VISITA AL TEMPIO DI HERA ARGIVA ALLA FOCE DEL SELE

Capaccio, Foce del Sele
HERAION ALLA FOCE DEL SELE o TEMPIO DI HERA ARGIVA (VI sec. a.C.)

Paestum, Museo Archeologico Nazionale di Paestum
METOPE ARCAICHE
Provenienti dall’ Heraion alla Foce del Sele o Tempio di Hera Argiva (VI sec. a.C.)
Arenaria

La Magna Grecia è la Grecia d’Italia, o, come dice Ovidio (43 a.C. – 17 d.C.) nei Fasti (cap. IV), l’Italia dell’età arcaica. I miti greci raccontano di come Giasone se ne andasse in giro per il Mediterraneo a fondare nuove città e santuari: siamo una generazione avanti a quella degli eroi di Troia. Andare in giro per il Mediterraneo all’epoca di Giasone era come andare in giro per il globo all’epoca di Magellano, ovvero significava affrontare un viaggio avventuroso, pieno di incognite e d’insidie. Ciononostante lui e i suoi compagni, gli Argonauti, non rinunciarono a fare i pionieri e dove arrivavano lasciavano il segno. Uno dei posti da loro toccati è la piana del Sele, e qui alle sue foci fondarono il santuario di Hera Argiva, il cui culto, lo dice la parola stessa, era praticato in modo particolare nella loro terra, la città di Argo. Questa è la leggenda; ma la storia ci dice che la fondazione del santuario va collegata alla colonizzazione greca del bacino del Mediterraneo avvenuta nel corso dell’VIII secolo a.C. Per rivivere in prima persona gli effetti di quella colonizzazione, fondamentale per la nascita della nostra civiltà peninsulare, dirigiamoci con la Nuova Argo nel VI secolo a.C. e seguiamo una nave di pellegrini argivi che sta prendendo il largo in rotta per l’Italia; scopo del viaggio: far visita al santuario.
È da qualche giorno che stiamo veleggiando, il vascello scivola lento lungo la bassa costa del Tirreno cilentano. A ovest è il mare aperto, a est la spiaggia deserta, quindi le dune con le propaggini pioniere della macchia mediterranea; sullo sfondo s’intravedono a nord i Monti Lattari, a nord-est i Monti Picentini e a est i Monti del Cilento. Ad un certo punto ci facciamo incontro ad un estuario: è la foce del Sele. Lo imbocchiamo e lo risaliamo per un breve tratto (oggi il santuario si trova a circa un chilometro e mezzo dalla foce); al di là del fiume ci sono genti che parlano etrusco, al di qua ci sono i compatrioti dei pellegrini greci. Giungiamo ad un approdo; ancorata la nave, scendiamo e ci inoltriamo in un canneto, poi attraversiamo un lussureggiante bosco igrofilo, con olmi, pioppi e salici. All’improvviso sbuchiamo in una radura dove ci si para di fronte con tutta la sua prorompente imponenza il tempio di Hera Argiva. I passeggeri greci ne riconoscono subito l’appartenenza alla loro cultura per via delle inconfondibili forme. Ad accoglierci e darci riparo ci sono due stoai lunghi uno mt. 30 e l’altro mt. 24,50, profondi mt. 7,69 il più lungo e mt. 7,05 il più corto. Si tratta di impianti arcaici: le colonne sono ancora di legno. In essi incidentalmente si possono svolgere cerimonie lustrali o sacrificali. Ma oggi niente sacrifici.
Il santuario è stato appena costruito al posto di un altro, progettato oltre trent’anni prima ma mai realizzato, di cui tuttavia rimangono alcuni elementi da riciclare come 40 metope. Il tempio è di tipo ottastilo periptero, la cella è in antis tripartita con pronao ionico, naos e adyton. Ai lati dell’ingresso della cella ci sono due vani scala che collegano il pian terreno al piano superiore e al tetto. Il fregio è dorico; di esso ci rimangono tre triglifi e dodici metope. Gli spioventi del tetto sono decorati da antefisse a testa di leone. Davanti al fronte est, fuori asse con il tempio, ci sono le due are monumentali, una di mt. 15 l’altra di mt. 9, con la base articolata in quattro gradini, di cui l’ultimo adibito a mensa sacrificale. Entrambi hanno una balaustra su tre lati formata da grosse lastre, quasi quadrangolari, fatte col calcare del luogo: sono state avanzate molte ipotesi sulla duplicità degli altari ed è molto probabile che avessero funzioni differenti nell’ambito delle cerimonie di culto. Mentre ci attardiamo a guardare i particolari, notiamo che di lato a noi si fanno avanti dei sacerdoti accompagnati da assistenti con al guinzaglio degli arieti: segno inequivocabile che sta per avere inizio la cerimonia religiosa. Tra uno scannamento e l’altro, vediamo che gli argivi svoltolano dei panni di lana e tirano fuori delle statuette di terracotta che rappresentano Hera e le vanno a seppellire chi in fosse votive chi nelle favisse, cioè celle sotterranee. Sono i doni recati in offerta alla dèa; sono sacri e non possono essere riutilizzati o distrutti, ecco perché vengono raccolti e sepolti. Tra le statuette, numerose sono le immagini della dèa che allatta il bambino (kourotrophos) e assisa in trono con melagrana o cestello di frutta (Hera pestana). Migliaia di copie di queste statuette sono state sistemate all’interno di uno dei due silos del museo allo scopo di farci rivivere il clima pieno di mistero che si respirava all’interno di alcuni di questi pozzi di raccolta adibiti a luoghi di riti speciali. A rendere il tutto ancora più suggestivo gli allestitori hanno pensato di farci anche ascoltare le litanie che accompagnavano i rituali. Le statuette non sono tutte dello stesso periodo, ma abbracciano un arco di tempo che va dal VI alla metà del II secolo a.C.
Un po’ infastiditi da tutto quel sangue il nostro sguardo vaga altrove e all’improvviso viene catturato dalle metope, coloratissime. Le scorriamo ma non capiamo cosa raccontano. Chiediamo ad un argivo di spiegarcele, e lui generosamente ce le spiega. Così senza neanche accorgercene ci ritroviamo a leggere sulle metope del fregio le storie più care alla gente greca. Prima di lasciare la parola al nostro accompagnatore occorre però precisare che non c’è nessuna certezza documentaria che le metope ritrovate appartenessero tutte al tempio. Anzi per lungo tempo sono state erroneamente considerate appartenenti al fregio del piccolo edificio rettangolare rinvenuto sul lato nord del santuario interpretato come un thesauros. Precisato ciò poniamoci all’ascolto.
La spiegazione si apre con una premessa sulla funzione delle storie narrate nel fregio. Questa funzione mira a rinsaldare i vincoli d’appartenenza e l’identità culturale, nonché ricordare le lotte che i leggendari antenati del popolo greco hanno ingaggiato per esportare la civiltà nel mondo selvaggio e incolto. Quindi si passa ai dati tecnici. Di metope se ne contano oltre 70, pertanto costituiscono uno dei cicli lapidei più complessi dell’Occidente antico. Di esse circa 40 sono della prima metà del VI secolo a.C., sono scolpite in arenaria e sono opera di maestranze locali; molto probabilmente erano state scolpite per il primo santuario, mai costruito. Sulle loro facce ci sono raffigurate storie di vari personaggi quali Eracle, Achille, Giasone, Ulisse, Oreste. Esauriti i dati tecnici si passa all’illustrazione dei soggetti raffigurati.
Ecco dunque che le prime immagini ad apparirci sono quelle in cui si vede Eracle alle prese con tutta una serie di esseri sinistri, mostri mitologici, loschi individui e bestie feroci, come i Centauri, i Sileni, i Cercopi (due fratelli ladroni), il leone di Nemea, il toro cretese e il cinghiale di Erimanto. Qual è il loro significato? Eracle è l’eroe civilizzatore, colui che bonifica le terre, elimina i pericoli dovuti alla presenza di animali feroci, porta la legge laddove legge non c’è, l’ordine civile e sociale là dove questo viene disatteso. Una lastra in particolare riporta l’episodio dell’uccisione del gigante Alcioneo. Questi era un mandriano dotato di una forza sovrumana che si divertiva a terrorizzare la povera gente della Flegra, una regione della Tracia. Gli sventurati, ormai alla disperazione, non sapendo più cosa fare invocano l’aiuto di Eracle, il quale interviene uccidendo il malversatore con la spada mentre tentava di scappare.
Dopo quelle dedicate all’eroe di Tebe iniziano quelle dedicate alla guerra di Troia e al suo principale protagonista, Achille. Achille è un eroe molto amato dai Greci; è quello che incarna l’idea stessa dell’eroe greco. Achille è il valoroso, il prode, nato per morire giovane, per lasciare presto le sue spoglie terrene ma per vivere in eterno nel cuore della gente. Il ciclo ci rammenta dell’agguato a Troilo, il più giovane dei figli di Priamo, tesogli mentre questi portava i cavalli all’abbeveraggio; quindi dell’uccisione di Patroclo e del compianto sul cadavere di Ettore da parte della moglie, della madre e della cognata. A seguire il tempio ci rammenta anche la vicenda di un altro eroe della guerra di Troia, Aiace; una vicenda dal triste epilogo. Infatti la lastra ci mostra l’eroe che si suicida buttandosi a corpo “morto” su una spada puntellata a terra. Omero, il grande poeta, racconta di come Teti, madre di Achille, aveva deciso di donare le armi di suo figlio, qualora fosse stato ucciso, al più forte dei Greci della campagna contro Troia. Essendo Aiace, re di Salamina il più valoroso degli eroi greci dopo Achille, le armi sarebbero aspettate di diritto a lui e invece vanno a finire nelle mani di Ulisse. Vedendosi ingiustamente privato del suo diritto, l’eroe piglia e si suicida. A quel che succede al ritorno di Agamennone da Troia si riferiscono invece le lastre con l’assassinio del re di Micene per mano di Egisto e Clitennestra, nonché la vendetta di Oreste. Più in particolare a questo episodio va collegato il bassorilievo con effigiate due figure femminili, delle quali una brandisce una bipenne mentre l’altra è còlta nell’atto di trattenerla. Secondo gli esperti la scena si riferisce al momento in cui Clitennestra cerca di colpire il figlio per impedirgli di uccidere il suo amante, ma viene fermata nel suo intento da Laodamia, fedele nutrice di Oreste.
Proseguendo il giro ci si imbatte in alcune metope di difficile interpretazione, come quelle in cui si vede un uomo a bagnomaria in un calderone. Si potrebbe riferire all’abluzione ringiovanente a cui Medea sottopone Giasone, o alla triste fine di Pelia, fatto a pezzi e bollito dalle figlie, convinte da Medea che facendoci il brodo lo avrebbero fatto ringiovanire. Ma la figura più misteriosa di tutte è senz’altro quella che ci mostra un uomo su una tartaruga che scruta l’orizzonte; un’immagine insolita, rara, quasi unica. Cosa rappresenta? E qui anche il nostro accompagnatore si trova in difficoltà: «che si tratti dell’episodio del naufragio di Ulisse tra i vortici di Scilla e Cariddi, salvato forse da una tartaruga?» Potrebbe essere. Anche perché se così fosse sarebbe la logica conclusione dell’intero ciclo narrativo, che giustamente termina con Ulisse, l’eroe che rappresenta l’anello di congiunzione fra il mondo divino e quello terreno.
Finita la spiegazione chiedo al narratore argivo che importanza ha questo fregio per la storia dell’arte. E lui di rimando a me: «me lo dica lei che fa il professore di storia dell’arte.» E si! Mi sa proprio che stavolta tocca a me parlare.
Sarò breve: «Come per la pittura anche per la scultura la Magna Grecia rappresenta una fonte speciale per farsi un’idea meno approssimativa della cultura greca arcaica. Tuttavia c’è da rilevare che nelle versioni coloniali emerge una certa mollezza nel modellato, dovuta sicuramente più al materiale impiegato che non allo stile, nonché una cetra promiscuità nei motivi canonici e una certa irregolarità nelle proporzioni originarie, dovute queste ultime non tanto ad un’interferenza delle culture indigene su quella della madre patria, quanto piuttosto al fatto che le maestranze operanti in Italia provengono da diverse regioni della Grecia.»