ARTE COME ESPRESSIONE DEL SENTIMENTO
ARTE COME ESPRESSIONE SOGGETTIVA
LA TRASFORMAZIONE DELLA NATURA E DELLA STORIA DELL’ARTE DA MODELLI A MEZZI ESPRESSIVI
LA DISSOLUZIONE DELL’IMMAGINE NATURALISTICA
ARTE COME ARBITRIO
CONSEGUENZE DELLA NUOVA CONCEZIONE: ARTISTI SI NASCE, NON SI DIVENTA
LA QUESTIONE TECNICA
COMPONENTI CULTURALI DEL ROMANTICISMO STORICO
DIFFERENZE E ANALOGIE CON IL NEOCLASSICISMO
AMBITO STORICO ARTISTICO
LA SVOLTA ROMANTICA
CONTESTO STORICO POLITICO
EUGÈNE DELACROIX, FONDATORE DEL ROMANTICISMO STORICO
ANALISI DELLA LIBERTÀ GUIDA IL POPOLO
DELACROIX E IL PRELUDIO ALL’IMPRESSIONISMO
GERICAULT E LA CONTRAPPOSIZIONE FRA REALE E IDEALE


ARTE COME ESPRESSIONE DEL SENTIMENTO

Parigi, Museo del Louvre
SALE INTERNE RISERVATE A DELACROIX

Comunemente quando si pensa all’arte romantica si pensa ad un’arte passionale, espressiva di sentimenti, irrazionale: e in effetti questa è la sua caratteristica più rilevante. Per i romantici l’arte non sorge dalla geometria astratta, né dalla cultura, naturalistica o storica che sia, né dalla pura percezione visiva, ma dal sentimento. Non è importante se un’opera sia perfettamente equilibrata o riproduca fedelmente la realtà o risponda a canoni storicizzati, importante è la sensazione che suscita. Per i romantici l’arte è il prodotto dell’intuizione più che della ragione, della sensibilità più che dell’intelligibilità, della passione più che del calcolo, della partecipazione emotiva più che della fredda e distaccata contemplazione; l’artista romantico non riprodurrà mai ciò che vede, bensì esprimerà sempre ciò che sente.

ARTE COME ESPRESSIONE SOGGETTIVA

Essendo il proprio sentire un fatto personale l’arte romantica spinge gli artisti a guardare al mondo interiore più che al mondo esterno, a ricercare i vocaboli del linguaggio artistico nella propria coscienza piuttosto che nella storia dell’arte e nella natura. Visioni, bello, suggestioni, sono tutte cose soggettive; nel periodo romantico l’attività creativa non si occupa più del mondo oggettivo, al di fuori dell’uomo, ma di quello soggettivo, dentro l’uomo; non si occupa più dell’universo fisico, ma di quello psichico; non si volge più a chiarire le strutture obiettive dell’essere ma si volge a chiarire le strutture individuali del sentire. Questo significa che dai romantici in poi, per trovare l’arte bisogna cercare in sé stessi, nel proprio io. La concezione romantica non si limita dunque alla sola poetica del sentimento, ma contempla anche quella della soggettività del linguaggio visivo e dell’interiorità dell’immagine artistica. Anzi saranno proprio questi orientamenti ontologici a costituire la nota precipua che caratterizzerà l’arte dell’intero periodo romantico e accomunerà tutte le correnti, romantiche e antiromantiche, sotto lo stesso denominatore. Cosicché nell’epoca romantica non solo l’arte è una realtà soggettiva, ma è soggettivo anche il linguaggio artistico attraverso cui si manifesta. L’io è fatto di tante cose; non è sede delle sole emozioni. È fatto di ideali, di immaginazione, di istinto, di percezioni visive, di processi razionali e irrazionali, di inconscio, di processi creativi fini a sé stessi, cioè di fantasia; in altri termini è fatto di processi strutturali. Quindi si può affermare più in generale che la storia dell’arte del periodo romantico è la storia della formazione e dello sviluppo di una nuova concezione del linguaggio figurativo, ovvero è la storia dell’arte come espressione soggettiva e che in ultima analisi il linguaggio figurativo del periodo romantico più che essere il modo attraverso cui si esprime il sentimento individuale è il modo attraverso cui si esprimono le scelte soggettive dell’artista in fatto di arte, in opposizione alla storia dell’arte classica come storia del linguaggio attraverso cui si esprime l’oggettività della cultura naturalistica e storica.

LA TRASFORMAZIONE DELLA NATURA E DELLA STORIA DELL’ARTE DA MODELLI A MEZZI ESPRESSIVI

Se l’obiettivo dell’arte romantica è quello di dare un volto al sentimento, un fatto interiore e non esteriore, natura e storia dell’arte si trasformeranno da modelli a mezzi espressivi delle proprie emozioni. Cultura naturalistica e cultura storica non interesseranno più l’artista in quanto tali ma in quanto veicoli per la manifestazione del proprio sentire. Non si rappresenta la natura perché si vuole rappresentare la natura ma perché si vuole rappresentare qualcosa che sta al di quà, qualcosa che non può essere rappresentato in quanto senza forma. Torna in questo modo l’idea di un’arte che va alla ricerca dei segni che individuano una presenza incorporea, psicofisica, una presenza che sta oltre il puro fenomeno, la differenza è che stavolta non si tratta di Dio, ma del sentimento umano. Ecco dunque che l’arte dell’epoca romantica non esprime più né la presenza del divino né la presenza del terreno, ma la presenza di un soggetto, di una coscienza, di un essere senziente. E siccome sentire è vivere, esprimere ciò che si sente vuol dire manifestare il proprio esistere, il proprio vivere l’impegno artistico, la propria esperienza creativa, indipendentemente dal fatto che la società gli riconosca o no un valore.
In qualità di entità incorporea, interna all’uomo, il sentimento si esprime visivamente attraverso le tracce lasciate dai movimenti del corpo, i gesti sugli elementi strutturali del linguaggio visivo. Ma di quale linguaggio visivo? Quello classico? Quello naturalistico? O qual altro? Sorge così il problema linguistico.
All’inizio i romantici propendono per il modello gotico in architettura, in opposizione a quello greco-romano dei neoclassici. Ma la scelta non è immutabile né univoca; possono essere scelti anche altri modelli, come ad esempio Michelangelo in pittura. Nel Sublime si sceglierà il linguaggio classico, nel Romanticismo storico prevarrà il linguaggio pittoresco. Comunque sia, qualunque scelta si faccia, la cosa più importante è il sentimento, non il mezzo attraverso cui si intende comunicarlo.

LA DISSOLUZIONE DELL’IMMAGINE NATURALISTICA

Il sentimento non ha per forza bisogno dell’immagine naturale per esprimersi. Con l’arte romantica si pongono dunque le basi per la dissoluzione dell’immagine naturale. Le immagini che esprimono la propria reazione emotiva non debbono necessariamente avere un rapporto proiettivo con il contenuto, né evocativo, per cui non è detto che si debba far ricorso necessariamente alla rappresentazione o all’allusione. Si può ottenere un’immagine di sé, del proprio sentire, anche senza ricorrere alla mediazione naturalistica o simbolica: l’astrattismo rientra nella concezione romantica dell’arte.

ARTE COME ARBITRIO

Soggettivo significa arbitrario. Ma sarebbe un grave errore ridurre il concetto di arte soggettiva a quello di arte di fantasia. Arte soggettiva significa che l’arte è frutto della libera interpretazione del soggetto, ovvero è un fatto di coscienza; non segue schemi, non segue regole, non si rifà a niente di canonizzato. Tuttavia che l’arte sia arbitrio non vuol dire che non esistano metodi o modelli, vuol dire solo che non esistono metodi o modelli che non siano quelli liberamente scelti dall’artista e che altresì questi metodi o modelli non costituiscono gli unici validi.
Comunque sia non tutti gli artisti della nuova epoca romantica sono romantici, dunque non tutti condividono le idee romantiche sull’arte. Ciononostante per romantici e antiromantici l’arte non è più un patrimonio d’immagini culturali appartenenti ad un particolare periodo storico e neanche mimesi, ma è espressione soggettiva. Per tutti l’arte non è nella storia dell’arte né nella gnosi della natura, bensì nella propria coscienza. In questo modo il linguaggio espressivo dell’epoca romantica si connota come linguaggio antistoricistico e antinaturalistico.

CONSEGUENZE DELLA NUOVA CONCEZIONE: ARTISTI SI NASCE, NON SI DIVENTA

Impostare l’arte sull’interpretazione personale provoca conseguenze rivoluzionarie. Infatti essendo l’attività creativa un fatto soggettivo non ci potrà mai essere un indirizzo estetico univoco, né tanto più ci potranno essere modelli universali. Non solo: ma essendo l’individuo soggetto a cambiamenti nel corso della propria esistenza si esclude categoricamente la ripetitività delle opere. Inoltre, se l’arte non è il frutto della conoscenza storico naturalistica che cosa mai può più valere studiare l’anatomia sui modelli naturali o conoscere le opere d’arte del passato; che senso avrà per la formazione dell’artista seguire un maestro o frequentare una scuola. Artisti si nasce, non si diventa. E poi: se l’arte è oggetto di opinione personale chi potrà mai dire cosa è arte e cosa non lo è. Ogni persona è libera di ritenere arte ciò che più l’aggrada. Relativizzare il concetto stesso di arte significa, ad un livello più profondo, sottintendere che non esistono certezze in fatto di idee estetiche, dunque il giudizio di validità o meno di un’opera non potrà mai ritenersi assoluto. Cosicché l’opera di un artista non si potrà giudicare sulla base di valori estranei a quelli ricercati dall’artista stesso: un’autentica rivoluzione nel pensiero artistico occidentale, il quale giudicava l’arte sulla base del rispetto o meno dei canoni della cultura classica.
La sconcertante conclusione suscita immediatamente una riflessione: secondo quanto testé affermato come si potrà allora stabilire in assoluto cosa è arte e cosa non lo è.
La risposta è molto semplice: dipende dal sentimento più o meno intenso che l’opera riuscirà a suscitare. Ma ciò che suscita in me un dipinto o una scultura non è detto che debba essere uguale a quel che suscita in qualcun altro, e allora? Con un arte arbitraria il giudizio non potra essere che arbitrario.
Ma è poi davvero così importante stabilire se un’opera ritenuta d’arte sia veramente tale oppure no?
È lo stesso dilemma che si ha a proposito del rapporto fra interpretazione e cosa in sé. Anche in questo caso, il fatto che non si possa determinare ciò che sia arte da ciò che non lo è non esclude affatto la possibilità di giungere ad un giudizio critico sul valore di un’opera (che è poi quello che più conta).
Ma al di là dei problemi di ordine teoretico, la conseguenza di gran lunga più importante è che con l’arte romantica per la prima volta si prende coscienza del fatto che non esistono giudizi universali, non esiste un’arte uguale per tutti, né esiste un’arte valida per tutti i luoghi e per tutti i tempi.

LA QUESTIONE TECNICA

Veniamo ora alla questione tecnica. Una delle più importanti conseguenze della nuova impostazione romantica è il sorgere di quella che potremmo definire la questione tecnica. Fin dalle origini della storia umana essere artisti non ha semplicemente voluto dire essere detentori di un’immagine poetica, ma esser in grado di comunicarla agli altri attraverso il sapiente controllo di determinate tecniche espressive. Nel XIX secolo la comparsa di nuovi strumenti nonché di macchine produttrici d’immagini fa emergere il problema del rapporto con le nuove tecniche creative. Per il pensiero romantico l’opera d’arte è il risultato del trasferimento immediato di un’emozione momentanea su un determinato supporto materiale, di conseguenza nell’arte romantica si tende a privilegiare quelle tecniche capaci di tradurre all’istante le sensazioni in immagine. Ora la mano che manovra scalpello e pennello traduce direttamente le suggestioni in sembianze; si può dire la stessa cosa di una mano che utilizza una macchina? Chiaramente no, poiché con la macchina viene a interrompersi quel filo diretto, quel ponte viscerale che lega l’operatore alla sua opera; con la macchina ideazione ed esecuzione si separano; con la macchina la sensibilità si riduce a zero e la trascrizione immediata delle proprie sensazioni è frenata dal vaglio intellettuale della decodificazione strumentale; la macchina obbedisce a precisi programmi prestabiliti e questo condiziona l’artista a procedere secondo un modello fissato dalla scienza, cosa che limita la sua libertà.
Per gli artisti romantici dunque l’arte si identifica con l’operatività concreta, fisica, quindi la manualità è un canone irrinunciabile, che esclude il ricorso alla tecnologia. Ma, come si è detto, non tutti sono della stessa opinione. C’è chi pensa che sia l’idea a contare di più, l’impronta, lo stile: d’altronde Giotto mica realizzava di suo pugno tutto quello che firmava. Non si mette in discussione il ruolo dell’arte, si dice solo che forse l’impegno dell’arte per il miglioramento dell’individuo e della società nell’epoca delle macchine si debba esprimere in altre forme, diverse da quadri e statue (prova ne è il cinema).
Il cinema è senza dubbio una forma d’arte, eppure il regista, cioè l’artista creativo, potrebbe benissimo anche non toccare neanche con un dito la macchina da presa, ovvero lo strumento tecnico. Con ciò nessuno si sognerebbe mai di dire che i films del tal regista non sono opere d’arte solo perché lui non ha manovrato personalmente la macchina da presa o non ha fatto gli schizzi preparatori delle scene. Una cosa analoga avviene nel campo dell’architettura: nessuno pensa che l’architetto sia meno artista di uno scultore o di un pittore solo perché non mette su materialmente neanche un mattone dell’edificio che ha progettato. Tuttavia il cinema è il cinema e l’architettura, la scultura e la pittura sono l’architettura, la scultura e la pittura. Ogni disciplina è quella che è perché ha la sua storia e le sue caratteristiche peculiari.
A cavallo fra le due guerre mondiali, i razionalisti andranno oltre la pregiudiziale ideologica romantica e si inseriranno persino nel discorso industriale, aprendo la strada al superamento del Romanticismo, ma si troveranno di fronte un altro problema con cui fare i conti: la questione morale. Soltanto col superamento di quest’ultima problematica si potrà dire che la fase romantica dell’arte occidentale si sarà veramente conclusa. Ma di questo argomento si parlerà in un altro viaggio. Per il momento voglio concludere aggiungendo che dimostrare le ragioni per cui sono necessari quadri e statue nella società delle macchine costituirà la problematica principale che caratterizza tutta l’arte del periodo romantico. Tale questione si espliciterà in termini sempre più chiari a partire dalla fine dell’Ottocento/inizio Novecento e giungerà fino ai nostri giorni dove tutt’oggi rappresenta ancora la questione più importante.

COMPONENTI CULTURALI DEL ROMANTICISMO STORICO

A determinare i caratteri del Romanticismo storico concorrono due componenti principali: il Pittoresco, realistico, e il Sublime, visionario. Anche il Romanticismo storico, come il Neoclassicismo d’altronde, contiene aspetti che lo legano al realismo tipico della poetica del Pittoresco e aspetti che lo legano invece all’immanentismo visionario tipico della poetica del Sublime. La suggestione romantica, che poi altro non è che la sensazione visiva associata al sentimento, è qualcosa di più che semplice materia grezza a cui la scienza da un ordine per conferirle la qualifica di cosa. È il punto di contatto fra oggetto e soggetto, e il soggetto non è solo sentimento, come volevano gli artisti del Pittoresco, ma anche intuizione, come volevano gli artisti del Sublime. Del Pittoresco si condivide l’atteggiamento partecipativo nei confronti del contingente: si opera nella realtà, per la realtà, e in essa si è agenti attivi, in grado di condizionarne l’evoluzione; del Sublime si condivide la condanna della società tecnologica e industriale, ma mentre nell’idealismo classicista ci si vuole alienare, nel romanticismo ci si impegna per cambiarla.
Il Romanticismo storico riprende e sviluppa gli elementi linguistici propri del Pittoresco preromantico, ma non ha nulla di domestico o naturalistico: il suo soggetto è l’uomo eroe. Dunque torna il motivo neoclassico davidiano, solo che al posto dell’estatica quiete, ciò che si darà alla lettura nell’immagine artistica sarà la reazione emotiva di chi affronta la realtà per viverla e non di chi la evade per contemplarla.

DIFFERENZE E ANALOGIE CON IL NEOCLASSICISMO

Se innegabili sono le affinità con le correnti preromantiche, non altrettanto innegabili sono le analogie con il Neoclassicismo. Per i neoclassici l’arte non è un procedimento proiettivo, ma un procedimento operativo esemplare, sistematico, razionalmente controllato; per i romantici, viceversa, l’arte è una via alla libera espressione dei sentimenti, dunque un procedimento soggettivo, unico e irripetibile, atto a cogliere le sensazioni del momento. Gli uni e gli altri partono dalla fase percettiva, ma mentre per i neoclassici il processo artistico si conclude quando l’esperienza si dilegua sul piano superiore dell’idea, cioè le sensazioni al fine si ricompongono in un ordine logico superiore, per i romantici il processo ha termine quando l’esperienza è stata completamente vissuta attraverso il lavoro artistico, per cui l’ordine non è altro che il ritmo con cui le sensazioni si succedono e agiscono sull’animo umano. Ma la trascendenza delle sensazioni o la loro trasformazione in azione sono due modi diversi di sentire il processo creativo per arrivare all’arte e non all’essere.

AMBITO STORICO ARTISTICO

La storia dell’arte romantica propriamente detta si apre con lo scontro fra neoclassici e romantici, ovvero due modi opposti di concepire l’arte. Questo scontro si presenta sottoforma di attacco e demolizione ad opera delle forze romantiche e anticlassiche di quel modo particolare di concepire l’arte che è il classicismo, e cioè di una concezione che vede l’attività creativa come progressiva conquista di perfezione manualistica imitativa della natura, condotta alla luce della sapienza antica. A tutt’oggi questa fase non si può dire ancora conclusa. Perdura, anche se in forme del tutto diverse, nelle attuali poetiche in cui si contrappongono concezioni ora esplicitamente orientate verso valori contrari a quelli umanistici, quali l’irrazionalismo e la destrutturalità analitica, ora orientate verso una loro riaffermazione, come nelle opere in cui si ravvisano valori quali la razionalità e la strutturalità sintetica. Va precisato che l’arte classica contro cui si scagliano gli strali degli artisti romantici non è propriamente quella prodotta dalla civiltà greca, ma più che altro un’idea astratta che rientra in una concezione genericamente universalistica della classicità, che implica un atteggiamento complessivamente razionale ed imitativo nei confronti della natura oggetto.
Porre in atto la ricerca formale classica significava, in passato, rendere operativi due principi fondamentali: l’idea dell’arte come strumento di conoscenza della natura e l’idea dell’arte come modello ultimo di perfezione tecnica artigiana; due principi che non sono più in sintonia con il nuovo mondo delle macchine. All’epoca della rivoluzione industriale la specializzazione del sapere è cosa ormai fatta e la sfera conoscitiva passa definitivamente nelle mani della scienza, mentre la struttura economica della società passa dalla primitiva organizzazione tecnica delle botteghe artigiane alla moderna tecnologia delle fabbriche.
Il fine strumentale precipuo dell’arte classica contemplava come ultima tappa l’individuazione del bello nell’essenza, cioè nella forma primigenia di tutte le forme naturali; questo obiettivo implicava un lavoro analitico preliminare della realtà fisica, cioè uno lavoro di tipo scientifico. Ora, nella nuova situazione, in cui lo studio della realtà fisica è divenuto di esclusiva pertinenza della scienza, all’arte non rimane altro che occuparsi dell’aspetto suggestivo delle cose, utilizzando la scienza, semmai, come fonte d’ispirazione nel processo formativo dell’immagine artistica. Occuparsi dell’aspetto suggestivo delle cose significa cogliere quanto c’è di emozionante tanto nell’essenza quanto nell’apparenza della realtà. In entrambi i casi, comunque, non essendo più l’arte necessariamente legata alla documentazione naturalistica, l’archetipo, o l’immagine che sia, non è più necessariamente legato alla conoscenza della natura. Si determina così la crisi del linguaggio classico e con esso la crisi del linguaggio occidentale.
Non è la prima volta nella storia dell’arte che il linguaggio classico entra in crisi. Dalla sua nascita, nella Grecia del V secolo a.C., ad una breve fase umanistica ha fatto seguito, sempre nel corso dei secoli, una lunga fase di sfaldamento e demolizione dei principi classici. Questo fenomeno è stato talmente ricorrente nella storia dell’arte occidentale da costituire quasi una costante, e tale è stata la sua regolarità da indurre qualche storico a sbilanciarsi in una proiezione teorica in cui si ipotizza l’esistenza nel linguaggio occidentale di un flusso perenne fatto di fasi classiche e anticlassiche.
Sebbene i periodi anticlassici abbiano avuto durate assai superiori a quelli classici, in questi intervalli l’arte classica non si è mai totalmente estinta, ma solo eclissata, e anche nei momenti di più profondo oblio ha costituito, comunque, un costante riferimento per le espressioni delle correnti anticlassiche, anche se solo nel senso di generare una radicale opposizione. Pure la storia dell’arte moderna è contraddistinta dall’alternarsi di momenti in cui è ravvisabile il prevalere di principi riconducibili, per via di alcuni lineamenti fondamentali, all’area umanistica e momenti in cui è ravvisabile l’azione di principi antiumanistici. Il prevalere ora dell’uno ora dell’altro connota il carattere dei diversi linguaggi che, all’inizio, si configurano come reazioni oscillanti fra malinconiche testimonianze di procedure in via d’estinzione e tentativi di ridefinizione del volto e della funzione dell’arte nella moderna civiltà tecnologica.

LA SVOLTA ROMANTICA

L’arte neoclassica domina incontrastata l’Europa quando nel 1824 si tiene a Parigi la mostra dei pittori romantici inglesi. Questa mostra riscuote un enorme successo e per la prima volta si viene a conoscenza di quel che si va facendo nel paese più industrializzato d’Europa. Due artisti in particolare colpiscono il pubblico per la loro audacia: John Constable (1776-1837) e William Turner (1775-1851). Le loro opere, così nuove, hanno sui giovani talenti francesi un effetto a dir poco stravolgente; aprono loro la strada alla rivoluzione romantica, prima, e a quella impressionista, poi, ancora più radicale.
Il Romanticismo nasce in opposizione al Neoclassicismo, ma al di là di esso, più in generale, il pensiero romantico sorge in opposizione alla concezione classica dell’arte. Di contro, il pensiero classico continuerà a vivere in opposizione al pensiero romantico, ma non si tratterà più di classicismo, bensì di anti-romanticismo.
L’anticlassicismo romantico consiste innanzi tutto nel rifiuto delle regole classiche sulla ideazione e realizzazione dell’opera d’arte, ma dietro questo rifiuto si nasconde il fatto che nella poetica romantica la natura non è più partecipe della razionalità umana, bensì è soggetta alla variabilità dei sentimenti umani, cosicché il magico rapporto di equilibrio fra il mondo e l’uomo si rompe: tra oggetto e soggetto è il soggetto a prevalere sull’oggetto. In quanto prevalere della visione interiore, della dimensione psichica, dei processi interni sui fenomeni, esterni, tutta l’arte che si sviluppa in opposizione al formalismo delle correnti di Stato nella seconda metà del primo Ottocento si qualifica come anticlassica.

CONTESTO STORICO POLITICO

Per una concezione che vuole la società guidata dalla ragione, assistere all’irragionevole restaurazione del regime monarchico con il Congresso di Vienna (1814-1815), è davvero un duro colpo. Il Neoclassicismo, promotore di un bello razionale, immesso in un contesto che non ha più nulla a che vedere con la ragione, stona, risulta essere un mezzo edulcorante nelle mani di un potere conservatore e repressivo: la poetica neoclassica assume così il carattere di poetica di regime.
In un quadro politico totalmente mutato, fatto di tanti stati consorziati per il ripristino delle vecchie strutture, inneggiare ad una cultura supernazionale suona come una sfida politica. D’ora in poi il popolo di ogni nazione dovrà trovare nell’ambito della propria cultura la guida ideale per il riscatto dalla condizione di sudditanza a cui i regimi monarchici ripristinati lo costringono a sottostare. In tutta Europa si fa strada un sentimento oscuro della vita, come se le forze del male avessero preso il sopravvento e la ragione fosse stata definitivamente annientata. Ma non basta: se questa è la situazione a cui si è giunti sotto la guida della ragione e della scienza, sua forma perfetta, allora appare evidente che bisognerà metter qualche altra cosa al posto di guida, qualcosa che non sia informata al raziocinio. Ci si rivolge così alla religione e ad un’arte che con essa abbia a condividere la fonte d’ispirazione: la fede nella rivelazione. Nasce in questo modo, nell’ambito globale del Romanticismo, di cui fa parte integrante anche la scaduta ideologia neoclassica, il Romanticismo storico, poetica dai forti accenti libertari e religiosi allo stesso tempo.
Con la reazione romantica non solo si vuole abbattere l’antichità classica adottata come sterile modello formale dalla moda di regime, ma si vuole cancellare il concetto di arte come processo di sublimazione estraniante per sostituirlo con il concetto di un’arte qualificabile come processo interattivo con le forze progressiste della società, per cui al posto dell’arte classica si propone come modello formale l’arte gotica, arte della borghesia artigiana.

EUGÈNE DELACROIX, FONDATORE DEL ROMANTICISMO STORICO

Parigi, Museo del Louvre
Eugène Delacroix
AUTORITRATTO (1839)
Olio su tela, altezza cm. 64 – larghezza cm. 51

All’interpretazione fredda, alla visione distaccata, al modo edulcorato di presentare le cose reagisce Eugène Delacroix (1798-1863). Eugène Delacroix è il capo universalmente riconosciuto di tutti gli artisti romantici; dopo di lui l’arte non sarà mai più la stessa. È il punto di partenza di tutta l’arte moderna; con lui inizia un ciclo che non si può dire ancora concluso. La sua opera decreta la fine del ciclo classico e apre il nuovo ciclo romantico. Con lui l’attività creativa non è più un mezzo di rappresentazione della realtà, ma un mezzo espressivo del proprio ego; ciò che conta non è l’oggetto della rappresentazione, ma l’autore che sta dietro alla rappresentazione dell’oggetto, quello che prova, quello che intuisce, le proprie impressioni. Con lui inoltre i vocaboli del linguaggio artistico iniziano ad essere quelli della realtà contingente. Molto prima di Courbet, Delacroix rivendica il diritto dell’artista ad operare in piena libertà, senza l’obbligo di rispettare regole che non siano quelle da lui stesso imposte. Secondo il suo pensiero esistono dei valori universali ed eterni inalienabili, e uno di questi è la libertà espressiva.
Ferdinand-Victor-Eugène Delacroix nasce a Charenton-Saint-Maurice, una località vicino Parigi, il 26 aprile. La sua è una famiglia benestante. Suo padre, Charles, ha rivestito cariche politiche di rilievo durante il periodo del direttorio e sotto l’impero. È l’ultimo di quattro figli, ma anche se legalmente riconosciuto, c’è il fondato sospetto che non sia legittimo; il suo presunto vero padre potrebbe essere niente di meno che il Taillerand (1754-1838). Da piccolo è un vero discolo; fa giochi a dir poco pericolosi: rischia più volte di finir male, tipo impiccato, annegato, bruciato. Sin dall’adolescenza dà segni di un prodigioso talento: è portato per la musica, ma lui vuol fare il pittore. A sette anni gli muore il padre. Studia al prestigioso liceo imperiale Louis-le-Grand dove fa la conoscenza dei mostri sacri della letteratura classica, Virgilio (70-19 a.C.), Orazio (65-8 a.C.), Corneille (1606–1684), Racine (1639-1699). A 17 anni entra nell’atelier di Pierre-Narcisse Guérin (1774-1833), un pittore aperto alle novità. Due anni dopo arriva Théodore Géricault (1791-1824) e per Eugène si fa luce.

Parigi, Museo del Louvre
Eugène Delacroix
LA BARCA DI DANTE (1822)
Olio su tela, altezza mt. 1,80 – larghezza mt. 2,40

Nel 1819 Géricault realizza Le radeau de la Méduse (La zattera della Medusa), il suo capolavoro. Delacroix ne rimane stupefatto. Ormai non ha più dubbi: è pronto per fare il pittore. L’anno dopo prende in affitto uno studio a rue de la Planche, oggi rue de Varenne, e inizia a lavorare per il salon: è lì che vuole “sfondare”. Così nasce nell’estate del 1822 il suo primo quadro, La barque de Dante.
Dante et Virgile aux enfers, cioè Dante e Virgilio agli inferi, questo è il titolo con cui il quadro è conosciuto al salon, lascia gli spettatori sconcertati. Colpisce la fattura con cui sono rese le gocce d’acqua sui corpi dei dannati, tramite tinte giustapposte, cosa che contravviene a tutte le regole della buona maniera del dipingere dettata dall’École des Beaux Arts. Ma non è questa la cosa più importante. Proprio nel periodo in cui sta lavorando al saggio è follemente innamorato della donna di un amico, Raymond Soulier; la passione lo divora, il suo spirito è inquieto, soffre. Sente che la sua volontà non può nulla contro l’infame destino che lo sta lentamente trascinando alla deriva. Ebbene, invece di annullare tutto quel che prova al momento di mettersi di fronte alla tela, lascia che il suo stato d’animo trapassi in quel che va facendo. Così il dolore dell’artista provocato da una passione destinata a rimanere sempre nel buio diventa il dolore di chi è destinato a dimorare per sempre nelle oscure viscere dell’inferno: è la chiara affermazione del Romanticismo; Romanticismo come rifiuto di stare alle esigenze del mercato, alle regole accademiche, alle aspettative della gente. Da questo momento Delacroix abbandona l’abito del professionista e indossa quello del ribelle anticonformista.
Fattosi artista maledetto diventa un assiduo frequentatore dei salotti mondani. Qui fa la conoscenza di molta gente che conta; qui ha l’occasione di avvicinare i più quotati artisti del momento, tutti neoclassici; qui si fa notare per l’indiscutibile fascino. Théophile Gautier (1811-1872) lo descriverà più in là come un uomo seducente, dai modi urbani, anche se il suo sguardo è fierissimo, tanto da incutere un terribile senso di soggezione. Qui comincia a farsi conoscere; la sua pittura suscita due reazioni antitetiche che non ammettono sfumature: o la si ama incondizionatamente, o la si odia.
La morte di Géricault lo sconvolge. Fra i due non c’era una vera e propria amicizia, quanto piuttosto rispetto e ammirazione dell’uno nei confronti dell’altro. A Géricault, Delacroix deve soprattutto l’idea che anche la storia moderna, e non solo quella antica, può essere d’esempio agli uomini. È questa la chiave per intendere la svolta di Eugène: la storia non è solo il passato ma anche il presente. L’assunto si spiega abbastanza agevolmente con il pensiero artistico stesso di Delacroix: se il valore dell’opera sta nelle emozioni che il soggetto provoca nell’autore e non nel contenuto oggettivo non ha più senso stabilire una gerarchia fra le vicende umane, anche un episodio di poco conto può costituire oggetto di rappresentazione per l’arte.

Parigi, Museo del Louvre
Eugène Delacroix
IL MASSACRO DI SCIO (1824)
Olio su tela, altezza mt. 4,22 – larghezza mt. 3,52

Scènes des massacres de Scio (Il massacro di Scio) non è il primo quadro francese di storia che ci pone di fronte a delle vittime (lo avevano già fatto Gros (1771-1835) e Girodet (1767-1824)), è il primo quadro in cui l’artista esprime in tutta sincerità i sentimenti di partecipazione alla tragedia di un popolo vittima della crudeltà dell’oppressore. Delacroix non accorre come faranno tanti altri spiriti romantici in soccorso degli insorti, non farà come Lord Byron (1788–1824) che morirà per la causa; tuttavia la sua solidarietà la dimostra dipingendo.
Il soggetto prende spunto da un episodio del tutto marginale della guerra d’indipendenza greco-turca, ma che scuote profondamente l’opinione pubblica per la sua efferatezza. Una delle tante questioni sorte durante il periodo della restaurazione è la cosiddetta “questione d’Oriente”, cioè una ingarbugliata montagna di problemi politici causati dallo sfaldamento dell’impero ottomano. Nel 1821 i greci, sottomessi ai turchi, insorgono contro i loro oppressori. Alla testa della rivolta, che vede coinvolti tutti i ceti sociali più modesti, si mettono i ricchi mercanti ellenici di Costantinopoli. Sperando nell’appoggio della Santa Alleanza l’anno successivo la Grecia proclama l’indipendenza. Ma per questioni di equilibri politici questa non si immischia, lasciando così mano libera alla reazione turca. È in questa situazione che matura l’episodio a cui il quadro di Eugène fa riferimento. È l’aprile del 1822 e i turchi intervenendo nell’isola di Scio per reprimere l’insurrezione compiono un massacro, ma sarà un’inutile strage perché alla fine, nel 1830, la Grecia si libererà comunque dal loro giogo. La tela esposta al Salon del 1824 non piace a tutti, ma pone Eugène alla testa degli artisti romantici. Scopo dichiarato dell’opera non è quello di fare la cronaca di un episodio crudele, bensì di suscitare sentimenti di orrore e fatalità: è il preludio all’opera che lo farà entrare nella storia.
Affamato di esperienze Delacroix intraprende un viaggio in Inghilterra, quindi al suo ritorno a Parigi inizia a frequentare la casa di Victor Hugo (1802-1885) in rue Notre-Dame-des-Champs, dove incontra tutta la crema dell’intellettualità cittadina dell’epoca: Sainte Bauve (1804-1869), Stendhal (1783-1842), Dumas (1802–1870), Berlioz (1803-1869), tanto per citare i nomi più noti. Qui si leggono brani di Scott (1771–1832), Byron, Goethe (1749-1832) e Shakespeare (1564–1616). In questo clima matura la Mort de Sardanapale (Morte di Sardanapalo), esposto al Salon del 1827.
Sempre squattrinato a causa del tenore di vita dispendioso, per far soldi si rivolge ad amici affinché gli procurino committenze dalla Chiesa e dall’aristocrazia; nascono in tale contesto opere dal tema religioso e celebrativo.

ANALISI DELLA LIBERTÀ GUIDA IL POPOLO

Parigi, Museo del Louvre
Eugène Delacroix
LA LIBERTÀ GUIDA IL POPOLO (1830)
Olio su tela, altezza mt. 3,25 – larghezza mt. 2,60

Il lavoro con cui Eugène fa il suo ingresso nella storia è La libertà guida il popolo. In questo olio si possono rilevare in modo abbastanza agevole i caratteri peculiari dell’arte romantica.
Il vero titolo dell’opera è La liberté guidant le peuple. 28 juillet 1830. Il dipinto raffigura la rivolta popolare avvenuta durante i moti insurrezionali del luglio 1830. Questi gli antefatti.
Il 1824 sembra un anno di ordinaria successione, ma ciò a cui darà luogo non lo è affatto. Luigi XVIII (1814-1824), il re della Francia restaurata dal congresso di Vienna, muore. Gli succede il fratello Carlo X, conte d’Artois (1824-1830) ed è subito ultrareazione. Intellettuali e uomini d’affari insorgono e si preparano a cacciare il Borbone in nome degli ideali liberali. Al loro fianco si mobilitano anche i ceti medi e i proletari mossi da ideali repubblicani e socialisteggianti, ben più pretenziosi rispetto a quelli borghesi moderati. L’infuocata situazione politica spinge Carlo X ad adottare contromisure di un’estrema impopolarità: scioglie la camera, limita la libertà di stampa, modifica la legge elettorale e indice nuove elezioni. Pensa erroneamente che in questo modo possa reprimere le agitazioni in corso, ma quello che ottiene è la rivolta. Il 27 luglio del 1830 il popolo imbraccia i fucili e invade le vie e le piazze di Parigi. Per tre giorni si spara ovunque, quantunque, comunque. Uomini di ogni ceto, borghesi, intellettuali, soldati, bottegai, operai, donne e ragazzi si ritrovano fianco a fianco sulle barricate a combattere per la stessa causa: cacciare il tiranno. La sommossa produce l’effetto desiderato: Carlo X abbandona il trono. Al suo posto la grande borghesia finanziaria riesce a far eleggere re Luigi Filippo d’Orléans (1830-1848), una scelta che non soddisfa tutti, e rimanda ad un nuovo più intenso scontro. Questa la vicenda; vediamo come ce la racconta Delacroix.
Nella tela c’è il popolo, c’è la Francia, c’è l’insurrezione. Il popolo non è massa, è costituito dalla solidarietà di popolani, soldati e intellettuali borghesi; ogni combattente è individuato come persona e come ceto sociale. Nella tela c’è anche lui, Eugène, l’autore: è il personaggio in cilindro e frac che imbraccia il fucile, alla sinistra della figura allegorica posta al centro della composizione. Fin qui sembrerebbe un quadro realista; l’unica figura simbolica è la donna che allude alla Francia e alla vittoria contemporaneamente. Che sia simbolica ce lo dice l’aspetto ideale della “nike con la coccarda”, proiettata in avanti a incitare gli insorti, per il resto è realistica come tutte le altre.
Delacroix segue David (1748-1825) in questo interessamento dell’arte alle vicende storiche, ma, a differenza di questi, non sacrifica le passioni al fine di una superiore chiarezza, al contrario, rivive il fatto nel momento in cui lo dipinge. Egli non si distacca dalla realtà come fa Ingres (1780-1867) per definirne la forma oggettiva, vi si immerge completamente invece per ritrovare, nella flagranza del fare pittorico, le emozioni di quel momento: l’esperienza dunque rappresenta la linfa vitale dell’opera d’arte. Delacroix intende l’arte non come strumento intellettuale, come mezzo per l’interpretazione della realtà, ma come un modo per esperire, sperimentare con le proprie viscere, col proprio corpo, con la propria sensibilità, la realtà che ci circonda. L’arte non è più un modello di resa del contingente, ma un modello di comportamento: è il modo attraverso cui si manifesta la reazione emotiva provocata dal rapporto visivo con il mondo esterno. Al di là della vicenda che ci racconta, Delacroix ci fa rivivere il momento storico non già attraverso la narrazione dell’avvenimento, ma attraverso la vitalità, la palpitazione delle forme stesse, resa evidente dalla pennellata, non dalla descrizione del soggetto. Il dipinto non viene più concepito come un sistema di forme, ma come un sistema di forze; l’arte non è operazione mentale, ma azione passionale. L’attività creativa da Delacroix in poi non prenderà più i suoi strumenti culturali dal passato, ma dal presente; dipenderà unicamente dai mezzi individuali, personali con cui l’artista fa l’esperienza del mondo. Con lui l’arte non esprimerà più conoscenze, visualizzerà reazioni; non sarà più espressione dell’essere ma dell’agire; non realizzerà un contenuto mentale, ma una pulsione interiore.
Dopo questo quadro l’arte non si volgerà più indietro, ma guarderà sempre al contingente, cosicché il passato uscirà per sempre dalla rappresentazione artistica, per fare ancora qualche sporadica riapparizione, come memoria inconscia, nelle citazioni del presente. La libertà guida il popolo è anche il primo dipinto politico della storia dell’arte moderna e Delacroix è il primo intellettuale ribelle del nuovo corso, un artista che sceglie di rappresentare un soggetto in cui sono i popolani ad essere trattati come eroi, non i capi di stato o i dittatori.
Potrebbe sembrare la scelta di un rivoluzionario, ma non lo è. In realtà Delacroix rappresenta solo il giovane intellettuale borghese idealista; dopo tanta appassionata partecipazione si scaglierà contro la piccola borghesia, timorosa di tutti e di tutto, dalla vista corta, dalla cultura mediocre e dal pessimo gusto. La sua personalità è ben definita anche dalle sue idee politiche; le sue posizioni, come quelle di tutti i romantici, sono alquanto ambigue. È pronto ad infiammarsi quando si tratta di difendere la libertà individuale, ma poi non riconosce le sacrosante ragioni della lotta di classe; si dice avverso ad ogni forma di potere, ma poi cerca il successo nei Salon, frequenta i salotti mondani e si fa raccomandare per ottenere committenze prestigiose; per lui libertà, come aveva ampiamente espresso nella tela col massacro di Scio, vuol dire indipendenza nazionale, non uguaglianza di diritti.

DELACROIX E IL PRELUDIO ALL’IMPRESSIONISMO

Parigi, Museo del Louvre
Eugène Delacroix
DONNE DI ALGERI NEL LORO APPARTAMENTO (1834)
Olio su tela, altezza mt. 1,80 – larghezza mt. 2,29

Due anni dopo la realizzazione della “Liberté” Delacroix parte per il Marocco al seguito di una missione diplomatica. Il viaggio dura sei mesi e gli permette di visitare non solo il Maghreb ma anche Spagna e Algeria. La visita di questi Paesi gli lascia un segno indelebile. Le opere che faranno seguito al suo ritorno in Francia risentiranno immancabilmente dell’esperienza marocchina, ma non tanto per via della scelta dei temi, che parleranno sempre più di Oriente (in senso culturale, non geografico), quanto per via della tavolozza che si arricchirà dei colori caldi e intensi del Mediterraneo. Forse l’opera più significativa di questo periodo è Femmes d’Alger dans leur appartement (Donne di Algeri nel loro appartamento), del 1834, un quadro che anticipa di trent’anni l’Impressionismo.
Con l’avanzare dell’età il pittore, forse perché ormai famosissimo, anche se non amato da tutti, si fa sempre più raro nei salotti alla moda e sempre più comune per viali e campagne: è noto che Delacroix frequentasse gli ambienti esclusivi per opportunismo, ma fondamentalmente lui era un misantropo. Vittima del suo lavoro ben fatto, la fase matura è costellata di imprese gravose. Le opere dell’ultimo decennio portano i segni delle intense riflessioni sulla morte, riflessioni intrise di pessimismo.
Delacroix si spegne a Parigi il 13 agosto a 65 anni per l’irreversibile aggravamento di una laringite cronica che lo affliggeva fin da giovane.

GÉRICAULT E LA CONTRAPPOSIZIONE FRA REALE E IDEALE

Parigi, Museo del Louvre
Théodore Géricault
LA ZATTERA DELLA MEDUSA (1818/1819)
Tela, altezza mt. 4,19 – larghezza mt. 7,16

Ancor prima di Delacroix, romantico è Géricault; anzi nella sua breve esistenza (muore giovane, a 33 anni) va oltre Delacroix; brucia le tappe e si spinge più in là del Romanticismo stesso, anticipando il Realismo ottocentesco. Ciò che lo fa andare oltre Delacroix è il peso che assume nella sua coscienza la realtà, una realtà che in Eugène si stempera nell’immaginazione. Con Géricault lo scontro fra Neoclassicismo e Romanticismo si trasforma in scontro fra idealismo e realismo, cosicché a partire da lui l’antitesi alla concezione classica non è più rappresentata dalla concezione romantica, ma da quella realistica. Anzi con la sua opera si pongono le basi dei due principali atteggiamenti degli artisti moderni nei confronti dell’impegno dell’arte nella società moderna: quello per cui l’arte trasforma l’oggetto della propria interpretazione e quello per cui ne fornisce pura testimonianza. Per Géricault il sublime eroico, al contrario di quello neoclassico, non nasce dal superamento della realtà contingente, ma dalla vita, che è fatta di una indefinita successione di momenti transitori legati tra loro senza soluzione di continuità. L’espressione figurativa di tale assunto la si può ben cogliere se si mettono a confronto due ritratti equestri, quello di Napoleone, del David, in Passaggio del Gran San Bernardo del 1800 del Musée National du Château de Malmaison a Rueil con il ritratto dell’ufficiale dei cacciatori a cavallo durante la carica del 1812 del Louvre.
L’opera della svolta è La zattera della medusa. La gigantesca tela rivive due anni dopo un fatto di cronaca che suscitò un’enorme impressione e un vespaio di polemiche. Nel 1816 l’equipaggio di una fregata francese di nome Medusa, che stava navigando verso il Senegal per scopi coloniali, si vide costretto ad abbandonare la nave a causa di un incidente avvenuto al largo delle coste africane (si era incagliata). Gli ufficiali e il governatore che era imbarcato sul bastimento per mettersi in salvo utilizzarono le scialuppe, mentre i 150 uomini che costituivano il resto del personale di bordo, più una donna, furono abbandonati su una zattera improvvisata. Di tutti i membri della ciurma solo pochissimi si salvarono; indicibili furono le sofferenze sopportate: fame, sete, sole, vento. La paura di rimanere preda degli squali o semplicemente di essere inghiottiti dalle onde segnò profondamente e per sempre la psicologia dei sopravvissuti. La tela iniziata nel 1818 viene presentata al salon dell’autunno successivo. La sua esposizione fa scalpore e scatena violente reazioni, creando una serie di animose discussioni sia politiche che artistiche. Nel riproporre l’accaduto Théodore trasforma una disgrazia in un evento storico, i cui protagonisti però non sono eroi, bensì gente disperata e moribonda. Si tratta dunque di una visione della storia contraria a quella fastosa e celebrativa delle imprese dei grandi personaggi. Qualcuno a questo quadro da un significato allegorico, ma non è nelle intenzioni di Géricault fare un quadro allegorico; c’è solo l’intuizione della realtà nell’attimo in cui questa viene rivelata da un improvviso bagliore e provoca la reazione apprensiva dell’artista.
Per Géricault dunque il realismo non è certo imitazione del vero, è molto di più. È storia senza speranza, antagonismo fra uomo e natura, dissoluzione dell’ideale, gravame della morte sulla vita; insomma è rifiuto morale di quella concezione dell’arte che vorrebbe il quadro come epilogo catartico degli eventi, ovvero della concezione classico-cristiana: che sarebbe poi l’arte neoclassica. Queste componenti si configurano in modi distinti: l’ordine classico viene distrutto dal crescendo dei sentimenti, dal punto zero dei morti, attraverso la rassegnazione del vecchio che trattiene il corpo esanime di un giovane ignudo, al punto di massima intensità nel personaggio che all’apice dell’onda umana dei superstiti sventola un drappo in direzione di un puntino lontano sull’orizzonte appena distinguibile: la nave della salvezza. A questo moto ascensionale dei sentimenti da sinistra a destra se ne contrappone uno ascensionale da destra a sinistra degli elementi naturali. Dunque l’intera composizione è intessuta su elementi contrastanti: la compostezza olimpica del vecchio inane e lo scompigliato agitarsi dei naufraghi, la bellezza efebica del corpo del giovane ignudo cadavere e la bruttezza di quel mucchio di membra ammassate e distorte dalla sofferenza, la grandezza di un’umanità eroica e la decadenza della situazione.