IL BAROCCO IN EUROPA: I FIAMMINGHI
I FRANCESI
GLI OLANDESI
FRANS HALS E LA POETICA DEL CARPE DIEM
GLI SPAGNOLI


IL BAROCCO IN EUROPA: I FIAMMINGHI

Roma, chiesa di Santa Maria della Vallicella
Pieter Paul Rubens
TRITTICO DELLA MADONNA DELLA VALLICELLA (1608 c.)
Olio su ardesia, altezza mt. 4,25 – larghezza mt. 1,75 (pannelli laterali)
e mt. 2,50 (pannello centrale)

Il caravaggismo va ben al di là del Caravaggio (1571-1610) e dei caravaggeschi. Approda nei Paesi Bassi, oltre che attraverso il rimpatrio dei pittori fiamminghi stanziatisi a Roma tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento, attraverso la diffusione del schilderboek, un libro, opera del Van Mander (1548–1606), in cui il modo di dipingere del Merisi viene ridotto a metodo. Anche il Barocco è un fenomeno europeo che parte da Roma. A promuoverlo nei Paesi Bassi è Pietro Paolo Rubens (1577-1640).
Pieter Paul Rubens impersona il barocco pittorico europeo. Nasce a Siegen, in Germania, il 28 giugno. Suo padre è un fiammingo calvinista; lui diventa cattolico in seguito agli studi umanistici. A 14 anni inizia l’apprendistato artistico con Tobias Verhaeght (1561–1631). Già dalle primissime opere si evince la sua propensione naturale verso il classicismo, cosa questa che lo porta nel maggio del 1600 a partire per l’Italia. Nel Belpaese si ferma otto anni. Viene per motivi di studio: studia Tiziano (1488 c. – 1576), Veronese (1528-1588), Tintoretto (1518-1594); ma Vincenzo I Gonzaga, duca di Mantova (1562-1612), visto il suo innato talento, lo ingaggia come pittore di corte. Questa fortunata circostanza gli permette di arricchire ulteriormente la sua cultura figurativa attingendo alla ricca collezione dei signori della città padana, e non solo. Per conto del duca va a Roma per copiare alcune opere. Copia Michelangelo (1475-1564) e Raffaello (1483-1520), ma intanto prende conoscenza della pittura contemporanea, rappresentata ai massimi livelli dal Carracci (1560-1609), dal Caravaggio (1571-1610) e dal Barocci (1535 c. – 1612). In questo soggiorno romano ha la possibilità di entrare nella cerchia del cardinale Scipione Borghese (1577–1633). Dall’Italia passa in Spagna, poi di nuovo in Italia, a Mantova, quindi ancora a Roma. Nella Città Eterna riceve l’incarico di dipingere una pala d’altare per l’abside di Santa Maria in Vallicella (oggi chiesa Nuova). Il primo lavoro costituito da un unico pezzo raffigurante la Madonna con cinque santi viene respinto, il secondo realizzato in sua sostituzione nell’anno successivo, il 1608, viene invece favorevolmente accolto. L’insieme iconico è costituito da tre dipinti su ardesia, la Vergine in gloria adorata dagli angeli, i Santi Gregorio, Mauro e Papiano e i Santi Domitilla, Nereo e Achilleo. Nella tre tavole le figure sono debordanti, gli atteggiamenti enfatici, lo spazio sembra dilatarsi a invadere l’esterno, la luce tracimare dalle nubi e inondare il primo piano, il colore ribollire. Tutto è movimento, niente è stasi; la prospettiva non è un ordine astratto ma il percorso reale seguito dai raggi luminosi, non è il modo finito per rappresentare lo spazio infinito, ma un espediente per suggerire una profondità illimitata.
Prima della fine dell’anno Rubens rientra ad Anversa. Dalle grazie del signore di Mantova passa nelle grazie dell’arciduca Alberto (1559–1621), governatore dei Paesi Bassi meridionali. Le opere di questo periodo risentono tutte dell’esperienza italiana. In esse si rintracciano suggestioni caravaggesche nei contrasti luminosi e michelangiolesche nella costruzione della figura umana e nel modo di disporla dentro lo spazio compositivo. Testimonianze eloquenti di questo periodo sono opere quali Sansone e Dalila del 1609/1610 circa, e l’Erezione della croce, realizzata tra il 1610 e il 1611 per la cattedrale di Anversa.
Col passar del tempo l’influenza italiana si allenta, e il nuovo Rubens è un Rubens più classicamente moderato. Ecco dunque che i colori si schiariscono e diventano più freddi, le composizioni divengono più simmetriche, i personaggi sono distribuiti in modo più armonioso e i corpi, sempre scultorei, si rifanno ai modelli dell’antichità ellenistica.
Ormai maturo e famoso ha una bottega efficientissima, organizzata come una catena di montaggio, in cui lui si occupa esclusivamente di disegnare i cartoni, mentre i suoi collaboratori si occupano della realizzazione lavorando chi alle figure, chi alle nature morte, chi agli sfondi paesaggistici.

Madrid, Museo del Prado
Pieter Paul Rubens
RITRATTO DI MARIA DE’ MEDICI (1622)
Olio su tela, altezza mt. 1,30 – larghezza mt. 1,12

Allo scadere del 1621 inizia il rapporto di lavoro con Maria de’ Medici (1575–1642), madre del re di Francia Luigi XIII (1610-1643) e sovrana reggente nel settennato 1610-1617. L’incarico riguarda la realizzazione di una serie di dipinti allegorico-encomiastici da collocare nel palazzo del Luxembourg di Parigi, aventi come soggetto la storia di Maria, dalla nascita alla reggenza al conflitto con il figlio. Scopo? Esaltare la figura della regina, ma soprattutto mettere in rilievo la genuinità della sua politica e giustificare il suo operato agli occhi del re e degli altri aristocratici della corte. Rubens onora il suo impegno con la fondazione di un genere che sublima la contingenza in storia gloriosa ai limiti della trascendenza. Il ciclo viene completato nel 1625. Data la natura politica del soggetto il lavoro procede fra interruzioni e cambiamenti di rotta.
Negli anni successivi il Rubens accresce il suo successo già considerevole: è uno degli artisti più contesi dalle corti europee. Lavora ancora per Maria de’ Medici con l’incarico di decorare la Galleria di Enrico IV: progetto abbandonato, di cui rimangono solo due bozze alla Galleria degli Uffizi. Lavora quindi per l’arciduchessa Isabella (1566–1633), per il re d’Inghilterra Carlo I (1625-1649) e per Filippo IV (1621-1665), di cui diventa anche ambasciatore.
Rubens muore ad Anversa nel maggio del 1640, quando è ormai prossimo il suo sessantatreesimo compleanno.

Genova, Galleria di palazzo Rosso
Antoon van Dyck
RITRATTO EQUESTRE DI ANTON GIULIO BRIGNOLE SOLE (1627)
Olio su tela, altezza mt. 2,82 – larghezza mt. 1,68

Antoon van Dyck (1599-1641) è allievo di Rubens. Nasce ad Anversa il 22 marzo, nello stesso anno del Borromini. Come e più del suo maestro soggiorna in Italia; maturo, prende il posto da questi ricoperto alla corte di Carlo I diventando il primo pittore del re. È notoriamente il ritrattista della nobiltà seicentesca, ma non solo. Affronta anche soggetti biblici e mitologici, dandone un’interpretazione alquanto originale. I suoi genitori commerciano seta e se la passano piuttosto bene, tanto da potersi permettere una bella casa e 12 figli; Antoon è il settimo di loro. Ad appena 10 anni va a stare a bottega da Hendrick van Balen (1573 c. – 1632). L’apprendistato dura poco e ancor ragazzo insieme a Jan Bruegel il Giovane (1601-1678) mette su un proprio atelier. A 18 anni incontra il Rubens e si mette ad imparare da lui abbandonando l’attività autonoma. Tra il maturo maestro e il giovane allievo talentuoso nasce una collaborazione proficua, grazie alla quale Antoon si fa conoscere negli ambienti più importanti. Lo stile di Antoon all’inizio si avvicina talmente a quello di Pieter Paul che alcune opere firmate da quest’ultimo in realtà sono di sua mano. Presto però questa collaborazione si trasforma in concorrenza e il Rubens, facendo leva su tutto il peso di cui è capace, si attiva per convincere il giovane allievo a ricercare altrove le proprie commesse. Cosicché a 21 anni van Dyck si trasferisce a Londra, presso la corte del re d’Inghilterra Giacomo I (1567-1625), dietro insistenza del duca di Buckingham (1592–1628) e di Thomas Howard, XXI conte di Arundel (1585–1646), appassionato collezionista d’arte, amico di Rubens e protettore di Inigo Jones (1573–1652). In Inghilterra le sue opere cambiano stile; la cosa si spiega: in Belgio, tornato al cattolicesimo, esegue essenzialmente tematiche religiose oltre che ritratti, a Londra, dove domina il protestantesimo, in aggiunta alla possibilità di scegliere fra temi meno rigidamente ortodossi può dare anche libero sfogo al suo estro. Dopo qualche tempo di proficuo soggiorno in terra britannica gli viene accordato il permesso di lasciare la corte per motivi di aggiornamento: resterà fuori dall’Inghilterra per undici anni. In questo lungo lasso di tempo gira molto; torna in patria, ma soprattutto va in Italia. Qui si ferma prima a Genova dove ritrae gli esponenti delle famiglie più potenti della città, quindi va a Roma dove frequenta gli ambienti dell’alta società capitolina e ne ritrae i personaggi più importanti, tra i quali il cardinale Bentivoglio (1577-1644) e il cardinale Maffeo Barberini (1568-1644), il futuro Urbano VIII. A Roma van Dyck ha modo di trovarsi a tu per tu col mondo classico, ma al contrario del suo maestro non ama il classicismo. Di qui la differenza di linguaggio che lo distingue dal Rubens: più realistico, meno enfatico.
Da Roma passa a Firenze dove dominano ancora i Medici, dopodiché giunge a Venezia passando per Parma e Bologna, e qui può finalmente ammirare in prima persona le opere del suo maestro spirituale, il Tiziano. Dopo Venezia il giro d’Italia del van Dyck riparte arrivando a toccare Palermo, per terminare poi definitivamente a Genova. È dell’ultimo soggiorno genovese il Ritratto equestre di Anton Giulio Brignole Sole, dove riesce a trasfondere il senso di distaccata grandiosità che la nobiltà dell’epoca desidera vedere riflessa in sé stessa.

Madrid, Museo del Prado
Antoon van Dyck
INCORONAZIONE DI SPINE (1620 c.)
Olio su tela

Parigi, Museo del Louvre
Antoon van Dyck
RITRATTO DI CARLO I (1635/1638)
Olio su tela, altezza mt. 2,66 – larghezza mt. 2,07

Il periodo che segue il lungo tour italiano è caratterizzato da una vasta produzione di tele a soggetto sacro, scelta probabilmente legata alla morte della sorella Cornelia. Fra i numerosi dipinti di questo periodo spicca una poderosa Incoronazione di spine, dove oltre al fervore e all’intenso misticismo si colgono, al di là della linea barocca dominante, note di partecipazione emotiva di tipo preromantico.Pur valente pittore di sacre rappresentazioni, la fortuna la deve comunque alla reputazione di ritrattista che s’è costruita durante il soggiorno in Italia. È proprio grazie ai ritratti che solca le soglie delle più ricche dimore dell’aristocrazia olandese e di Fiandra. Lanciatissimo, nel 1632 Antoon torna in Inghilterra per diventare il pittore di corte di Carlo I. A Londra si stabilisce presso il Tamigi dove alle sedute tenute per ritrarre nobiluomini e nobildonne alterna feste mondane con tanto di suonatori, cantori e buffoni. A corte si guadagna il vitalizio di 200 sterline annue (una cifra enorme) tempestando di ritratti la famiglia reale. Sempre più conteso dalle case nobiliari d’Europa, inaspettatamente, a Londra, il 9 dicembre del 1641, ad appena 42 anni, lo coglie la morte.
Viene sepolto con tutti gli onori nella cattedrale di Saint Paul, dove ancora oggi il suo corpo riposa.
La vita di van Dyck si presta a facili paragoni con quella di Raffaello, non solo per il fatto che entrambi muoiono giovani, non solo per il fatto che in vita conoscono onori e gloria, ma soprattutto perché la morte prematura impedisce loro di conoscere il declino, la decadenza del mondo che hanno così fulgidamente esaltato. Raffaello non vedrà mai il Sacco di Roma; van Dyck non vedrà mai la testa del suo munifico re staccata dal suo regale corpo e brandita come un trofeo.

I FRANCESI

Minneapolis, Istituto d’Arte di Minneapolis
Nicolas Poussin
MORTE DI GERMANICO (1627/1628)
Olio su tela, altezza mt. 1,48 – larghezza mt. 1,98

Nicolas Poussin (1594-1665) sembra chiedersi cosa vieta di trasformare il principio barocco che si riconosce nell’affermazione “Ut pictura poësis” nel principio pittura uguale letteratura storica. Chi ha detto, sembra chiedersi Nicolas, che il compito dell’artista debba essere solo quello di far girare a vuoto l’immaginazione al solo scopo di creare immagini smaglianti? Per il Poussin l’artista è un essere speciale, dal momento che sa tradurre in forme visibili le immagini della mente ha il dovere di immaginare. Ma l’immaginazione per lui non è libertà di fantasticare ciò che si vuole, bensì ricostruzione verosimile dei fatti storici: è il lontano preludio al neoclassicismo storico.
Compito dell’artista è quello di riportare al cospetto della realtà contingente, ridare vita al glorioso passato di Roma, così riccamente testimoniato dai resti archeologici e dalla letteratura storica. Non sono solo Orazio (65–8 a.C.) o Virgilio (70-19 a.C.) fonti d’ispirazione per l’arte, ma anche Tacito (55-120 c.). Il passato fa pensare, fa riflettere; il passato deve essere sorgente di azione morale per il presente. Siccome l’arte è un modo di agire moralmente controllato, il suo modello prossimo non può essere che quello lasciatoci in eredità dagli Antichi. Ma l’Antico non costituisce più oggetto di studio, non è più precetto, non è modello da imitare, bensì fonte del sentimento, sentimento di ordine e misura con cui l’uomo procede alla visualizzazione della propria immaginazione.
Nel 1624 Nicolas Poussin giunge a Roma dalla nebbiosa Normandia, dopo due tentativi falliti: il primo si arresta a Firenze, il secondo a Lione. Al contrario di quello che vanno facendo molti suoi colleghi transalpini, una volta giunto nella capitale, non se ne va più, ci resta fino alla morte. Il suo amore per la Città Eterna non è dettato dalla vita pittoresca che si svolge all’interno dei suoi quartieri, né dalla circostanza che al momento è il centro d’irradiazione dell’arte d’avanguardia. La sua passione nasce dal fatto che per lui Roma è una città fatata, una città unica al mondo, stimolo per un universo immaginario fatto di eroi, una dimensione passata da far rivivere mediante l’arte.
Si tratta del primo tentativo di far risorgere il passato romano in modo nuovo, moderno, senza enfasi oratorie, senza fantasticherie, ma rendendolo il più verosimile possibile a quello che fu realmente, una vera e propria ricostruzione filologica romanzata. Ma la documentazione di base di questa suggestiva ricostruzione scientifica del passato non è costituita dai manoscritti come per lo storico, ma dai bassorilievi antichi.
Le prime commissioni importanti per Nicolas vengono dal potente di turno Francesco Barberini (1597–1679). Il contatto con il cardinale glielo procura il Marino (1569-1625), il quale aveva conosciuto il normanno a Parigi, quando era solo un giovane promettente. L’opera con la quale Nicolas esordisce ha come soggetto la morte di Germanico.
Germanico (15 a.C.-19 d.C.) era il figlio adottivo di Tiberio (42 a.C.-27 d.C.). Divenuto generale venne spedito da suo padre, nonché suo imperatore in Oriente con poteri speciali. In Siria entrò in contrasto col proconsole Calpurnio Pisone, il quale mal sopportò la sua ingerenza e lo eliminò avvelenandolo. Della morte di Germanico ci parla Tacito nei suoi Annales, sottolineando con quanto e quale coraggio il generale affrontò il trapasso.
La novità di questo olio sta nel fatto che per la prima volta viene affrontato il tema della morte di un eroe: finora a morire erano stati solo i santi. Cosicché Nicolas non si può avvalere di modelli sperimentati, se li deve inventare di sana pianta. Li trae dagli antichi bassorilievi. Risultato? La morte del protagonista non viene interpretata come la morte di un martire, ma di un uomo la cui dignità è stata offesa dal tradimento. Nella tela c’è anche un’altra piccola novità: il dramma si svolge in un interno domestico.

Roma, Città del Vaticano, Pinacoteca Vaticana
Nicolas Poussin
IL MARTIRIO DI SANT’ERASMO (1629)
Olio su tela, altezza mt. 3,20 – larghezza mt. 1,86

Nel 1629 il Poussin dipinge una grande tela, l’unica, con su il Martirio di sant’Erasmo, oggi esposta nella Pinacoteca Vaticana. Il supplizio, che consiste nell’eviscerazione del povero Erasmo si consuma davanti ad un tempio classico, ai piedi di una statua di Ercole. Il piano d’appoggio più che vedersi si intuisce, coperto com’è dai corpi dei personaggi che si accalcano in primo piano. Fra questi si distinguono un centurione a cavallo, il sacerdote del tempio e gli aguzzini; spicca in mezzo a tutti un individuo con il turbante vestito di blu. Lo spazio è prospettico ma non è in prospettiva, è ordito sulle diagonali di un prisma virtuale a base quadrata. Al centro della composizione, in alto, svolazzano due angioletti con i simboli del martirio: così come lo spazio anche il tempo risulta inequivocabile. Si capisce benissimo come il martirio avvenga in una determinata epoca storica: stiamo al tempo dei Romani. Il passato è passato, con l’arte lo si può rivivere, riportarlo al presente, ma non ci si deve confondere con esso.
Passando ad analizzare gli stati d’animo dei personaggi si nota come il santo, messo di tre quarti, abbia un’espressione severa, non sofferente, così come i partecipanti sembrano dare più che altro un’idea di sordo rigore che non di malvagità o ira. E poi non ci sono manigoldi in mezzo alla gang di torturatori, e anche i più rozzi aguzzini hanno un che di nobile.
Il significato di quest’opera sta nel fatto che per Nicolas non c’è differenza fra il mondo divino cristiano e quello greco, né fra gli eroi cristiani e quelli classici: sant’Erasmo, pur nel tormento del supplizio non ha un solo gesto di ribellione, è un Ercole senza clava. La sua religiosità non è improntata alla rivelazione ma alla filosofia stoica, cioè volta ad accettare con rassegnazione le decisioni del destino. In altre parole per il Poussin il bello di natura, il bello classico, non può che essere anche il bello morale, cioè un bello che non alberga più nella realtà naturale, ma nel modo di rapportarsi alle cose, nella reazione al fenomeno, nel comportamento umano, nel modo di vivere la vita con l’arte. E il modo di vivere la vita con l’arte è per Poussin affrontare razionalmente, dandosene ragione, le situazioni del passato non meno che quelle del presente: l’arte non è più un conoscere ma un essere. Se dunque l’arte è quel che si è, con il Poussin il classicismo diventa il modo migliore per essere quel che si deve essere: è lo stesso assunto del Reni (1575-1642) e del Domenichino (1581-1641), ma applicato con maggior rigore filologico.
Negli anni quaranta e cinquanta del Seicento l’arte del Poussin si va sempre più differenziando nel soggetto in cui è tenuto separato il sacro dal profano, fino alle ultimissime esperienze paesaggistiche nelle quali prevale il senso arcadico di un’armonia superiore alla stessa classicità.

GLI OLANDESI

L’Aja, Mauritshuis
Rembrandt Harmenszoon van Rijn
LEZIONE DI ANATOMIA DEL DOTTOR TULP (1632)
Olio su tela, altezza mt. 1,70 – larghezza mt. 2,17

Rembrandt (1606-1669) è considerato uno dei più grandi pittori del Seicento europeo, al pari di Caravaggio, Rubens, Velazquez (1599-1660). Insieme ad Hals (1582 c. – 1666), Vermeer (1632-1675) ed altre singolari personalità dà vita a quel particolare momento che gli storici definiscono età dell’oro olandese. In netto contrasto con la sua vita professionale costellata di successi e riconoscimenti, la sua vita privata è segnata da tragedie personali e difficoltà economiche. Benché non abbia tenuto una condotta irreprensibile, esente da qualche giudizio di riprovazione, viene considerato uno degli artisti più ammirati e rispettati d’Olanda; tutti i più importanti pittori olandesi passano per la sua bottega. È fra i ritrattisi più ricercati sulla piazza, così come pure uno dei più profondi interpreti della Bibbia, nonché uno dei massimi paesaggisti del suo tempo.
Rembrandt Harmenszoon van Rijn nasce a Leida, nei Paesi Bassi, il 15 luglio. La sua famiglia è povera e numerosa: il padre fa il mugnaio, la madre è la figlia di un fornaio, e lui deve dividere il pane con 9 fratelli. Anche se 4 di loro muoiono, la sua vita di privazioni non cambia. Nonostante la grama condizione riesce a studiare fino all’Università, ma la sua vera vocazione è la pittura. In questo campo il giovane Rembrandt mostra un gran talento naturale, tanto che ben presto va a stare a bottega da Jacob van Swanenburgh (1571–1638), uno fra i più stimati pittori locali. Il ragazzo impara in fretta e dopo il tirocinio e la “specializzazione” ad Amsterdam presso Pieter Lastman (1583–1633) tenta la fortuna aprendo una propria bottega nella sua città, ai mezzi con l’amico e collega Jan Lievens (1607-1674). Nel 1629, quando Rembrandt ha appena 23 anni, avviene l’incontro della svolta professionale. Il suo benefattore è lo statista, nonché poeta Constantijn Huygens (1596-1687), padre di Christian Huygens (1629-1695), celebre matematico e fisico olandese. Grazie a lui arrivano le prime importanti commissioni, addirittura dalla corte reale dell’Aja; le richieste riguardano soprattutto ritratti. E proprio per eseguire ritratti nel 1631 Rembrandt si trasferisce ad Amsterdam. Qui va a stare in casa del mercante d’arte Hendrick van Uylenburgh (1584 c. – 1660 c.); qui conosce sua moglie Saskia (1612–1642). Il matrimonio non è soltanto un matrimonio d’amore ma anche d’interesse, almeno per lui: Saskia proviene da una famiglia benestante, quella dei van Uylenburgh. Dopo l’unione Rembrandt e Saskia sono perseguitati da una serie di disgrazie. I primi tre figli gli muoiono in tenerissima età, uno dietro l’altro, solo il quarto, Titus (1641–1669), riesce a sopravvivere, ma l’anno dopo la sua nascita muore Saskia, molto probabilmente di tubercolosi.
Le disgrazie non finiscono qua. Rembrandt contrae relazioni con altre due donne: una con la ragazza che gli viene in aiuto durante la malattia della moglie caricandosi della doppia incombenza di fare da infermiera a Saskia e da balia al piccolo Titus, l’altra con Hendrickje (1626–1663) l’ex domestica. In entrambi i casi le vicende di cuore vengono turbate da incresciose circostanze venutesi a verificare in seguito a promesse di matrimonio non mantenute. Nel primo caso la faccenda si risolve con l’internamento in manicomio della balia infermiera, nel secondo con l’accettazione della convivenza da parte dell’ex domestica anche se condannata dalla Chiesa. Ma non basta ancora. Rembrandt vive al di sopra dei propri mezzi. Per permetterselo si trasforma in mercante di quadri e di oggetti rari. Per quotare le proprie opere se le ricompra ad un prezzo superiore a quello a cui le ha vendute, e così fa con le stampe, numerosissime. Questo tipo di speculazione lo conduce alla bancarotta e a perdere non solo oggetti e opere ma anche mezzi di lavoro e la bella casa che aveva comprato nel 1639 nel quartiere ebraico, cioè la Rembrandthuis, oggi museo.
Per sfuggire ai creditori Rembrandt si fa assumere da una società formata dalla convivente Hendrickje e dal figlio Titus. Quando le cose sembrano andargli meglio, viene colpito da altri gravi lutti: muore la sua compagna, probabilmente di peste, quindi cinque anni dopo muore anche Titus. È il 4 ottobre 1669, malato, ma soprattutto affranto dal dolore per la perdita di tutti i suoi più cari affetti, non ultimo quello della nuora, anche lui si spegne all’età di 63 anni. Dramma nel dramma, viene sepolto in una tomba anonima nella Westerkerk.
Disgraziato nella vita, fa la fortuna di tutti i possessori delle sue opere, divenendo dopo la morte uno degli artisti più quotati della storia. Nonostante i travagli è riuscito a produrre una valanga di disegni, circa 2.000, 400 incisioni e almeno 300 dipinti, sicuri, fatti di suo pugno.
La sua importanza storico artistica consiste nell’aver raggiunto l’obiettivo che egli si prefigge quando mette mano ai pennelli, cioè di raggiungere “Il movimento più grande e naturale”, intendendo per movimento molto probabilmente il moto dell’anima, non il dinamismo fisico, cioè l’emozione (la cosa è ancora oggetto di dibattito fra gli esperti). E a guardar bene i suoi oli ci si rende subito conto che le figure sono più che semplici immagini dipinte, sono esseri animati da qualcosa di interiore, qualcosa di visibile non solo attraverso l’espressione dei volti ma attraverso il movimento della materia pittorica stessa.
Nella pittura di Rembrandt si distinguono due momenti fondamentali: il primo è caratterizzato dall’uso di un chiaroscuro fortemente contrastato e da un colore intenso e brillante; il secondo, al contrario, è caratterizzato da una più morbida luminosità e dalla quasi totale scomparsa del colore. La causa del cambiamento è da mettere sicuramente in relazione con le tragedie personali che stava vivendo. Un altro elemento importante da rilevare è il modo di dipingere, all’inizio denso e compatto, mediante pennellate corpose e sfumate, poi sempre più materico e disfatto.
La sua opera più nota è forse la Lezione di anatomia del dottor Tulp, del 1616 (data incerta); la sua opera più grande la Ronda di notte.
Durante il periodo giovanile, o di Leida (1625-1631), la tematica preferita è quella religiosa e allegorica; i formati sono piccoli e la pittura è ricca e dettagliata. Nel periodo maturo, o di Amsterdam (1632-1636), passa a scene bibliche e mitologiche di grandi dimensioni e i toni si fanno drammatici; intanto inizia la serie dei grandi ritratti. Intorno al 1630 sperimenta il tema paesaggistico. Dal 1640 il suo stile diventa più sobrio e i suoi soggetti preferiti li trae dal Nuovo Testamento più che dall’Antico. Nell’ultimo decennio Rembrandt cambia ancora, i suoi dipinti sono grandi e sfatti, il colore si fa più ricco e intenso ed i colpi di pennello più evidenti: segno evidente di una posizione polemica nei confronti della pittura del suo periodo, tendente a tornare alla cura e alla ricchezza di dettagli che avevano caratterizzato la prima fase, giovanile. Infine negli ultimissimi anni si concentra quasi esclusivamente sugli autoritratti, dove è palese la tendenza ad una più intensa riflessività e introspezione.

FRANS HALS E LA POETICA DEL CARPE DIEM

Haarlem, Frans Hals Museum
Frans Hals
BANCHETTO DEGLI UFFICIALI DELLA COMPAGNIA DI SAN GIORGIO (1616)
Olio su tela, altezza mt. 1,75 – larghezza mt. 3,24

Frans Hals è uno dei principali protagonisti del periodo d’oro. Ha fatto quasi esclusivamente ritratti. La sua pittura è senz’altro da ritenere uno dei più importanti apporti all’interpretazione dell’arte del Seicento. Numerosissimi sono i suoi lavori; per il ruolo giocato dalla percezione visiva rappresentano un lontano antecedente della futura ricerca impressionista.
Hals nasce ad Anversa, con la conquista della città da parte degli spagnoli la famiglia è costretta a cambiare residenza. Gli Hals si trasferiscono ad Haarlem. Nella cittadina Frans si mette a prendere lezioni di pittura presso Karel van Mander (1548–1606), ma non ci sono prove che ciò sia veramente avvenuto. Comunque sia la sua personalità è talmente ben strutturata fin dalla più tenera età che presto, a 27 anni figura già quale membro della Gilda di San Luca, una delle più prestigiose associazioni di artisti ed artigiani con sedi nelle più importanti città dei Paesi Bassi come Anversa, Utrecht, Delft e Leida.
La sua prima opera nota è il Ritratto di Jacobus Zaffius del 1611. Cinque anni più tardi arriva il lavoro che lo fa decollare: Il banchetto degli ufficiali della Compagnia di San Giorgio, una telona con i ritratti a grandezza naturale di tutti i principali componenti della corporazione. Da questo momento in poi la sua produzione non conosce tregua, tranne per un breve periodo che lo vede impegnato come militante nell’esercito durante gli anni della rivoluzione. Nel 1644 Hals diviene presidente della Corporazione dei Pittori di Haarlem. Una nomina prestigiosa non c’è dubbio, ma con essa arriva anche il periodo più tormentato della sua esistenza. La vita dispendiosa e sperperona lo costringe a contrarre debiti in continuazione. La pittura, pur dandogli di che vivere dignitosamente, non gli basta e per arrotondare lo “stipendio” fa anche il banditore ed il restauratore. Ma tanto tira la corda che alla fine la corda si spezza e Frans viene incarcerato per insolvenza. Ciononostante la sua fama come pittore non viene mai meno fino alla morte, che lo coglie ad Haarlem, alla ragguardevole età di 86 anni.
Ricercato da nobili, alti prelati e borghesi, molti dei suoi soggetti sono pescati fra quella umanità travagliata che si incontra nelle osterie e nei locali malfamati di Haarlem. La sua maniera, sprezzante delle regole della bella pittura piace, forse proprio perché audace. Sembrava impossibile che il realismo potesse incontrare la concezione dell’arte come visualizzazione dell’immaginato tipica del Barocco. Eppure per Hals la tecnica del tocco, assolutamente necessaria per congelare nell’istante del veduto l’immagine folgorante di un momento di eccitazione estatica, è ugualmente necessaria per fermare la realtà, che non è fenomeno durevole, ma della durata di un attimo.
Parlando poco fa di Rembrandt e ora di Hals non si può sfuggire al necessario paragone fra due personalità dai caratteri così rimarchevoli. La pittura di Hals è bruciante così come quella di Rembrandt è sedimentosa; l’arte per Hals va colta nell’attimo che fugge, per Rembrandt va colta nel lavoro di approfondimento che dalla sensazione porta al sentimento; Per Hals la luce è lo scintillio di un riflesso sul cristallo, per Rembrandt è energia che corrode la materia pittorica; per Hals la storia non conta, ciò che conta è la realtà contingente, per Rembrandt storia e realtà sono il prodotto di uno stesso processo. Più che opposti i due autori sono dunque complementari.

L’Aja, Museo Mauritshuis
Jan Vermeer
RAGAZZA CON TURBANTE (1665/1666 c.)
Olio su tela, altezza cm. 44,5 – larghezza cm. 39

Jan Vermeer è un artista di recente acquisizione; fino a non molto tempo fa se ne ignorava l’esistenza. È molto strano che alla critica sia sfuggito un pittore della sua levatura. Di lui si sa poco; non si sa quando sia nato esattamente, si sa solo che viene battezzato il 31 ottobre 1632, nella chiesa protestante di Delft. Suo padre Reynier fa il tessitore, ma gli piace occuparsi del commercio di opere d’arte. Alla morte lascia a lui e alla moglie una locanda e i suoi traffici. Fondamentale per la propria professione è il matrimonio con Catherina Bolnes (1631 c. – 1687), ma ancor più importante è il trasferimento a casa della suocera, Maria Thins (1593 c. – 1680), una vedova benestante che decide di sponsorizzare la sua attività. Nella casa della suocera Johannes allestisce il suo studio e intraprende la carriera del pittore a tempo pieno. Da questo momento per lui la vita si svolge tranquilla, tutta confinata tra casa, lavoro e famiglia. Nel corso della non lunga esistenza Johannes diventa padre per 14 volte.
Nel 1653, lo stesso anno delle nozze, Vermeer diventa membro della Gilda di San Luca, ma questo non muta i suoi inizi, alquanto sofferti. La situazione cambia radicalmente quando fa la conoscenza di Pieter van Ruijven (1624–1674), uno dei più ricchi cittadini di Delft, il quale diviene suo mecenate: numerosi sono i dipinti da lui acquistati. Nel 1662 Vermeer viene eletto capo della Gilda, carica confermata anche negli anni successivi. Dieci anni dopo, a causa della crisi finanziaria provocata dall’invasione francese, l’età dell’oro olandese termina. La richiesta di beni di lusso crolla vertiginosamente e Vermeer è costretto ad indebitarsi. Johannes muore, per stress dovuto a problemi economici, almeno così dice la consorte, quando non ha ancora compiuto 43 anni. A moglie e figli lascia pochi soldi e una montagna di debiti, per estinguere i quali Catherina cede casa e quadri.
I dipinti riconosciutigli fino ad oggi sono una quarantina. Fra i più noti figurano la Ragazza con turbante, conservato nella sede del Museo Mauritshuis all’Aja, e la Lattaia. Il primo è conosciuto anche con un altro titolo, ovvero Ragazza con l’orecchino di perla, e rappresenta Griet, la giovane domestica a servizio in casa della suocera.
La sua tecnica pittorica riprende e sviluppa quella fiamminga, consistente nell’applicare il colore sulla tela a piccoli punti molto ravvicinati. Risultato: una gamma cromatica brillante e una luce straordinaria. Molto probabilmente si serve della camera oscura come supporto per collocare gli oggetti nello spazio in modo scientificamente esatto senza dover ricorrere alla prospettiva. La sua tavolozza è ricca di gialli cromo, rossi cinabro e azzurri cobalto, tutti colori costosissimi per via della loro composizione mineralogica. A tal proposito può essere utile sapere che Vermeer faceva largo uso del costosissimo oltremare naturale, ottenuto con il lapislazzuli, e che non ci rinunciò neanche negli anni della crisi economica.

GLI SPAGNOLI

Edimburgo, National Gallery of Scotland
Velazquez
VIEJA FRIENDO HUEVOS (1618)
Olio su tela, altezza mt. 1,05 – larghezza mt. 1,20

Velázquez è uno degli artisti più grandi di Spagna ed uno degli artisti più importanti per il futuro sviluppo dell’arte europea, eppure fino al XIX secolo era pressoché sconosciuto al di fuori della sua terra. Solo nell’epoca romantica ci si è accorti della sua sorprendente modernità. Conobbe molti artisti, ma nessuno lo influenzò; in vita non volle essere mai nessun altro se non sé stesso.
Diego Velazquez da Silva nasce a Siviglia, capoluogo dell’Andalusia, intorno ai primi di giugno dell’anno 1599, cioè lo stesso anno che ha visto nascere il Borromini e van Dick. È il primogenito maschio di un avvocato portoghese di origine ebrea, João Rodrigues da Silva, e di Jerónima Velázquez, donna appartenente alla classe degli hidalgo (nobiltà non titolata). Dieguito porta come primo cognome quello della madre poiché è consuetudine dell’epoca che il maschio più grande porti come primo cognome quello della casa materna.
La storia della sua formazione non è diversa da quella di tutti gli altri grandi talenti. Anche lui in seguito alla precoce manifestazione delle proprie doti viene messo a far pratica nella bottega di maestri già navigati. All’inizio frequenta lo studio di Francisco Herrera il vecchio (1576–1656 c.), poi va a stare da Francisco Pacheco (1564-1644). Da questi due maestri assorbe il verbo realista e anticlassico, antitetico alla tendenza seguita nella pittura accademica spagnola tutta dedita all’emulazione dei grandi classicisti italiani. All’età di 19 anni sposa Juana Pacheco (1602-1660), che di anni ne ha 16, figlia del suo maestro.
Dello stesso anno del matrimonio è la Vieja friendo huevos (La vecchia friggitrice di uova), un quadro in perfetta linea con quel che si va facendo nella pittura di genere in tutta Europa. Come avviene per i suoi colleghi europei anche per lui arriva il momento dell’incontro che imprime la svolta alla sua carriera. L’uomo che gli cambia la vita è don Juan de Fonseca, l’anno è il 1622; attraverso lui il Velazquez arriva al re. Per conquistarsi l’augusta fiducia gli basta un ritratto fatto in un solo giorno. Ciò che di Diego colpisce fin da subito è il suo acuto realismo percettivo, temperato da una certa dose di morbidezza nel tocco e delicatezza nei toni.
Un ritratto tira l’altro e così per il Velazquez inizia la lunga carriera di pittore di corte, posto che manterrà per tutta la vita.

Madrid, Museo del Prado
Velazquez
LOS BORRACHOS (TRIONFO DI BACCO o I BEVITORI) (1629)
Olio su tela, altezza mt. 1,65 – larghezza mt. 2,25

Nel settembre del 1628 avviene l’incontro fra il Velazquez e Peter Paul Rubens. Il fiammingo si trova a Madrid in veste di emissario dell’Infanta Isabella. I due artisti si stimano ma nessuno dei due risente in modo particolare dell’altro. Tuttavia l’incontro col Rubens un effetto lo produce: lo fa decidere a visitare l’Italia. Prima di lasciare Madrid per raggiungere la penisola Diego termina Los borrachos, una tela che ritrae un gruppo di ubriaconi che si prendono beffa di un giovine seminudo, col capo cinto d’edera, seduto su una botte. Il quadro non viene apprezzato subito, dovranno passare almeno cinque anni prima che lo si stimi per il suo effettivo valore e prima che Diego ne riceva il giusto compenso, 100 ducati.
Il soggiorno in Italia dura un anno e mezzo. Sulla visita non si sa molto, né si conoscono gli effetti che produce sul futuro lavoro dell’artista.

Madrid, Museo del Prado
Velazquez
CRISTO CROCIFISSO (1631/1632)
Olio su tela, altezza mt. 2,49 – larghezza mt. 1,70

Al rientro a Madrid lo attende una lunga serie di ritratti, soprattutto del re Filippo IV: gliene fa oltre 40. Per lui posano non solo principi e cavalieri, dame e poeti, ma anche nani e buffoni di corte. E fra un ritratto e l’altro trova anche il tempo di occuparsi di soggetti sacri: è di questi anni madrileni il Cristo crocifisso. Fra il 1644 e il 1648 dipinge Venere e Cupido, l’unico nudo femminile eseguito dall’artista. Certo non lo avrebbe potuto fare se non avesse rivestito il titolo di primo pittore del re, l’Inquisizione glielo avrebbe inesorabilmente censurato.

Roma, Galleria Doria Pamphili
Velazquez
PAPA INNOCENZO X (1650)
Olio su tela, altezza mt. 1,40 – larghezza mt. 1,20

L’atmosfera severa dell’Escorial non impedisce ai suoi inquilini di vagheggiare, anzi stimola i desideri. Da tempo immemore Filippo coltiva un sogno: fondare un’accademia d’arte in Spagna. Per realizzare questo sogno incarica il Velazquez di acquistare delle opere, soprattutto di scultura, dal momento che di scultori iberici ce ne erano pochi. Così Diego rifà i bagagli e riparte per l’Italia.
È il 1649 e ha inizio per il sivigliano il secondo viaggio nella penisola. Sbarcato a Genova fa tappa a Milano e Venezia dove compra tele degli artisti preferiti da sempre dai Borboni di Spagna, Tiziano, Tintoretto e Veronese. Visita Modena, quindi giunge a Roma, accolto con grande piacere dal papa, il quale naturalmente gli chiede il ritratto. Ne nasce la sua effige più famosa: il ritratto di papa Innocenzo X (1644-1655).
Dopo Roma fa una visita a Napoli dove incontra il vecchio amico Jusepe de Ribera (1591–1652), quindi fa rientro in Spagna. È il 1651.

Madrid, Museo del Prado
Velazquez
LAS MENINAS (1656)
Olio su tela, altezza mt. 3,18 – larghezza mt. 2,76

In patria si rimette febbrilmente al lavoro, benché i suoi nuovi uffici gli impediscano di mantenersi sugli standard passati. Nel 1656 porta a compimento la sua opera più famosa, Las Meninas.
Las Meninas non è soltanto il dipinto più noto del pittore ma è anche quello più enigmatico. Il vero soggetto della gigantesca tela apparentemente è l’infanta Marguerita, la primogenita della seconda moglie di Filippo IV, ma forse è lui stesso che si autoritrae al lavoro mentre ritrae la coppia reale, i quali si intravedono riflessi nello specchio, mentre posano compiti al di qua dello spazio virtuale del quadro. La discussione sul chi sia il vero protagonista della tela è ancora aperta; l’unica cosa su cui tutti sono d’accordo è che si tratta di una delle opere più suggestive del pittore andaluso. Anche il suo significato è un mistero. Forse vuole alludere alla futura caduta dell‘impero spagnolo: per questo il re e la regina appaiono come figure che vengono inghiottite dall’ombra. Ma si tratta di interpretazioni che non potranno mai essere dimostrate come vere. Forse la chiave interpretativa va cercata nel gioco che contrappone tra loro due immagini ugualmente virtuali e ugualmente reali quali quella del dipinto e quella del riflesso dello specchio. Il vero soggetto non è dunque il ritrattato, ma chi ritrae; è, come dire, la pittura che ritrae sé stessa, oppure come sostiene il filosofo Michel Foucault (1926-1984), si tratta della visualizzazione di un’analisi del concetto di rappresentazione. In tal caso sarebbe il quadro più intellettualistico del Velazquez.
Nella primavera del 1660 Diego riceve l’ultimo suo incarico: curare la decorazione del tendone della corte spagnola e di tutto l’allestimento scenico del matrimonio di Maria Teresa di Spagna (1638-1683) con il re Sole. A giugno rientra a Madrid; a luglio si ammala; il 6 agosto muore, all’età di 61 anni. la moglie Juana lo segue otto giorni dopo. Diego e Juana vengono sepolti nella cripta dei Fuensalida nella chiesa di San Giovanni Battista. Nel 1811 i francesi la distruggono, rendendo impossibile il ritrovamento del loro sepolcro.

Madrid, Museo del Prado
Murillo
IMMACOLATA (1678)
Olio su tela, altezza mt. 2,70 – larghezza mt. 1,90

Nella Spagna di Velazquez esistevano solo due grossi committenti: la Chiesa e il re. L’artista preferito dal re è lui, quello preferito dalla Chiesa è Bartolomé Esteban Murillo (1618-1682). Murillo lavora tutta la vita per la Chiesa, esegue Madonne degne di un Raffaello, ma muore povero, esattamente al contrario di Velázquez che vive e muore da gran signore.
Anche Bartolomé Esteban Pérez Murillo è sivigliano. Per quanto riguarda la sua fortuna come pittore si può veramente affermare che deve tutto alla Madonna. Infatti la sua notorietà è legata soprattutto alle immagini della Vergine. Murillo inventa una nuova icona, dove bellezza e grazia si uniscono a formare un tutt’uno inscindibile. Dopo Raffaello nessun pittore è stato in grado di unire questi due fattori espressivi in modo così accattivante. Certo, rispetto alle Madonne dell’urbinate quelle del sivigliano sono più atmosferiche, ma è pure vero che i tempi sono cambiati e con essi il gusto borghese e aristocratico, specie nelle tematiche religiose, che finisce per influenzare anche la committenza ecclesiale. Benché universalmente conosciuto come pittore mariano, al suo esordio Bartolomé è stato un valentissimo esecutore di scene di genere. Una delle sue tele più celebri è Ragazzi con melone e grappolo d’uva, del 1665/1667 dove si ritrova la lezione di Zurbaran (1598-1664), del de Ribera e di Alonso Cano (1601-1667).
Muore per un incidente sul lavoro: cade da un’impalcatura mentre sta dipingendo.