IL NEOAVANGUARDISMO
LE PRINCIPALI PROBLEMATICHE DELL’ARTE DEL SECONDO DOPOGUERRA
LA QUESTIONE STRUMENTALE
LA QUESTIONE MORALE
INCONCILIABILITÀ FRA ARTE E INDUSTRIA
LA QUESTIONE POLITICA E COMMERCIALE
GLI SVILUPPI DELLA QUESTIONE TECNICA NELLA SECONDA METÀ DEL NOVECENTO
CONTRIBUTO DELLE CORRENTI D’AVANGUARDIA ALLA DEFINIZIONE DELL’ARTE NELL’ATTUALE SOCIETÀ DEI CONSUMI

ARTE ASTRATTA E INFORMALE
CO.BR.A
NICOLAS DE STÄEL, SUTHERLAND E BACON

LA SCULTURA TRA FIGURATIVO E ASTRATTO
L’ARTE ITALIANA NEL SECONDO DOPOGUERRA: LA SCULTURA
ASTRATTISMO E INFORMALE NELLA PITTURA ITALIANA
LA OP ART IN ITALIA
ARTE INTERATTIVA
POESIA VISIVA

LE INSTALLAZIONI
RELAZIONE TRA FUNZIONALISMO E INSTALLAZIONI
ARTE POVERA

BODY ART
L’ARCHITETTURA DEL SECONDO NOVECENTO: IL DOPOGUERRA
L’ARCHITETTURA NEOESPRESSIONISTA
IL RAZIONALISMO ITALIANO


IL NEOAVANGUARDISMO

Il ritorno alla vita civile nel secondo dopoguerra riaccende con toni ancora più concitati e aspri la polemica fra arte e società delineatasi all’inizio del secolo e deflagrata nel periodo compreso fra i due conflitti mondiali. Il motivo del dissidio è sempre lo stesso: l’incompatibilità della creatività artistica nella moderna società tecnologica e industriale borghese. Anche i termini sono gli stessi che nel primo Novecento: l’arte può prosperare solo dove c’è libertà espressiva ed è accessibile a tutti, condizioni che vengono meno in una società dove prevalgono le ragioni politiche ed economiche, nonché gli interessi privati su quelli della collettività. Pertanto, nella nuova realtà pragmatica e progressista, sebbene prodiga in quanto ad occasioni di inserimento e, col mercato privato, garante dell’autonomia artistica, gli operatori estetici invece di integrarsi si chiamano fuori o, peggio, si mettono a remare contro.
Al fenomeno che vede il ritorno massiccio della contestazione, impersonata da varie correnti, tutte proiettate verso il rinnovamento linguistico, si dà il nome generico di neoavanguardismo.

LE PRINCIPALI PROBLEMATICHE DELL’ARTE DEL SECONDO DOPOGUERRA

Cinque sono le principali problematiche che stanno alla base della polemica. Tutte vecchie questioni, ma rinnovate nelle manifestazioni esteriori, sempre più aspre ed eclatanti. La prima e più importante è la questione strumentale, quindi viene la questione tecnica, quella morale, quella che potremmo chiamare la questione commerciale e infine la questione politica. Il primo problema è la principale causa della crisi dell’arte nell’epoca attuale; il secondo è stato e rimane l’argomento che costituisce il più significativo oggetto di dibattito e divisione fra le varie correnti; la questione morale include quella politica e sale di tono con il consumismo e il totalitarismo; quella commerciale nasce con il collezionismo d’autore.
La priorità data a queste problematiche caratterizza gli indirizzi estetici delle varie correnti attive nell’area culturale occidentale, i quali oscillano fra un’arte tutta concetto (Arte Concettuale) e un’arte tutta manualità (Iperrealismo). Comune ai diversi movimenti è l’idea che l’esperienza artistica è unica e irripetibile ed è la sola ad esprimere il diritto dell’individuo ad esistere contro la tendenza dominante nella società tecnologica e industriale intenzionata ad annullare il valore del singolo per favorire l’anonimato di massa: in altri termini l’arte rappresenta il modo più profondo e viscerale per manifestare la libertà espressiva individuale.
Le tendenze principali dell’arte della seconda metà del Novecento possono essere ricondotte a due comportamenti essenziali: continuare a fare sperimentazione visiva, ostinandosi a produrre valori positivi, indipendentemente dall’utilizzo che ne potrà fare la società, o proseguire sulla strada tracciata da Dada di sospensione di tutti i valori positivi in favore di un rafforzamento dell’idea di un’arte come puro accadimento, portando gli interventi a forme di protesta sempre più spettacolari quanto più i valori positivi si vanno estinguendo. Il risultato è un panorama artistico quanto mai variegato, altalenante fra comunicabilità e incomunicabilità.
Prima di passare ad esaminare le questioni di cui detto in premessa è bene precisare un punto fondamentale e cioè che gli artisti di cui ci occuperemo in questa parte del racconto performante (che poi sono gli stessi di cui si interessa la storia dell’arte ufficiale) sono solo i dissidenti, i soggetti “inorganici” che operano in un contesto politicamente democratico, dove vige uno stato di diritto, un regime economico fondato sulla forza trainante dell’industria, una cultura dominata dalla scienza e dalla tecnica. Ma è bene precisare che non esistono solo loro, esistono anche quelli che rinunciano all’autonomia per mettersi al servizio dell’apparato produttivo della società. Anzi sono proprio questi artisti che rappresentano il grosso del professionismo moderno, nonché i più attrezzati dal punto di vista tecnico; non solo, ma sono anche quelli che hanno superato lo scoglio dell’incompatibilità fra libertà espressiva ed esigenze della società nel senso di aver rinunciato alla propria libertà a favore del benessere comune. Il motivo per cui la storia dell’arte in generale si occupa di quella categoria di artefici che ha condotto l’attività creativa a produrre cose apparentemente demenziali è che gli altri, gli integrati al sistema, non compiono un’esperienza estetica libera, pertanto le loro opere, rispondendo alle regole dettate dal mercato, non sono sostanzialmente diverse dalle opere accademiche o propagandistiche dei Paesi a regime totalitarista in cui si risponde a regole dettate dagli ambienti accademici o decise dal potere politico.
Precisato ciò iniziamo ad esaminare la prima problematica, la questione strumentale.

LA QUESTIONE STRUMENTALE

Per le generazioni di artisti del primo Novecento il mondo moderno era un mondo da progettare, un idea da realizzare, per quelle della seconda metà è una realtà concreta ed operante. Prima della guerra il modernismo era una realtà da definire; le avanguardie vivevano in una situazione in cui il futuro faceva fatica ad imporsi, legati così come si era, in quel periodo, al passato. In una situazione siffatta l’attività creativa che si proiettava nel domani continuava a svolgere il ruolo di sempre: mostrare una dimensione possibile, alternativa a quella ordinaria.
Dopo la guerra il futuro diventa il presente, un presente realizzato dalle forze congiunte di scienza e tecnica. Dirompe così nuovamente sulla ribalta della storia il problema principe dell’epoca romantica: minata da scienza e tecnica la funzione sovrana dell’arte, ovvero quella di manifestare una dimensione alternativa a quella ordinaria, potrebbe venire a vanificarsi, ma non è così. Il presente, moderno, è completamente diverso da come ce lo si aspettava; la modernità è tale solo perché ci sono più mezzi, mentre i problemi etici, primo fra tutti lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, continuano né più né meno ad esistere intatti come nel buio Medioevo. Il mondo della modernità scientifica e tecnologica si va sempre più qualificando come un mondo ad un’unica dimensione, un mondo dove non c’è più posto per la fantasia: che bisogno c’è della fantasia se scienza e tecnica possono realizzare qualsiasi sogno. Tuttavia scienza e tecnica non possono far nulla per impedire l’affermarsi di un universo fatto di soli affari, dove si perde insieme alla bellezza anche la salute.
Questa amara constatazione porta l’attività creativa a radicalizzarsi su due schieramenti opposti: da una parte c’è un’arte sempre più integrata al sistema che lo coadiuva nella sua politica economica di crescita senza fine, dall’altra c’è un’arte sempre più impegnata nel compito di contrastarne gli effetti degenerativi e mortificanti. La libertà d’espressione garantisce la diversità e dove c’è diversità non ci può essere massa, e dove non c’è massa non ci può essere neanche industria, dunque la libertà espressiva è d’impaccio al mondo industriale e tecnologico borghese.
Per le neoavanguardie non è più tempo di pensare a mondi ideali, diversi, da porre a modello alternativo di quello reale, è tempo di far sopravvivere l’idea che esistono anche realtà alternative, modi diversi di vivere; non esiste solo il modello borghese, e l’arte di questi modi diversi ne è diretta testimonianza. Se non ci si vuol rassegnare ad un universo di soli affari, non rimane altro che continuare a combattere l’arte funzionale al sistema con gli stessi mezzi attraverso i quali si esprime, oppure proseguire a fare arte come libera espressione di pura poetica, indipendente da qualsivoglia utilità. In ogni caso comunque sarà arte di contestazione.

LA QUESTIONE MORALE

La questione morale concerne il conflitto tra libertà propria dell’arte e necessità propria dell’apparato produttivo, ovvero la crisi nei rapporti fra arte e società dovuta alla tendenza dell’attuale sistema a trasformare l’attività creativa da strumento liberatorio e formativo di coscienze a mezzo di conformismo comportamentale e di “crescita” economica. La collaborazione con le fabbriche che nelle idee dei modernisti doveva servire a dare un’anima alla società industriale e tecnologica si trasforma in dipendenza degli artisti dall’imprenditoria per soddisfare le esigenze del sistema capitalistico. Il problema, lo ricordo brevemente, è sorto con la nascita della nuova era tecnologica e industriale. Dal momento della sua separazione, avvenuta nel corso del XVIII secolo, l’arte si è mossa al fianco della scienza per contribuire alla costruzione di una civiltà nuova, moderna, fondata sul controllo e sull’apprezzamento delle cose. La volontà della grande borghesia imprenditoriale di perpetuare il modello industriale capitalistico, però, in barba ad ogni ideale, ha prodotto il “consumismo”, che consiste nel lavorare per produrre beni programmati per essere consumati in breve tempo, allo scopo di perpetuare il bisogno di consumo e quindi la necessità di lavorare, cioè consumare per produrre e non già, come parrebbe logico, produrre per consumare.
Con questo sistema il benessere materiale dei più diventa condizione necessaria per il funzionamento della macchina produttiva, la cui esistenza è indissolubilmente legata alla produzione massiccia di beni di consumo. Per raggiungere questo obiettivo la borghesia imprenditoriale moderna dei paesi industrializzati concentra tutte le sue risorse inventive sulla creazione di bisogni fittizi, sfruttando a proprio vantaggio le “debolezze dell’uomo normale”. Uno di questi fa leva sull’estetica dei prodotti, i quali presentandosi in forme sempre nuove e sempre più in linea con il presunto dinamismo del mondo moderno, fanno sembrare vecchi e scaduti prodotti ancora validi dal punto di vista funzionale. In altre parole, la borghesia imprenditoriale indirizza tutti i suoi sforzi nella direzione esattamente opposta a quella verso cui la cultura ha da sempre indirizzato i suoi. Ciò che chiede la nuova borghesia industriale agli artisti del proprio tempo è, in pratica, di utilizzare l’arte come veicolo di sollecitazione di appetiti incontrollati, acritici, impegnandosi a valorizzare tutte quelle cose contro cui, invece, le forze intellettuali si sentono in dovere di mettere in guardia, perché ritenute false ed effimere. Non potendo dissociare il proprio destino da quello della società in cui vive e opera l’artista moderno si domanda come, in che maniera, in questa situazione, l’arte debba continuare a perseguire i suoi fini istituzionali. In sostanza il dilemma è se può l’arte rinunciare ad esprimersi liberamente per assecondare gli interessi dell’economia o mettersi a remare contro e rischiare di essere emarginata dalla società.
Fermo restando il nodo comune dell’impegno ad andare avanti a lavorare sul piano delle coscienze, nella speranza che ciò possa contribuire a indurre un cambiamento di rotta nella direzione politica dell’apparato economico della società, le linee d’azione vanno sostanzialmente orientandosi sempre verso i due grandi indirizzi summenzionati: alienarsi dalla realtà sociale e economica cessando di produrre valori o adeguando l’azione alla realtà socio-culturale contestandola sul suo stesso piano strumentale e tecnico.

INCONCILIABILITÀ FRA ARTE E INDUSTRIA

Non è la prima volta che l’arte si presta a propagandare immagini ingannevoli: si pensi al Barocco. Ma nel Seicento gli artisti lavoravano per salvarsi l’anima, nella seconda metà del Novecento, che non si crede più all’anima, si lavora per condizionare psicologicamente l’uomo al consumo forzato. Il fine dell’arte è stato sempre l’apprezzamento del bello, il fine dell’industria è il consumo. L’apprezzamento è l’esatto opposto del consumo, quindi non è possibile ottenere le due cose insieme, almeno fintanto che esisterà il consumismo. Potrà essere possibile in una realtà economica diversa, dove l’industria per battere la concorrenza si indirizza verso una produzione di qualità, cioè in un nuovo modernismo, ma anche in una situazione del genere non si può dire veramente chiusa l’esperienza romantica. In un possibile clima di rinnovato slancio creativo non si potranno comunque cancellare i prodotti che fanno problema, che turbano le coscienze, e l’arte che parla alle coscienze spesso le turba.

LA QUESTIONE POLITICA E COMMERCIALE

La situazione che si viene determinando nei paesi capitalisti col fenomeno del consumismo non è sostanzialmente diversa da quella che si produce nell’ambito dei regimi dittatoriali, in cui l’arte viene ridotta a puro mezzo di propaganda politica. In entrambi i casi l’artista che presta la sua opera al sistema si trova inevitabilmente complice dell’accrescimento del potere delle classi dirigenti, costituite da una minoranza di individui. Questa classe è la stessa che alimenta il mercato delle opere d’arte, la struttura per mezzo della quale un bene rivolto a tutta la comunità, diviene proprietà privata. Rinunciare ad integrarsi significa non rendersi complice della lenta distruzione del consumo; rinunciare per auto-imposizione alla produzione di opere d’arte significa non rendersi complice dell’accrescimento del potere delle classi dirigenti; rinunciare all’opera significa rinunciare al linguaggio artistico come comunicazione e quindi la rinuncia dell’artista a fare arte.
Nel corso dei primi decenni della seconda metà del Novecento il conflitto fra arte e società sembra risolversi con la cosiddetta “morte dell’arte”. Ma la “morte dell’arte” non significa che l’arte sia finita. Ciò che è finito è solo un modo di pensare l’arte, cioè il modo romantico, vale a dire quel modo di vedere l’arte come espressione del sentimento individuale, espressione del proprio sentire libero da condizionamenti.

GLI SVILUPPI DELLA QUESTIONE TECNICA NELLA SECONDA METÀ DEL NOVECENTO

La questione tecnica, sorta con la nascita dei mezzi di ripresa meccanica, rimane sempre uno dei fattori dominanti per quanto riguarda la definizione del volto particolare di ogni singola corrente, soprattutto nell’epoca dei computer. Come ben sa chi lo fa, pure per manovrare un computer occorre una certa manualità, benché si tratti di una manualità di tutt’altro tipo e di tutt’altro spessore rispetto a quella che serve per modellare la gamba di una sedia Luigi XV. Con ciò non si vuole pronunciare un giudizio di valore (entrambe le manualità richiedono capacità specifiche e specifica cultura), si vuole soltanto dire che sono manualità strutturate su elementi attivi di diversa natura ed erogate in dosi diverse; stessa è la fonte generatrice degli impulsi, ma diverse le tecniche che li trasformano in immagini. Stanti così le cose il tecnico che si mette al computer ed esegue un lavoro seguendo dei modelli preordinati si può ritenere un artista tecnologico se all’esecuzione tecnica aggiunge la creatività. Questa deduzione è nettamente avversata dal pensiero romantico, per cui l’intellettualismo della macchina uccide l’istintività dell’artigiano, viene a interrompere quel filo diretto, quell’automatismo che mette in relazione continua il soggetto operante con la sua opera. Siamo al solito punto della dualità della concezione dell’attività creativa oscillante fra visualizzazione di idee o espressione di forze; modo di configurarsi nello spazio o di esercitare una pressione nello spazio; rappresentazione dell’essere o modo di essere. Insomma, al fine, classico o romantico.
Lo scioglimento del dilemma non significa che l’arte moderna è destinata ad esprimersi eternamente con le tecniche pre-tecnologiche, significa solo superare o no la pregiudiziale romantica. Se la creatività di un’opera si configura nell’idea, allora la manualità si riduce allo “schizzo” buttato giù a mano o alla “supervisione”, perciò in questo caso la realizzazione dell’oggetto può essere affidata ad una qualsivoglia macchina, non ha molta importanza, e l’intervento manuale personale dell’artista nella fase costruttiva non è assolutamente necessario. Nel caso in cui a predominare è però la manualità, la realizzazione dell’opera è inscindibile dal lavoro concreto, pesante del fare manualistico della tecnica artigiana. In questo caso dunque si pone il problema se si possono o no utilizzare le nuove tecnologie in modo da non uccidere l’istintività dell’artigiano.
Nelle neoavanguardie non c’è né il rigetto della tecnologia né quello della manualità, c’è solo una differenza nelle dosi d’impiego dell’una e dell’altra: chiaramente la dose dipende da quanta parte occupa l’idea e da quanta parte occupa l’operatività concreta nel processo creativo.
Nel panorama artistico globale del secondo Novecento si possono distinguere due correnti: quella che punta ad estrarre le tecniche dal contesto tecnologico della fabbrica per indirizzarle alla produzione di opere uniche, ovvero la soluzione seguita dalla Pop Art, dalla Minimal Art e dall’Iperrealismo, dove si fa ricorso a tecniche estratte da tecnologie modernissime come l’aerografia e l’infusione plastica, e quella che punta ad intervenire sui prodotti delle macchine senza entrare nel processo tecnico, come accade da sempre in architettura, quindi nelle installazioni, nella Video Art, nella Computer Art, e in un certo senso anche nella Conceptual Art.
Le due linee esprimono concezioni diverse dell’arte: attività intesa come fatto reale, empirico e attività intesa come esistenza teorica, mentale. Sulla base di queste considerazioni è possibile stabilire una nuova distinzione funzionale fra le diverse correnti espressive dell’area culturale occidentale. C’è la linea di chi vede il rinnovamento formale artistico necessariamente legato al rinnovo delle tecniche e la riduzione della manualità all’esecuzione del progetto (oggi neanche più questo), c’è chi invece ritiene indispensabile nell’operazione artistica la manualità, ponendo l’accento sul fatto che è l’unica maniera che permette la trascrizione diretta del pensiero, dunque dell’io, conscio, inconscio o subconscio che sia, senza processi intellettuali interlocutori di decodificazione e ricodificazione.
Dunque nella seconda metà del Novecento la questione tecnica trova la sua risoluzione in due possibili strade antitetiche:

  1. l’artisticità di un’opera si risolve nell’intenzione, quindi la manualità non ha alcuna importanza;
  2. l’artisticità di un’opera si risolve nell’esecuzione, dunque nella tecnica.

La prima soluzione ammette due distinzioni: in una all’artista spetta il ruolo di ideatore dell’opera, che altri, i tecnici, penseranno poi a realizzare, esprimendosi, se vuole, ma non necessariamente, attraverso il “bozzetto”; nell’altra l’intenzionalità dell’artista si esprime senza il ricorso alla tecnica. La prima linea è seguita soprattutto in campo architettonico e nell’industrial design: infatti in questi settori non è la manualità ma l’idea ad aggiungere un plus-valore, infondere un qualcosa in più all’oggetto, è lei che dà maggior pregio al prodotto fatto a macchina, è l’impronta dell’artista, la sua firma; appartengono alla seconda linea quelle correnti che impostano la loro comunicazione sulle cosiddette “performance”.
Anche la seconda strada ammette due distinzioni. In una l’artista manterrà il ruolo di sempre, sarà sostanzialmente un artigiano, anche se si avvarrà di tecniche modernissime: è il caso della Computer Art, dell’Arte Cinetica, dell’Arte Informale e di tutte le altre forme d’arte astratta che si avvalgono dei più svariati strumenti e materiali, molti dei quali prodotti dalle industrie; nell’altra la manualità si esprimerà conservando le tecniche tradizionali, anche se diversi saranno gli strumenti e i materiali di cui si servirà: vedi la Pop Art, la Op Art, l’Iperrealismo, l’eterno Surrealismo e l’Espressionismo Astratto.
Tra le due soluzioni, infinite sono le possibilità di interscambio, e queste danno origine a innumerevoli “contaminazioni” linguistiche.

CONTRIBUTO DELLE CORRENTI D’AVANGUARDIA ALLA DEFINIZIONE DELL’ARTE NELL’ATTUALE SOCIETÀ DEI CONSUMI

Pur nelle vistose diversità delle tante proposte d’intervento all’interno del conflitto fra arte e società, tutte le correnti attuali presentano dei punti di convergenza incontrovertibili. Uno riguarda la continuità storica della creazione estetica, per cui ogni particolare fenomeno d’avanguardia che si produce è inquadrabile in una prospettiva temporale di commento, ampliamento e aggiornamento dei contenuti più significativi e delle tecniche delle principali poetiche innovatrici del secolo, fenomeno che porta inevitabilmente alle cosiddette contaminazioni, ovvero all’eclettismo, come nella recente transavanguardia. Altro punto di estrema importanza è quello che riguarda la strumentalità culturale dell’arte, nei confronti della quale tutti gli artisti autonomi si dimostrano concordi nel ritenere l’arte moderna un procedimento finalizzato alla produzione di fenomeni estetici, le cui ragioni d’esistenza, qualsiasi esse siano, non contemplano più, in ogni caso, la conoscenza intesa come rappresentazione dell’altro da sé, per cui i suoi contenuti rimarranno circostanziati nell’ambito delle tematiche inerenti allo sviluppo dei fondamenti teorici e dei singoli procedimenti creativi. In altri termini si tratta del carattere preminentemente anti-positivista della cultura figurativa moderna.
Da ultimo non bisogna dimenticare la sua specificità urbana. Infatti l’arte moderna è prodotta nelle città per un ambiente urbano e le problematiche che si trova ad affrontare sono strettamente legate alla città, in quanto espressione tipica della cultura e dell’organizzazione socioeconomica borghese.
Gli effetti della nuova situazione si concretizzano nei seguenti caratteri:

  1. estrema intellettualizzazione del linguaggio espressivo: per cui diventa difficoltoso per il fruitore comprendere i significati delle “opere” senza un supporto critico-culturale adeguato;
  2. accentuazione della teatralità o quanto meno degli effetti che provocano un forte impatto emotivo, tipo turbamento, curiosità, stupore, o semplicemente fastidio;
  3. tendenza a mettere in opera tecniche sempre nuove, utilizzando materiali sempre più insoliti, ma sempre in senso opposto a quello che avviene nel campo della produzione industriale.

In termini molto più sintetici possiamo individuare nei seguenti aggettivi i caratteri strutturali del pensiero artistico contemporaneo: anti-tradizionale, innovativo, anti-storicistico e anti-naturalistico, intellettualistico, sperimentalista, formalistico, edonistico e urbano.
Se si passa a considerare lo sviluppo della spinosa questione del ruolo sociale dell’arte nell’attuale società dei consumi allora le ultime espressioni si possono inserire nelle linee guida di due orientamenti fondamentali. Uno che continua a riconoscere all’arte un ruolo sociale didattico indipendentemente dall’uso che ne fa la società, l’altro che ritiene invece impossibile un’interazione fra arte e società dei consumi, quindi non riconosce all’arte alcun ruolo costruttivo in questa società. Appartengono al primo schieramento tutte quelle correnti che, seppur in diverso modo, continuano a lavorare per mantenere un canale aperto con il contesto socioculturale; appartengono al secondo schieramento tutte quelle correnti che intendono porre l’arte in uno stato di perenne alienazione o polemica, rinunciando ad ogni tipo di rapporto positivo con il contesto socioeconomico attuale, fino al punto di paventare una possibile “morte dell’arte”.
Sono sostenitori della prima linea tutti quegli artisti che si riconoscono nell’attività di ricerca visiva; sono sostenitori della seconda linea tutti quegli artisti che continuano ad indicare, polemicamente, valori alternativi, sostitutivi di quelli perseguiti dall’arte “storica”, almeno fino a quando la situazione non cambierà. Va precisato che la contestazione di questi ultimi non si limita ad indicare nell’uso distorto che ne fa la società moderna la causa della crisi dell’arte nell’attuale periodo storico, ma va oltre, spingendosi fino a ritenere quegli stessi valori perseguiti nell’arte “storica” parte integrante e formativa della società di cui si intende contestare il fine utilitaristico e materialista, attraverso la manifestazione di un’alternativa sovrastrutturale. Per costoro la crisi dell’arte ha cause ben più profonde che non quelle indicate da chi, fiducioso, continua a fare ricerca, e, contrariamente a questi, la loro azione si inserisce nell’ambito della dimensione tecnologica e urbana in modo apertamente provocatorio, e in alcuni casi si trasforma in un’attività fuori del tempo, un “fare in via d’estinzione”, fuori sintonia con il nuovo ambito socioeconomico; non interferisce con la società, ma fa ugualmente problema.
Rientrano nel novero del primo schieramento tutte le forme di arte astratta quali: la Op Art, l’Arte Cinetica, la Minimal Art, la Computer Art; rientrano nel novero del secondo schieramento l’Espressionismo astratto, il Neodadaismo, il Neosurrealismo, la Conceptual Art, la Pop Art, l’Iperrealismo, la Body Art e le cosiddette installazioni.

ARTE ASTRATTA E INFORMALE

Brescia, Collezione privata
Theodor Werner
COMPOSIZIONE (1951)
Olio su tela, altezza cm. 81 – larghezza cm. 100

Milano, Civica Raccolta d’Arte Moderna
Serge Poliakoff
COMPOSIZIONE (1956)
Gouache, altezza cm. 97 – larghezza cm. 130

Basilea, Galleria Beyeler
Alfred Manessier
LES LAVANDES (1959)
Olio su tela altezza cm. 98 – larghezza cm. 130

Parallelamente all’Astrattismo americano si va sviluppando in Europa L’Arte Informale. Su molti testi l’informale è indicato con altri termini, quali tachisme, che sta per pittura fatta di macchie, o arte autre, che sta per nuovo stile. In molti casi si fa rientrare nell’informale anche l’Action Painting e la Color Field Painting, americane, le quali correnti, come vedremo più avanti, pur formalmente convergenti non hanno la stessa radice motivazionale e storica. Precisato ciò riprendiamo il racconto performante. L’arte del secondo dopoguerra in Europa nasce da una serie di fallimenti. Il primo consiste nel tentativo di riprendere il discorso da dove lo si era interrotto prima del conflitto; il secondo nell’esito sfavorevole del rapporto di collaborazione con l’apparato produttivo industriale perseguito dalla Bauhaus nel periodo anteguerra; il terzo nell’estromissione dalla partecipazione alla lotta politica delle avanguardie rivoluzionarie da parte del potere. A sottolineatura di questi fallimenti si distinguono tre fasi: la fase neo-cubista astrattista, la fase informale e la fase neo-dada. La prima fase, dopo un avvio incoraggiante, si va ad infrangere contro l’amara constatazione dell’impossibile recupero dell’unità culturale in un’Europa ormai smembrata. Riprendere la strada tracciata dai Maestri del primo Novecento si dimostra priva di sbocchi; i valori non sono più gli stessi. Ragione e attivismo rivoluzionario svaniscono nella nuova realtà socioeconomica dove non c’è posto per l’uno né per l’altro. La seconda fase scaturisce dall’emarginazione dell’arte nella nuova realtà socioeconomica. Gli artisti che operano nel decennio ‘50/’60 muovono da una riflessione generale in cui ci si chiede quale senso può più avere il linguaggio visivo come mezzo di comunicazione di valori formativi se all’arte la società chiede di collaborare nel promuovere la crescita economica attraverso il consumo e la speculazione. La terza fase è caratterizzata dall’egemonia culturale americana che spinge l’Europa ad aggiornare il linguaggio artistico a quello della tecnologia dell’informazione e dei mass-media.

Parigi, Musée National d’Art Moderne
Pierre Soulages
COMPOSIZIONE (1950)
Olio su tela
altezza cm. 162,5 – larghezza cm. 130,2

Los Angeles, Collezione privata
Jean Fautrier
TESTA DI OSTAGGIO N. 1 (1943/1944)
Olio su carta incollata su tela, altezza cm. 24 – larghezza cm. 22

Londra, Galleria Malborough of fine art
Jean Dubuffet
L’INTERLOQUÉ (1954)
Olio su cartone, altezza cm. 65 – larghezza cm. 52

Parigi, Galleria Paul Bernard
Jean Dubuffet
TEXTUROLOGIE XX (1958)
Tecnica mista su tela, altezza cm. 100 – larghezza cm. 81

L’Arte Informale nega qualsiasi tipo di forma, sia astratta che realistica. Non si schiera dalla parte dell’astrattismo contro il figurativo, supera entrambe le posizioni poiché l’humus culturale sul quale queste tendenze si sviluppano non sussiste più. L’abbandono della forma non proviene dall’applicazione di una teoria astrattista, né dall’evoluzione di un discorso astratto precedente, ma dalla condizione nella quale viene a trovarsi l’arte di questo periodo, ovvero privata del ruolo rivestito da sempre nel sistema culturale occidentale, quello di comunicare contenuti conoscitivi attraverso forme luci e colori. Ciò significa interrompere il filo della comunicazione; dove prima c’era discorso, relazione, ora c’è singolarità, irrelatività, inspiegabilità. Tutto quello che rimane dell’arte è la sua inconfutabile esistenza, ermetica, ma l’unica autentica in quanto libera da qualsiasi condizionamento. L’informale non è una corrente, è vivere la crisi dell’arte come strumento culturale fondato sulla ragione filosofica. Le due componenti chiave sono il gesto e la materia. L’arte non sta nell’opera finita, bensì nell’esecuzione. Questa non segue una tecnica codificata, è fatta di gesti, per cui il valore sta nella gestualità che produce l’opera. Il gesto può essere giustificato da tanti motivi: simbolici, provocatori, oppositivi, lirici, sovversivi; importante è che sia preciso, deciso, conciso, ma soprattutto largo, plateale, in quanto unico momento creativo. La seconda componente è il materiale attraverso cui si concretizza il gesto, si visualizza l’esistenza: la creatività si esprime anche nella scelta della materia. Questa può essere qualsiasi cosa, dalla gomma al neon, dai sacchi alla plastica, dai rottami al vetro e così via, all’infinito. Può presentare superfici rugose, deformi, a richiamare sentimenti tragici o conflittuali, oppure superfici morbide e levigate a evocare sentimenti di dolcezza e serenità. Il gesto non è l’azione: di qui la differenza tra Informale, europeo, ed Espressionismo astratto, americano. L’arte gestuale è l’arte di chi ha dovuto rinunciare al linguaggio della forma; l’arte d’azione è l’arte di chi vive in un mondo dove esistere è agire; l’Espressionismo astratto americano è l’arte di un individuo disinserito, l’Informale europeo è l’arte di un individuo momentaneamente disorientato; in entrambi i casi l’arte è comunque l’espressione di uno stato di emarginazione sociale. Due sono le radici culturali dell’Informale: l’idea di spazio come campo di forze di Kandinskji (1866-1944) e l’idea di pittura come materia-colore distesa su una supergficie di supporto di Malevič (1878-1935). Già Wols (1913-1951), un tedesco di Berlino, nel 1938 fa dei disegni informali, così Georges Mathieu (1921-2012), un francese di Boulogne sur Mer, in una mostra del 1947 improntata alla «non figurazione fisica», manifesta la chiara intenzione di superare l’oggettività linguistica, nonché la geometricità dei vocaboli. Tuttavia, così come era successo anni prima con l’astrattismo di Kandinskij, anche con l’Informale finisce per accadere che intorno ad esso si vanno sviluppando diverse posizioni, le quali, generalizzando, si possono riassumere in due linee opposte, una pro e l’altra contro.
Molto vicino all’Espressionismo astratto americano, ma solo per quanto riguarda l’aspetto puramente esteriore, non per quello che riguarda la poetica, è Hans Hartung (1904-1989), un tedesco di Lipsia. Il suo linguaggio è fatto di pesanti segni scuri su fondi neutri di vario colore; è stato il primo ad aver intrapreso la strada dell’informale. Con lui nasce la poetica del gesto, un gesto negativo che vuol dire ripartire da zero, fondare una semantica che non tenga conto della gnosi, ma della volontà di esistere, foriera di una sospensione del giudizio relativo al passato in attesa del futuro. Se per Mondrian la pittura seguiva il ragionamento, per Hartung lo precede: il fondo, uniforme, è spazialità indefinita, virtuale; la traccia, finita, è misura dello spazio creato dall’uomo. Il gesto di Pierre Soulages, altro astrattista informale, si manifesta ai sensi in veste di strisce ottenute a colpi di spatola. Nell’olio su tela del 1950, intitolato Composizione, il non essere (le bande) riempie l’indefinito (il fondo), il quale emerge solo nei piccoli scampoli di tela tinta chiara. In artisti come Fautrier (1898-1964) e Dubuffet (1901-1985) l’immagine non scompare del tutto ma riaffiora, anche se notevolmente trasfigurata, dal substrato astratto, ma non come elemento virtuale, bensì come elemento concreto, considerato nella sua essenza materiale, tant’è che per loro si deve parlare di neo-figurativismo materico: alla poetica del gesto si affianca quella della materia. Più in particolare Jean Fautrier affida ai miscugli di gesso e colore l’espressione del suo vivere tragicamente l’occupazione nazista, come dimostra nell’opera intitolata Tête d’Otage n. 1, dove dalla disposizione senza forma dell’olio misto a stucco sul supporto carta emerge il ricordo offuscato di una testa umana. La sagoma si presenta appena accennata sullo sfondo indistinto, sembra una forma antropomorfa con all’interno un accumulo di sostanza calcinata biancastra applicata a spatola; un segno rosso discontinuo evoca il profilo di un volto sofferente.
In Jean Dubuffet la figura è ancora più evidente e la materia attraverso cui prende forma è tattile per quanto è spesso lo strato depositato sul supporto. Molti soggetti sono presi da realtà “consumate” dall’uomo o dalla natura stessa con evidenti richiami al principio dada del merzbau. Nelle opere tarde l’evocazione viene meno con conseguente avvicinamento all’Espressionismo astratto vero e proprio. A testimonianza dell’avvenuto cambiamento c’è tutta una serie di opere accomunate sotto l’unica denominazione di Mires. Si tratta di vaste composizioni formate da superfici variamente orientate, irrorate da una fitta rete di linee colorate prevalentemente di rosso, nero e blu.
Jean Dubuffet è meglio conosciuto per la sua Art Brut (“arte grezza”). Per lui la pittura non rappresenta, non esprime, non comunica, è pura esistenza allo stato brado, indistinzione caotica e inconcludente tra percetto e materia. L’artista realizza immagini crude, ideografiche, incise su una superficie ruvida costituita da materiali come catrame, ghiaia, ceneri e sabbie legate con vernice e colla. I suoi disegni e dipinti risultano infantili e ossessivi e il loro aspetto incompiuto ha suscitato molte polemiche. In Dubuffet la fisionomia comunque stenta ad abbandonare completamente il territorio della rappresentazione, riducendosi al suo ultimo residuo sensibile. Come pittore considera il linguaggio specifico della disciplina nella sua essenza oggettiva, di corposità duttile, plastica, impressionabile, suscettibile di tramutarsi e corrompersi: linee, piani, volumi, sono fatti di colori, sostanze concrete che hanno una loro consistenza, una loro massa, un loro spessore. L’arte, quella europea, mitizzata, per lui non è un’attività superiore, è la manifestazione di una particolare cultura di una particolare etnia. Antoni Tápies, spagnolo, è molto vicino alla poetica di Burri. La sua materia richiama i muri fessurati, le porte chiuse, le impronte segnate. Sono loro a ricevere le tracce dell’esistenza drammatica di chi vive con lucidità la politica liberticida del suo Paese. Accanto all’Informale gestuale e materico c’è l’Informale segnico. Questa corrente non s’inserisce nella prospettiva storica delineata da Kandinskji quanto piuttosto in quella profilata da Klee. Il primo ad intraprendere la terza via, dopo esser passato per l’Informale materico e gestuale, è Otto Wolfgang Schulze, detto Wols. Per lui l’arte non si identifica con l’esistenza, è manifestazione sensibile del legame tra due stati dell’essere ugualmente pieni di angoscia: il conscio e il subconscio. I due stati non sono in equilibrio; c’è lotta tra l’agire consapevole e l’agire istintivo, e questo provoca disarmonia, angoscia, allora il filo che li lega, il segno, si fa flebile, si piega, si spezza. Tra le diverse poetiche dell’arte informale c’è interscambio e contaminazione. Bernard Schultze (1915-2005) dà consistenza fisica al segno di Wols, trasformando il ductus lineare in ductus materico; Karl Otto Götz (1914-2017) fonde la poetica del segno con quella del gesto. La poetica della non figuratività riportando l’attività creativa nella sfera del pre-gnostico disconosce i limiti culturali. Un artista come Willy Baumeister (1889-1955) si ispira all’arte azteca e peruviana, Julius Bissier (1893-1965) si converte alle poetiche estremo-orientali dello Zen. Gerhard Hoehme (1920-1989) si spinge oltre la cultura; considera il segno il termine distintivo dell’universo: il quadro non è che un diaframma provvisorio sul quale i segni vaganti del tutto si posano e si rendono visibili. Kurt R. H. Sonderborg (1923-2008) esplora il valore segnico della scrittura, la quale non è altro che un’elaborazione grafica del moto dell’esistenza. Per Winfred Gaul (1928-2003) il non linguaggio è la segnaletica vistosa che, nel mondo moderno, ha preso il posto della scrittura. In Francia, per Henri Michaux (1899-1977), che è anche poeta, il segno è visualizzazione dell’andamento metrico della poesia; in Camille Bryen (1907-1964) e Roger Bissière (1888-1964) è colore in libertà.

CO.BR.A

Parigi, Galleria Ariel
Karel Appel
LA HOLLANDAISE (1969)
Olio su tela, altezza cm. 130 – larghezza cm. 97

Proprietà dell’autore
Guillame Beverloo detto Corneille
TUMULTO DI UN NUOVO AUTUNNO (1961)
Olio su tela, altezza mt. 1 – larghezza mt. 1

L’anti-purismo figurativo è alla base del gruppo Cobra, nome che deriva dalle iniziali delle capitali delle nazioni da cui provengono gli artisti che ne fanno parte: Copenaghen, Bruxelles, Amsterdam. In loro è di nuovo il concetto picassiano che non può esservi astrazione assoluta; anche l’immagine più lontana dalla realtà percettiva dipende comunque dall’esperienza visiva. Cobra opera ai confini tra formale e informale. Nel gruppo si cerca di superare il dilemma teorico che contrappone una concezione dell’arte come linguaggio espressivo figurativo con un concetto dell’arte come linguaggio espressivo astratto. La sintesi fra l’uno e l’altro è presto trovata: tanto l’uno quanto l’altro sorgono dalla trascrizione automatica del subconscio. Ma da che cosa è riempito il subconscio Cobra lo si vede dalle opere, dove emerge un subconscio abitato da un mondo spesso fiabesco: ecco dunque perché la loro pittura si riallaccia deliberatamente alla tradizione nordica di cui ultimo ne è entrato a far parte Ensor (1860-1949).
Il gruppo si forma nel 1948; nel 1959 è già sciolto. I principali esponenti sono Karel Appel (1921-2006), Corneille (1922-2010), il cui vero nome è Cornelius Guillaume van Beverloo, Pierre Alechinskij. Sono Cobra anche Eugène Brands Costant (1913-2002), che sta per Costant Nieuwenhuys (1920-2005) e Theo Wolvecamp (1925-1992). Il loro lavoro ha un obiettivo sociale preciso: contrastare con la creazione di un nuovo repertorio di immagini strappate alla fantasia l’effetto deviante delle icone pubblicitarie. In Cobra dunque già è dominante il problema del rapporto arte e industria dell’apparenza, problema che è il punto fondamentale dell’azione pop.

NICOLAS DE STÄEL, SUTHERLAND E BACON

Parigi, Collezione privata
Nicolas De Stäel
NUDO SDRAIATO (1955)
Olio su tela, altezza mt. 1,14 – larghezza mt. 1,62

Londra, Tate Gallery
Graham Sutherland
FORMA DI ALBERO VERDE: INTERNO DI BOSCHI (1940)
Olio su tela, altezza cm. 76 – larghezza cm. 102

Londra, Tate Gallery
Francis Bacon
STUDIO DI FIGURA PER LA BASE DI UNA CROCIFISSIONE (1944)
Olio e pastello su cartone, altezza cm. 94 – larghezza cm. 74

Londra, Collezione privata
Francis Bacon
STUDIO N. 4 PER UN PAPA (1961)
Olio su tela, altezza mt. 1,52 – larghezza mt. 1,19

Astrattista nel vero senso della parola è Nicolas de Staël (1914-1955), russo di Pietroburgo. Il suo linguaggio è fatto di pseudo-forme ottenute stendendo direttamente con la spatola il colore a corpo sulla tela. Le immagini di Graham Sutherland (1903-1980) e Francis Bacon (1909-1992) sono astratte dalla realtà e distorte a causa della reazione soggettiva. Il risultato è sempre l’apparizione di una contingenza terrificante, fatta di alieni, fantasmi mostruosi. In effetti si tratta delle immagini di una umanità sofferente, profondamente colpita dalle tragedie della guerra, una umanità che si fa particolarmente angosciante in Bacon.

LA SCULTURA TRA FIGURATIVO E ASTRATTO

Detroit, Istituto d’Arte
Henri Moore
FIGURA DISTESA (1939)
Legno, larghezza mt. 2,06

Henri Moore Foundation
Henri Moore
TRE PUNTE (1939/1940)
Ghisa, larghezza cm. 20

Londra, Tate Gallery
Henri Moore
GRUPPO DI FAMIGLIA (1945/1949)
Bronzo, altezza mt. 1,50

Il dibattito formale-informale investe anche il settore plastico. Henri Moore (1898-1986) è considerato uno dei più grandi scultori del Novecento. Nasce a Castleford presso Leeds, nello Yorkshire, muore a Much, nell’Hertfordshire, alla veneranda età di 88 anni. Alla stessa stregua di Michelangelo (1475-1564) concepisce la scultura come il lavoro che ti permette di ottenere immagini dalla pietra per forza di levare. La sua poetica vede nell’oggetto scolpito una forma naturale come quelle plasmate dall’azione degli elementi. L’opera d’arte è come prodotto simile alle montagne, agli alberi, ai fiori e a tutti gli altri elementi creati dalla natura; come la natura lo scultore non si chiede se le creature somiglino a qualcosa, l’unica differenza è che in una scultura ciò che prevale è l’intenzionalità dell’autore di fare arte, mentre nella natura questa intenzionalità manca. Come parte della natura le sculture di Moore si rapportano all’ambiente circostante, dunque assumono proporzioni monumentali. Ma la loro monumentalità non è fatta per rendere eterna un’idea quanto piuttosto per integrarsi alla grandiosità del Creato. Come le forme naturali, anche quelle di Moore non hanno quasi mai sagome perfettamente geometriche. Ciò spiega come mai le sue opere appaiano come grandi figure tondeggianti modellate nella dura pietra e installate all’aperto.
I primi lavori sono dei grandi blocchi compatti dall’aspetto vagamente organico; fanno loro seguito “statue” tondeggianti dal profilo antropomorfico. Rappresentano soprattutto grandi simulacri femminili evocanti la forza generatrice della natura, una sorta di Magna Mater dei nostri tempi.
Da un certo momento in poi in queste xóana moderne iniziano ad apparire dei fori. Sono vie attraverso cui le tre dimensioni spaziali entrano in contatto con la quarta dimensione, quella che s’incontra in virtù della memoria. È il modo che ha Moore di avvertirci che c’è qualcosa oltre il veduto, qualcosa che sta dietro, dall’altra parte del blocco, è la faccia che non si vede ma che sappiamo esserci.
Le forme di Moore sono forme archetipe, primigenie, fonti genitrici di tutte le infinite forme naturali di cui l’uomo è parte. Lo scultore è colui che le crea, le desta nella materia, la pietra, perché le vede vivere al suo interno; non è come in dada e nei surrealisti in cui è la forma naturale ad ispirare quella artistica.

L’ARTE ITALIANA NEL SECONDO DOPOGUERRA: LA SCULTURA

Milano, Collezione Jesi
Marino Marini
CAVALLO E CAVALIERE. IL MIRACOLO (1955)
Bronzo

Finita la seconda e più disastrosa guerra mondiale anche in Italia rifiorisce l’attività artistica, e rifiorisce all’insegna dell’anti-novecentismo. Marino Marini (1901-1980) è sulla stessa linea battuta in precedenza da Carrà (1881-1966) nella ricerca dell’essenzialità della forma alla luce del passato etrusco e italico, complice probabilmente la sua origine. Nasce infatti a Pistoia e muore a Forte dei Marmi all’età di 79 anni. Il suo nome può vantare numerosi ritratti nei quali sono evidenti i ricordi degli antichi volti tuscanici: famoso a tal proposito è il ritratto di Chagall (1887-1985). Ma le sculture che lo hanno reso universalmente noto sono le statuine di cavalli e cavalieri. In queste operette i più attenti estimatori della sua produzione notano una certa evoluzione stilistica dall’equilibrio delle prime alla tensione delle ultime.

ASTRATTISMO E INFORMALE NELLA PITTURA ITALIANA

Torino, Fondazione CRT
Afro
VIA TRAVERSA (1960)
tecnica mista su tela, altezza mt. 1 – larghezza mt. 1,10

Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna
Emilio Vedova
PLURIMO N. 1, LE MANI ADDOSSO (1962)
Tavola, base mt. 1,40

Totalmente informale è l’opera di Emilio Vedova (1919-2006), veneziano. Ad un inizio in cui si ritrovano evocazioni geometriche fa seguito una maturità in cui ogni riferimento formale sparisce per lasciar posto ad una pittura completamente priva di forme.
Afro (1912-1976) dopo un esordio realista moderato si converte all’informale. Per lui la contrapposizione fra astratto e figurativo non ha senso; tutta la pittura, anche quando raffigura cose concrete è un’aggregazione di elementi astratti quali linee, forme e colori, tenuti insieme da un certo ritmo. Comunque anche in lui il riferimento a realtà e situazioni concrete non viene mai meno: sono i titoli delle sue opere a dircelo come Via traversa ad esempio.

Milano, Galleria Il Naviglio
Giuseppe Capogrossi
SUPERFICIE 8 (1951)
Olio su tela

Ci sono segni che vogliono dire qualcosa e segni che non vogliono dire nulla, in comune hanno il solo fatto di essere grafismi. Le lettere dell’alfabeto sono segni associati ad un suono che insieme ad altri segni collegati ad altri suoni formano parole, mezzi che servono ad indicare una cosa o un concetto. Ma i segni che non vogliono dire niente cosa sono? Bè potrebbero essere intanto parole di una lingua sconosciuta per chi legge. I segni di Capogrossi (1900-1972) potrebbero essere tante cose, dipende da chi li legge e cosa ci vede. Potrebbero essere lettere di una lingua sconosciuta, o perduta, o segreta, oppure non vogliono dire proprio niente, sono solo arabeschi, oppure sono l’effetto del movimento della mano, così senza starci a pensare su, oppure sono battute di un ritmo, grosso, piccolo, sopra, sotto, di lato, circolare, come le note di uno spartito musicale. Ma potrebbero non essere segni, bensì cose, impronte concrete che ognuno interpreta a modo suo, stesura di materiale fluido colorato, avente un suo sviluppo spazio temporale che nel loro insieme evocano microrganismi, una catena genetica, anticorpi e altro, insomma un codice segreto libero di essere interpretato come meglio si crede, ma il cui scopo dichiarato è solo quello estetico.

Stoccolma, Moderna Museet
Enrico Baj
GENERALE (1961)

Collage, altezza cm. 144 – larghezza cm. 112

Per il carattere della sua arte Enrico Baj (1924-2003) può essere definito il Grosz del dopoguerra, tuttavia differisce dal tedesco e dal suo neorealismo per via della tecnica. Questa è inquadrabile nelle esperienze dada, ma miste alle tecniche tradizionali della pittura e finalizzate ad esprimere contenuti critici di tipo satirico. Baj raccoglie bottoni, pezzi di stoffa, cordoni, guarnizioni varie e li incolla sulla tela insieme ai colori stesi come nei “quadri” tradizionali. I suoi generaloni, grandi e grossi, con i denti a punta, che vorrebbero far paura con fucili e cannoni e impressionare con le decorazioni che portano sul petto per farti sentire piccolo piccolo, che non vali niente, puoi solo obbedire, sono dei pupazzi ridicoli che si vantano di due medagliette come i ragazzini e fanno i bulli perché hanno solo la forza, ma il cervello è vuoto.

Città di Castello, proprietà dell’autore
Alberto Burri
SACCO 5P (1953)
Sacco, acrilico, vinavil, stoffa su tela, altezza mt. 1,49 – larghezza mt. 1,29

New York, Collezione privata
Alberto Burri
COMBUSTIONE PLASTICA (1965)
Pittura acrilica, vinilica e tecnica mista, altezza mt. 1,50 – larghezza mt. 1,50

Gibellina
Alberto Burri
CRETTO DI GIBELLINA (1981)
Cemento bianco su macerie di case, dimensione ambientale

Sembrerebbe che nell’opera di Alberto Burri (1915-1995) solo apparentemente risulta lecito l’accostamento con il metodo dada di decontestualizzazione e ricontestualizzazione di materiale prelevato dalla realtà, mentre è maggiormente rispondente al vero il concetto di pittura intesa come materia concreta tridimensionale. Burri va oltre i francesi. Si libera della materia pittorica, ancora troppo sensibile ai moti profondi dell’esistere. L’artista mette in mostra sacchi strappati, laceri, sporchi, ricuciti o fogli di plastica bruciata. Sono cose che ci parlano di funzioni possedute prima e venute meno dopo e perciò buttate via. Su questo materiale di scarto interviene il maestro creativo che lo anima esternandone la forza espressivo/evocativa. Buchi, pieghe, cuciture sono come dei segni dove volendo, ma non necessariamente, ci si può vedere un paesaggio: il buco è il sole, le pieghe colline, i tagli l’orizzonte, oppure volti, con occhi e bocca. Questa materia, opportunamente manipolata, suscita in chi sa riceverlo un sentimento di pena, di sofferenza, di tormento. Ecco dunque che gli squarci evocano ferite dolenti, le rappezzature cicatrici, le bruciature la devastante esperienza della guerra, la pittura rossa sui tessuti l’idea di bende intrise di sangue.
La serie dei sacchi prende avvio nel 1950/’51. Ma la svolta fondamentale della carriera inizia nel 1953 quando espone due suoi lavori al Guggenheim Museum di New York
Essendo stato uno dei primi artisti a sperimentare la forza evocativo/espressiva della materia consunta, Burri ha anticipato il movimento dell’arte povera. Come artista è l’anti-Rotella: laddove questi prende un’immagine e la strappa il tifernate (tifernati si chiamano gli abitanti di Città di Castello) prende materiali scartati e ci crea un’immagine.
Burri è anche l’unico artista ad aver fatto un monumento ad una calamità naturale, il terremoto. Sulle macerie dello sfortunato paese di Gibellina in Sicilia l’artista cola cemento trasformando il paese nel Grande cretto, una necropoli di calcestruzzo.
I cretti sono tinte industriali mescolate a vinavil, versate in quantità copiosa su un supporto e lasciate asciugare. Durante il processo di essiccamento queste vernici si fessurano formando delle fenditure ogni volta diverse ma strutturalmente simili. Gli addetti ai lavori hanno chiamato materica quest’arte che vede la sostituzione dei materiali tradizionali dell’espressione pittorica con quelli nuovi, circolanti nel mondo moderno, industriale e tecnologico.

Roma, Galleria Marlborough
Lucio Fontana
CONCETTO SPAZIALE: ATTESA (1963)
Olio su tela, altezza mt. 1 – larghezza mt. 1

Collezione privata
Lucio Fontana
CONCETTO SPAZIALE (1967)
Idropittura, lacerazioni e graffiti su tela, altezza cm. 100 – larghezza cm. 81

Lucio Fontana (1899-1968) riparte da Malevič, dal punto zero. In ultima analisi la pittura è colore steso su una tela. La pittura si spiritualizza se il colore steso sulla tela viene caricato di un significato sacro (vedi le icone). Ma il colore e la tela sono materie concrete e in quanto tali hanno tre dimensioni spaziali, alla larghezza e all’altezza va aggiunto lo spessore. La tela è poi fatta di un avanti e un dietro, nonché comprende anche un telaio di supporto. Dunque perché considerare, sembra dire Fontana, pittura solo la superficie e non tutto l’oggetto, compresa la tela? Dunque in ultima analisi cos’è la pittura per Fontana? È spazio esteso avanti, dietro, ai lati e attraverso la materia.
Per far capire che l’essenza della pittura ha tre dimensioni e non due, Fontana fende il supporto; non simula la profondità, la rende concreta.
Lucio Fontana è pure scultore e anche in questo settore si chiede cosa sia in ultima analisi la scultura. La scultura per lui è materia la cui parte corticale, quella visibile a contatto con l’aria viene modellata dalla mano dell’uomo allo scopo di ottenere una figura umana, geometrica, un animale, un alto o un bassorilievo ecc. Ma la scultura non è solo superficie modellata, è anche materia che ha un suo volume, questa materia oltre ad essere spesso abbondante è parte integrante della scultura, anche se non la si vede. A questo punto Fontana interviene col suo lavoro “dicendoci” che non la si vede fintanto che resta sotto la corteccia, diventa visibile invece se si dischiude la superficie.
Questo è il significato del lavoro plastico di Fontana.
Il tema dell’opera Concetto spaziale: attesa è la pittura. Alla domanda cosa vediamo la risposta non può essere che una tela squarciata. Se fosse un “quadro normale”, dipinto, alla domanda cosa vediamo la risposta sarebbe un mazzo di fiori, un paesaggio, un ritratto. Ma se ci si riflette un “quadro” non è altro che una tela dipinta montata su pezzi di legno, solo che la tela non si vede più, schermata da quello che c’è raffigurato sopra. La cosa risulta abbastanza logica: ad esempio quando qualcuno ci parla quello a cui stiamo attenti è il significato delle parole, non pensiamo al fatto che il parlare è emissioni di suoni articolati, aria modulata dai movimenti delle corde vocali e dalla membrana del timpano dell’orecchio. Fontana ci ricorda che un dipinto è un oggetto reale, uno spazio reale, non virtuale, per questo chiama l’opera concetto spaziale.
Fontana lavorò principalmente a Milano dove nel 1930 tenne la prima personale alla galleria Il Milione. Questa fu la prima mostra in Italia nella quale si vide della scultura astratta.
In Argentina, nel 1946 pubblicò il manifesto blanco, in cui intendeva promuovere un nuovo concetto di arte chiamato spazialismo, il quale aspirava ad una cooperazione con uomini di scienza per sintetizzare nuove idee e materiali. Nel 1947, sempre a Milano dette ufficialmente avvio al movimento spazialista, pubblicando il manifesto tecnico dello spazialismo. Le sue prime tele “squarciate” iniziò a produrle nel 1958.

Boston, collezione privata
Arnaldo Pomodoro
ROTANTE PRIMO SEZIONALE (1966)
Bronzo dorato, diametro cm. 80

Arnaldo Pomodoro
DISEGNO DEL PROGETTO DEL NUOVO CIMITERO DI URBINO

Nella Grande sfera di bronzo Arnaldo Pomodoro riprende e approfondisce il discorso plastico di Lucio Fontana. L’opera consiste in un enorme globo di bronzo, levigatissimo in superficie, ma squarciato in vari punti. Da queste lacerazioni non affiora semplice materia ma tutto un mondo di rilievi plastici che nell’insieme ricordano gli elementi di un meccanismo alieno, il prodotto di una tecnologia sconosciuta dal significato oscuro.
Il contenuto precipuo che impronta l’arte di Arnaldo Pomodoro è la dialettica fra ciò che ha forma e ciò che è informe, perfezione e imperfezione, certezze del passato e incertezze del mondo contemporaneo. La forma geometrica è la forma perfetta, e tra tutte le forme geometriche la più perfetta è la sfera. Ma al di sotto della sua superficie si nasconde un universo di elementi squadrati simili a moduli che si dispongono secondo sequenze che ricordano gli elementi elettronici di una macchina o crittogrammi di una mappa interplanetaria come quelli che si rilevano sui dischi d’argilla sumeri ritrovati nella biblioteca reale di Ninive. Per portare alla luce queste presenze interne Arnaldo Pomodoro lacera porzioni di superficie con un’azione simile a quella con cui Lucio Fontana penetra le sue masse sferoidali. Lo chiama “erosione” questo scorticamento ed è un modo di esporre la complessità inestricabile che si nasconde dietro o dentro l’apparente compiutezza. Un’antinomia quella fra perfezione e imperfezione che si traduce anche nel contrasto fra il senso di levigatezza che le sfere di Arnaldo Pomodoro danno nella loro parte corticale e il senso di ruvidezza che danno invece nella loro parte viscerale.
Arnaldo Pomodoro non si limita a trattare solo sfere, fa anche “colonne” e grandi dischi. Le “colonne” sono dei monumenti alla tecnologia o sarebbe meglio dire opere che esprimono l’attrazione dell’uomo verso tutto ciò che è misterioso, tipo i circuiti elettronici, così fascinosamente oscuri, emblema del conflitto proprio dell’uomo moderno fra la volontà umanistica del controllo dei fenomeni e la completa soggezione al loro potere coercitivo.
Dal 1978 al 1980 si dedica al progetto per il nuovo cimitero di Urbino. Secondo la sua idea il nuovo cimitero di Urbino avrebbe dovuto rappresentare un’enorme ferita sulla superficie della terra, allusiva alle condizioni estreme attraverso cui si rende manifesta la vita e la morte: una tipologia troppo originale per essere accettata dalle autorità comunali. Situato su una collina tumuliforme, similmente agli “ingranaggi” delle sfere, le tombe affiorano da sotto l’epidermide prativa come sospinte da una misteriosa forza tellurica. Dallo squarcio grandi blocchi squadrati avanzano allineandosi lungo due assi viari ortogonali a suggerire un ritmo cadenzato e regolare, ripetitivo ma variabile. Risultato? Un complesso di vie cave sepolcrali per esprimere un rinnovato senso di appartenenza alla Madre Terra di etrusca memoria.

Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna
Alberto Giacometti
FIGURA (1956)
Bronzo, altezza mt. 1,33

Zurigo, Kunsthaus
Alberto Giacometti
AUTORITRATTO (1963)
Disegno a matita, altezza cm. 50 – larghezza cm. 32

Londra, Tate Gallery
Alberto Giacometti
SFERA SOSPESA (1930)
Gesso e ferro, altezza cm. 58,5

Anche nel caso di Alberto Giacometti (1901-1966), scultore, nonché pittore italiano di Stampa, Svizzera, non si può parlare di adesione incondizionata all’Astrattismo informale, tuttavia la figuratività che ne caratterizza l’opera è il risultato di un processo di smaterializzazione, riduzione all’essenza strutturale espressiva. Questo risultato in pittura si identifica col segno grafico e in scultura col residuo plastico. Le sue sono forme che prendono vita dall’informe, oscure presenze evocate, che rimandano alle origini surrealiste. Quando giunge a produrre le sculture filiformi ha già percorso molta strada. Il significato di queste figure stirate è lo stesso Giacometti a spiegarcelo. Secondo lui una persona che passa per la strada è priva di peso: il moto diminuisce la gravità. È esperienza comune che un corpo morto pesa di più di un corpo vivo. Con la riduzione delle sue “statue” a sottilissime figure filiformi vuole dare la sensazione di questa mancanza di peso dei corpi in movimento, evocativi dei bronzi etruschi denominati “ombre”.
Con l’arte informale non solo l’individuo, ma l’uomo in generale perde tutte le sue caratteristiche distintive per trasformarsi in un ammasso informe e brutale. Stanti queste premesse risulterebbe impossibile affrontare una tematica come il ritratto, ma non è così.
Il tema contraddittorio del ritratto nella cultura informale impegna Giacometti nell’autoritratto del 1963. La figura scomparirebbe completamente se non fosse trattenuta nel mondo del comprensibile dall’ultimo scampolo di grafite.

Milano, Museo del Novecento
Piero Manzoni
MERDA D’ARTISTA (1961)
Scatoletta di latta, carta stampata, altezza cm. 4,8 – ø cm. 6

La rivolta degli artisti cosiddetti liberi arriva all’apice delle sue manifestazioni con Piero Manzoni (1933-1963). Obiettivo della ribellione è la mercantilizzazione dell’arte, obiettivo raggiunto spesso attraverso opere caratterizzate da uno spirito umoristico. L’artista si fa notare per le sue performance in cui firma i corpi nudi delle modelle, ma soprattutto per l’esposizione di 90 barattoli, sul tipo di quelli della carne in scatola, del peso di 30 grammi ciascuno, firmati, contenenti feci d’artista. La domanda che sorge spontanea nel vederli in mostra come se stessero negli scaffali di un super-market è se veramente racchiudono ciò che dichiarano sull’etichetta. Nessuno li ha mai aperti per vedere se effettivamente vi sono feci o no. Naturalmente ciò che conta in questa provocatoria performance non è l’oggetto messo in mostra, ma il significato del gesto. L’artista non è più l’artefice di opere sublimi, ma il detentore di un’idea, di un pensiero che comunica attraverso “materiale visivo” (cose e azioni). Dietro la manifestazione estrema di Manzoni c’è ancora Duchamp. Questi firmando un orinatoio lo trasformava in una icona, Manzoni apponendo la propria firma magicamente fa diventare opera d’arte le sue feci. Un atto dissacrante senza dubbio, tuttavia, oltre che una velata dichiarazione di orgoglio per il potere di rendere artistici gli escrementi, in questa operazione c’è un limite. Le feci di Manzoni sono rarissime, carissime, sono esposte nei musei alla stregua di grandi opere d’arte. Dunque la dichiarata intenzione di voler distruggere l’alone magico intorno all’arte responsabile della sua mercificazione in questo caso è totalmente fallita.

LA OP ART IN ITALIA

Milano, proprietà dell’autore
Franco Grignani
STRUTTURAZIONE CENTRIFUGA-CENTRIPETA (1965)
Tela, altezza e larghezza cm. 86

Gabriele de Vecchi
SUPERFICIE IN VIBRAZIONE (1959)

Bruno Munari
ORA X (1945)
Orologio sveglia

Davide Boriani
SUPERFICIE MAGNETICA (1966)
Altezza cm. 33,7 – larghezza cm. 30,5 – profondità cm. 12,7

Negli anni Settanta arrivano in Italia i Mobiles. Le nuove strutture espressive trovano subito dei giovani artisti nostrani desiderosi di sperimentarne il funzionamento. Così nel Belpaese oltre ai Mobiles mossi dalle correnti microclimatiche, si collaudano Mobiles mossi medianti meccanismi interni, azionati da motori o campi magnetici. Tipici esempi di quest’ultima soluzione sono le opere di Gabriele de Vecchi (1938-2011) e Bruno Munari.
Di Gabriele de Vecchi è l’opera intitolata Superficie in vibrazione in cui una fitta serie di spilli disposti in file parallele orizzontali e verticali si mettono in movimento nell’istante stesso in cui una corrente li attraversa magnetizzandoli, così da ottenere una superficie continuamente variabile.
Bruno Munari è un designer che fa oggetti puramente visivi. In Ora x c’è una specie di sveglia in cui variamente ruotano dei semidischi colorati sincronizzati su diversi tempi, di modo che si sovrappongano in momenti che non sono mai gli stessi. L’oggetto non è un’opera d’arte nel senso tradizionale della parola, in quanto è pensato per essere prodotto in serie, si tratta più che altro di un oggetto puramente estetico, commerciabile però a livello di mercato pubblico e non ristretto al solo settore del collezionismo privato.
Appartenente sempre alla Op Art italiana è l’abbastanza nota Superficie magnetica di Davide Boriani, un congegno in cui della polvere di ferro si muove su un disco magnetizzato dislocandosi nelle più disparate zone assumendo le più improbabili forme. Inoltre, tra i copiosissimi prodotti Op, vanno ricordati i congegni luminosi di Grazia Varisco. Usando un sistema analogo a quello di Bruno Munari, Grazia Varisco ottiene degli oggetti luminosi mutevoli, attualizzando quelli che furono gli esperimenti luminosi condotti all’inizio del Novecento da Baronoff Rossiné (1888-1944).

ARTE INTERATTIVA

Proprietà dell’autore
Enzo Mari
STRUTTURA N. 495 (1959)
Oggetto a composizione auto-condotta, altezza cm. 25 – larghezza cm. 25 – spessore cm. 5

Rientrano nel genere Op anche le esperienze dell’Arte Interattiva in cui si richiede la partecipazione del pubblico. Fra le varie soluzioni escogitate per procurare energia ai Mobiles op c’è anche una ennesima soluzione ed è quella in cui a fornire la fonte per il movimento è lo stesso osservatore. Uno degli esempi più noti è quello fornito da Enzo Mari col suo Oggetto a composizione autocondotta. Si tratta di un oggettino costituito da 18 pezzi a forma di figure geometriche elementari, quadrati, rombi, triangoli, liberi di muoversi nel sottile interspazio racchiuso fra due lastre di vetro fissate da una cornice quadrata; parte integrante del congegno è un’asticciola rettangolare fissata su uno dei bordi, azionabile dall’esterno. Facendolo appoggiare di volta in volta su lati diversi la disposizione interna dei pezzi cambia producendo così immagini astratte sempre diverse; l’asticciola facilita la combinazione dei pezzi.
Interagendo con questo giocattolo sorge spontanea la domanda dov’è l’arte. Non è tanto nell’oggetto, molto semplice nella sua forma e ottenibile mediante procedure industriali, quanto nella sua ideazione che comprende un piano attuativo rigoroso, ovvero nella programmazione dell’oggetto. Ora, di fronte a queste esperienze non si può fare a meno di chiedersi se l’arte può essere ridotta ad un giochetto, neanche tanto intelligente. Al di là del giudizio che se ne può dare, quello che storicamente conta è che in queste opere si assiste ad un decadimento dei grandi valori a cui l’attività creativa ha sempre guardato, quali quelli di verità e bellezza, sostituendo ad essi quelli più effimeri di novità fine a sé stessa, anche banale. È già successo alla fine del Cinquecento con le anamorfosi che tanto divertivano il pubblico dell’epoca, e succede oggi. Cos’hanno da condividere storicamente queste espressioni così lontane tra loro nel tempo? Ma semplicemente il fatto che entrambe fanno parte di un momento di crisi.

POESIA VISIVA

Eugen Gomringer
WIND

Emilio Isgrò
LIBRO CANCELLATO (1966)

Giuseppe Chiari
LA SERENATA (1984)
Mista tela, altezza cm. 130 – larghezza cm. 75

I neo rivoluzionari anni Sessanta tengono a battesimo anche la tendenza definita poesia visiva. Si tratta di un orientamento diretto a rinnovare il rapporto intercorrente tra parola scritta e immagine. Nelle realizzazioni dei sostenitori di questo indirizzo c’è il superamento della tradizionale forma lineare della pagina stampata in favore di un’organizzazione del testo in forme apprezzabili esteticamente, distribuendolo sul foglio come farebbe un pittore con i colori sulla tela. In questo modo i rapporti tra le singole parole non avvengono solo alla luce delle leggi sintattiche e metriche dello scrivere ma anche tenendo conto delle caratteristiche formali dell’insieme.
Generalmente i testi creati da questi artisti sono brevi e debolmente strutturati. Sono testi formati da titoli, slogan, singole parole usate per il proprio intrinseco autonomo significato. I font non sono soltanto quelli della letteratura, vengono liberamente tratti dai canali di comunicazione di massa: la pubblicità, i fotoromanzi, i rotocalchi, i fumetti.
La poesia visiva è originariamente legata al Gruppo Settanta, fondato a Firenze nel 1963; gli aderenti al movimento sono numerosissimi.
Poesia visiva si sviluppa soprattutto in Europa e in America del Sud. Suoi precursori sono quei poeti che già alla fine dell’Ottocento avevano indagato le possibilità espressive offerte dall’elaborazione tipografica del verso. Non solo, ma nel primo Novecento altre avanguardie avevano immesso nel dipinto elementi verbali come il Cubismo, il Futurismo, Dadaismo e Surrealismo.
Per Emilio Isgrò l’estetica può aiutare la letteratura nella ricerca dell’essenziale. Scrittore e artista, sperimenta il metodo interdisciplinare immagine/testo.
Come è noto la parola scritta non è altro che una serie di segni associati a dei suoni che assumono significati diversi a secondo di come vengono messi insieme. Nessuno si sognerebbe mai di considerare le parole scritte come cose in sé. Nessuno tranne un artista. Nella cosiddetta poesia visiva si fa proprio questo: si considerano le parole scritte non per il loro significato ma per la loro esteticità, cioè vengono viste come pure immagini, depurate del loro contenuto concettuale. Che le parole scritte abbiano un loro fascino autonomo è fuori discussione dal momento che da sempre nella storia si sono usati caratteri diversi a seconda delle occasioni, ma mai e poi mai erano state viste come oggetto in sé.
Tanto per fare un esempio si pensi alla firma del Van Eick (1390-1441 c.) sul Ritratto dei coniugi Arnolfini o alle iscrizioni sugli archi trionfali. Per venire poi agli esempi più recenti basti pensare al papier collé nei quadri cubisti o al decollage, dove pezzi di parole rimangono visibili qua e là, e ai calligrammi di Apollinaire (1880-1918) in cui le parole sono disposte in modo da assumere la forma dell’oggetto di cui si parla. Naturalmente anche in questa corrente si distinguono diverse interpretazioni del fenomeno. Così, ad esempio, si possono ottenere effetti estetici astratti mettendo insieme secondo un ordine studiato le lettere di una stessa parola facendo bene attenzione al loro rapporto reciproco e col fondo come fa Eugen Gomringer con la parola wind (vento) nel 1975.
Emilio Isgrò invece trae effetti visivi dalle cancellature. In sostanza prende un ritaglio di testo di giornale poi cancella con larghe bande nere quasi tutte le parole, lasciandone leggere solo alcune. Giuseppe Chiari (1926-2007) preleva stampati di vario genere come spartiti musicali e l’incolla su un supporto capovolti per fargli perdere il significato e riproporli come pura immagine, quindi li scarabocchia con segni, ritagli di altri stampati, macchie di colore. Insomma, in sostanza si tratta di una singolare applicazione della tecnica dada del ready-made, ovvero decontestualizzazione e ricontestualizzazione di oggetti, solo che qui gli oggetti sono le parole.

LE INSTALLAZIONI

Roma, Galleria l’Attico
Jannis Kounellis
DODICI CAVALLI VIVI (1969)
Installazione

Maurizio Cattelan
SENZA TITOLO (1998)
Albero di olivo e terra, altezza mt. 6

Se l’arte dada era arrivata a negare la tecnica nelle cosiddette installazioni si arriva a negare anche l’opera d’arte. Infatti in queste “performance” (esibizioni) le opere assumono dimensioni che chiamano in causa la scala ambientale, di difficile collocazione nei luoghi tradizionalmente deputati ad accoglierle in modo permanente, come musei e case private. Il motivo? Lo stesso che sottende alle risoluzioni paradossali della soppressione delle tecniche nell’arte, cioè la volontà di negare all’arte della società moderna anche l’ultima condizione che la lega alla cultura storica, cioè l’essere un’attività produttrice di beni pregiati. I criteri di queste azioni sono tutti da ricercare nella volontà di proporre come valore l’esatto contrario di quello che viene considerato prezioso nella società tecnologica e industriale. L’arte di una società per cui tutto è consumabile non può che essere un processo creativo di oggetti dotati di valore senza però che questi si trasformino necessariamente in merce. E questo risultato è possibile ottenerlo con le installazioni.

Jouy-en-Josas, Parigi
Arman
LONG TERM PARKING (1982)
Acciaio e cemento, altezza mt. 18

Nel merzbau Kurt Schwitters (1887-1948) riporta il passato al presente, in Long term parking Arman (1928-2005) proietta il presente nel futuro. Long term parking è un’installazione permanente alta 18 mt., composta da 60 auto, per lo più francesi, incastonate in 40.000 libbre (18.000 kg) di cemento. Quest’opera è l’immagina di quello che si troverà di fronte un archeologo del terzo millennio allorquando farà un carotaggio nell’area dove sorgeva Jouy-en-Josas, centro urbano vicino Parigi. Una catasta di automobili ammassate nel fango accumulatosi nei secoli divenuto duro come cemento. È l’emblema di un tempo in cui si accantonava perché il mercato offriva più di quello che si riusciva a consumare. Capi d’abbigliamento che non si indossarono mai perché passati di moda da un anno all’altro, video, film, documentari che non si sono mai guardati, libri mai letti, alimenti dimenticati nel frigo, automobili lasciate parcheggiate perché inutilizzate a causa della paralisi degli spostamenti dovuti al loro eccessivo numero. Una tecnica di conglomerazione quella di Arman il cui fine non è salvare il passato, ma profetizzare il futuro.

RELAZIONE TRA FUNZIONALISMO E INSTALLAZIONI

Non è possibile pensare a qualcosa di più lontano dalle installazioni del funzionalismo, eppure c’è un sottile filo rosso che unisce questi due indirizzi apparentemente così distanti tra loro.
Ricorrendo ad un esempio paradigmatico si può affermare che il programma culturale degli “installatori” è identico a quello dei “funzionalisti”: in entrambe le correnti si vuol impedire la monopolizzazione del godimento dell’arte da parte delle classi agiate, evitandone contemporaneamente la sottrazione dal cuore pulsante della società moderna, il mercato; diversa è solo la pratica attuazione. Infatti, nei secondi l’obiettivo viene raggiunto rendendo l’oggetto artistico alla portata di tutti, nei primi viene raggiunto, invece, rendendolo alla portata di nessuno.
Per i funzionalisti l’arte non si identifica più in qualcosa di concreto, mentre per gli installatori sì. Per entrambi però la creatività si esprime attraverso le tracce concrete che lascia nei documenti oggettivi, documenti che per i primi saranno costituiti dagli oggetti seriali, mentre per i secondi dalla documentazione dell’avvenimento, entrambi privi di valore.

ARTE POVERA

Mario Merz
OBJET CACHE-TOI (1986)

Giovanni Anselmo
TORSIONE (1963)
Ferro e fustagno su cemento

L’Arte Povera presenta molte affinità con le esperienze neodada, infatti come queste esprime l’incompatibilità dell’arte con l’attuale società dei consumi.
È un’arte che nasce in Europa nel 1966 e trova una particolare predilezione presso gli artisti italiani rimanendo attiva per tutti gli anni Settanta. Ha avuto il suo epicentro a Torino, dove operavano le gallerie Christian Stein, Sperone e Notizie, che da subito hanno sostenuto gli esponenti del gruppo.
Il nome arte povera fu pensato dal critico Germano Celant (1940-2020) nel 1967 in occasione di una mostra a Genova. Rappresentò una delle neo-avanguardie più originali del panorama europeo degli anni Settanta, in controtendenza con l’estetica pop e minimalista.
Le manifestazioni caratterizzate dall’uso di materiali poveri e di elementi naturali come rame, terra, acqua o pietra, in alcuni casi persino animali in carne ed ossa, oscillano tra i ready-mades, come quello di Giovanni Anselmo, e le installazioni, come la celebre 12 cavalli di Jannis Kounellis del 1969.
Uno dei lavori più noti è Torsione, uno straccio inamidato attorcigliato ad un bastone in equilibrio su un cubo di cemento. Il valore di questa “rappresentazione” contemporanea non sta altro che nel modo di esprimere uno sforzo in atto attraverso un intervento ready-made applicato ad oggetti emblematici di una umilissima realtà quotidiana.
Principali figure del movimento sono gli artisti che partecipano alla prima mostra del 1967, Giulio Paolini, Alighiero Boetti, Luciano Fabro, Emilio Prini, Jannis Kounellis e Pino Pascali. In seguito la definizione arte povera viene estesa anche alle opere di Enzo Mari, Mario e Marisa Merz, Michelangelo Pistoletto, Pierpaolo Calzolari, Giovanni Anselmo, Gilberto Zorio e Pietro Gilardi.

BODY ART

Milano, Galleria Diagramma
Gina Pane
ACTION SENTIMENTALE (1973)

Se l’arte è espressione di contenuti, concetti, idee, senza ricorrere al medium linguistico della pittura e della scultura, come ci si potrà esprimere rinunciando totalmente anche all’oggetto? La risposta a questa domanda è la Body Art.
La Body Art (arte del corpo) si sviluppa tra la fine degli anni sessanta e la metà degli anni settanta. Anche nel suo caso le premesse vanno ricercate nel dadaismo di Duchamp. Nel 1919 durante la performance Tonsura l’artista si mostra di nuca con i capelli tagliati in modo da far apparire una stella a cinque punte con una striscia al centro della testa. L’evento fu poi immortalato da Man Ray (1890-1976).
Nella poetica del corpo ci si serve della gestualità per esprimere sentimenti e sensazioni, ci si esibisce in pose desuete al solo scopo espressivo. È una disciplina in cui si fondono esperienze mutuate dal teatro e dalla danza, è gestualità, mimica spinta all’eccesso.
La Body Art si oppone all’idea di un’arte inespressiva, impermeabile ai sentimenti, puramente mentale, come avviene nella Minimal Art e nella Conceptual Art, si opta invece per il coinvolgimento sentimentale, il trasporto passionale, le forti emozioni. Le body performance sono all’insegna dell’improvvisazione, della decontestualizzazione e dell’aleatorietà degli interventi. È di fondamentale importanza nella rappresentazione estemporanea che l’azione non sia programmata e avvenga in un luogo non istituzionalmente deputato allo svolgimento di quel particolare tipo di manifestazione. Inoltre è indispensabile che l’avvenimento nasca e finisca nello stesso momento in cui l’autore decide di esibirsi, non lasciando altra traccia di sé se non una mera documentazione fotografica. Limite critico fondamentale della Body Art è che l’artista non si esprime più come scultore o pittore, ma come attore, o meglio mimo.
La Body Art condivide con il Living Theatre e l’Happening la ricerca di un linguaggio effimero, irrazionale. Le performance sono sempre all’insegna dell’esagerazione scenografica, sfiorando in alcuni casi il sadomasochismo come nelle esibizioni di Gina Pane (1939-1990), la quale durante una “esposizione” è arrivata a tagliuzzarsi con lamette da barba e infilarsi spilli nel corpo; in altri happenings invece gli autori si sono serviti di modelle sul cui corpo nudo hanno improntato figure astratte in diretta, davanti agli occhi di un pubblico incuriosito e perplesso.
I tratti comuni degli artisti che abbandonano i linguaggi tradizionali per esprimersi con il corpo possono essere ricondotti ai seguenti: perdita d’identità, rifiuto del prevalere del senso della realtà sulla sfera emozionale, romantica ribellione dalla dipendenza da qualcosa e da qualcuno, tenerezza come meta mancata quindi frustrante, assenza e angoscia derivante da una forma adulta altruistica d’amore.

Biennale di Venezia
Marina Abramovič
Balkan Baroque (1997)

Dai primi anni settanta Marina Abramovič utilizza il suo corpo come strumento di ricerca artistica diventando così una protagonista della Body Art.
Marina Abramovič ha spesso lavorato in condizioni estreme di sofferenza fisica o tensione psicologica, mettendo a dura prova la sua capacità di sopportazione e suscitando nel pubblico forti reazioni emotive. Tra le numerose performance va ricordata quella intitolata Balkan Baroque con la quale vince il Leone d’Oro alla biennale di Venezia.
L’artista si fa trovare dai visitatori seduta su un mucchio di 500 grandi ossa di bovini intenta a ripulirne altre 2.000 con una spazzola, per otto ore al giorno. L’obiettivo di questo rituale macabro di purificazione era indurre il prossimo a riflettere sui conflitti che stavano sconvolgendo la sua terra d’origine, la Serbia: un’esibizione scioccante per scuotere le coscienze. Se l’obiettivo è stato raggiunto o meno non si sa con certezza, quel che è sicuro è che la performance ha suscitato negli spettatori grande curiosità.
Come Beuys, Marina Abramovič è ottimista sulle possibilità che ha l’arte di risvegliare le coscienze. Tuttavia rimane da vedere quanto queste esibizioni siano efficaci nel trasmettere contenuti condivisibili e non siano, viceversa, d’ostacolo alla loro diffusione, data l’ostentata artificiosità delle performance.

L’ARCHITETTURA DEL SECONDO NOVECENTO: IL DOPOGUERRA

Subito dopo il secondo e più devastante conflitto mondiale, all’inizio dei lavori di riedificazione dei centri urbani, le forze operative si rendono ben presto conto dell’inadeguatezza della cultura urbanistica degli anni venti e trenta; non basta a fronteggiare, satura com’è di rigorose sintesi ideologiche e formali, lo scenario socioeconomico, sempre più complesso. Per affrontare la nuova fase ricostruttiva occorre reimpostare il problema urbanistico sulla base della complessità ambientale o, come diremmo oggi, ecologica, e superare definitivamente il taglio funzionalista.
In risposta a tali esigenze, a partire dagli anni cinquanta, vengono avanzate proposte, sperimentate soluzioni, ma sorprendentemente le idee ad imporsi non sono quelle degli architetti europei, quelle di Gropius, bensì quelle provenienti da oltreoceano, quelle di Wright, e il nuovo volto delle città somiglia sempre più a quello disegnato dalla progettazione organica e non da quella razionalista.
Nella visione di Wright, contrariamente che in quella di Gropius, non è il tessuto urbano che qualifica l’architettura, ma è l’Architettura a determinare l’urbanistica. Il Museo Guggenheim, che Wright costruisce nel cuore di New York nel 1943, fa scuola. È spazio che a ridosso del Central Park si avvolge a spirale interrompendo l’allineamento prospettico determinato dalla scacchiera viaria. La cosa si capisce: è un museo d’arte, un’esperienza estetico-culturale, un luogo diverso, non si può uniformare al contesto. L’eterodossia anti-razionalista coinvolge lo stesso Le Corbusier, uno dei padri del Razionalismo Architettonico, il quale nella Cappella di Notre-Dame-du-Haut a Ronchamp, abbandona il linguaggio geometrico a favore di una parlata più sciolta, più aperta al dialogo con lo spazio esterno, movimentata dalla presenza di esagerazioni espressive. Come nella ricusata tradizione espressionista l’edificio è pensato alla stessa stregua di una scultura, apprezzabile per ciò che suscita e non solo per come funziona.
La riserva nei confronti del Razionalismo riguarda una serie di punti divenuti distintivi di uno stile insostenibile quali: la censura estesa ad ogni tipo di ornamento, la priorità della funzione rispetto alla forma, la geometricità euclidea nella scelta della morfologia strutturale, la dittatura dell’angolo retto, la scelta di materiali ritenuti validi per ogni contesto, il prospetto simile ad una griglia, il paragone tra abitazione e macchine (Le Corbusier diceva che “Una casa è una macchina in cui vivere”), ma soprattutto le soluzioni che dovevano essere universalmente applicabili; insomma ci si erge contro uno stile ritenuto disumano.
La diffusa e generalizzata reazione al movimento razionalista produce una cospicua quantità di proposte alternative. Alcune sono pervase da uno spirito provocatorio e sarcastico e si manifestano sottoforma di progetti utopistici il cui intento è quello di sottolineare l’inadeguatezza della minuziosa progettualità che aveva caratterizzato la precedente ricerca modernista.

L’ARCHITETTURA NEOESPRESSIONISTA

Berlino, Filarmonica
Hans Scharoun
ESTERNO (1960/1963)

Non essendo mai stata codificata un’architettura espressionista non si può neanche parlare di architettura neoespressionista. Eppure l’Espressionismo in architettura risorge imperioso nel secondo dopoguerra, anzi è tanto dirompente nel clima di generale crisi dello stile internazionale da essere la tendenza architettonica contemporanea più comune a livello globale.
Hans Scharoun (1893-1970) muove da esperienze vicine a quelle di Mendelshon (1887-1953), in seguito si avvicina alla poetica razionalista e quindi organica. Anche lui è costretto al silenzio sotto il regime nazista. Finita la guerra diventa uno dei più importanti architetti a livello mondiale; il suo orientamento viene definito espressionismo organico. Firma uno dei più insigni teatri moderni, sede della Filarmonica di Berlino, prestigiosa orchestra sinfonica, fra le maggiori al mondo. L’edificio ha forme frastagliate, mosse, ondulanti, lontane dal rigorismo morfologico del funzionalismo razionale tedesco. Ma la sagoma è forgiata tenuto conto della funzione principale del complesso, che è quella di garantire una perfetta acustica, e l’assenza di un ordine per così dire logico, che è la sua caratteristica peculiare, è dovuta proprio all’assecondamento delle leggi che governano la naturale propagazione del suono, che di geometria non ne vogliono sapere.

IL RAZIONALISMO ITALIANO

Roma, palazzo della Rinascente
Franco Albini
ESTERNO (1957/1961)

Milano, grattacielo Pirelli
Giò Ponti
ESTERNO (1956/1960)
Altezza mt. 127,10

Milano, torre Velasca
B.B.P.R.
ESTERNO (1957)

La ripresa edilizia nel secondo dopoguerra segna un decisivo passo avanti in direzione dell’universalizzazione del linguaggio architettonico di matrice razionalista, ma con una chiara tendenza ad allentare la ferrea logica funzionalista in favore di una esaltazione monumentalistica delle strutture architettoniche. In Italia il risveglio è caratterizzato dalla dialettica fra il fronte dei razionalisti e quello degli organici, analoga in un certo senso a quella che si va sviluppando in pittura e scultura fra astrattisi geometrici e informali. Nel 1950 nel dibattito s’inserisce una nuova tendenza che sposta il dialogo sulla scelta fra architettura e urbanistica, o meglio fra un modo di concepire il rapporto singolo edificio/ambiente urbano. Tuttavia al di là delle diversità di ordine tecnico, quello che si può definire Neorealismo Architettonico non è altro che il Razionalismo applicato alla costruzione di interi quartieri cittadini: ne è esempio eloquente il quartiere Tiburtino di Mario Ridolfi (1904-1984) e Ludovico Quaroni (1911-1987).
Non mancano comunque realizzazioni di rilievo nel campo più tradizionalmente costruttivo edificatorio. A Roma spicca il palazzo della Rinascente a Piazza Fiume di Franco Albini (1905-1977), a Milano il grattacielo Pirelli di Giò Ponti (1891-1979) e la torre Velasca del gruppo B.B.P.R., ovvero Banfi (1910-1945), Belgiojoso (1909-2004), Peressutti (1908-1976), Rogers (1909-1969).