, l’ambientazione della storia è quanto mai ampia a comprendere al suo interno le cose minime quanto le massime: le figure e i dettagli del fogliame, gli oggetti vicini e lontani, gli episodi principali e quelli secondari.
Nella Decollazione di san Giorgio, dell’oratorio dedicato al santo, in primo piano, assiepate a semicerchio intorno al corpo piegato del martire, si dispone uno stuolo di persone, individuate una ad una nelle fisionomie e nelle espressioni. Dietro di loro si erge, a chiudere l’orizzonte, nascosta, una rupe boscosa a cui fa riscontro una città turrita: la natura selvaggia e quella antropizzata. Figure e sfondo sono collegati dalle lance degli armigeri che si innalzano verticali, parallele, con chiaro rapporto formale alla verticalità delle due muraglie, urbana e naturale. Così come nell’ordine della natura non si trascura il particolare, anche nell’ordine della storia non si tralascia l’aneddoto. Infatti nella flagranza del dramma che si sta consumando, con il carnefice pronto a sferrare il colpo mortale, l’assistente pronto a raccogliere la testa del martire in un panno, Altichiero non manca di annotare l’esortazione di un vecchio a far recedere il santo dalla fede dichiarata né la premura di un padre ad allontanare il suo bambino dal luogo dell’esecuzione.