GERMANIA
CASPAR FRIEDRICH
INGHILTERRA: LA CONFRATERNITA DEI PRERAFFAELLITI
IL ROMANTICISMO ITALIANO
PERIODIZZAZIONE
I PRIMI TENTATIVI DI EMANCIPAZIONE
LA SCAPIGLIATURA LOMBARDA
L’OTTOCENTO NAPOLETANO
TOSCANA: PATRIA DEI MACCHIAIOLI
LA TEORIA MACCHIAIOLA
DIRFFERENZA FRA MACCHIAIOLI E IMPRESSIONISTI
LA SITUAZIONE IN ITALIA DOPO L’ESPERIENZA MACCHIAIOLA


GERMANIA

Amburgo, Kunsthalle
Caspar David Friedrich
IL NAUFRAGIO DELLA SPERANZA (1822)
Olio su tela, altezza cm. 98 – larghezza cm. 128

Il romanticismo è un fenomeno internazionale che interessa tutte le nazioni europee, anche se diversi sono i livelli di coinvolgimento. La Germania, patria dello Sturm und Drang, è uno di quei Paesi in cui la corrente romantica ha lasciato i segni più profondi.
Il problema principale che caratterizza la situazione tedesca nella prima fase del periodo romantico è la ricerca di un’unità nazionale, politica e culturale. La maggior parte degli ingegni alemanni sono impegnati a trovare un principio spirituale che riunisca tutti i popoli germanici in un’unica nazione. Compito quanto mai arduo dal momento che i teutoni sono formati da genti etnicamente e linguisticamente sorelle ma diverse nelle abitudini, nelle tradizioni e nella fede, nonchè politicamente divise. Tuttavia ci si mette ugualmente alla ricerca di questo principio. Su quale possa essere tale fondamento varie sono le ipotesi avanzate. Goethe (1749-1832) propone la razionalità illuministica, Schiller (1759–1805) la fiducia nell’intuizione del genio germanico, Hegel (1770-1831) e Fichte (1762-1814) avanzano l’idea di una missione storica della nazione tedesca nel mondo.

CASPAR FRIEDRICH

Il primo artista romantico tedesco di livello internazionale è Caspar David Friedrich (1774-1840). È l’autore di un dipinto che all’epoca in cui venne esposto al pubblico fece molto scalpore: Il naufragio della Speranza. Il soggetto trae ispirazione da un fatto di cronaca: il naufragio di un battello, la Speranza, avvenuto durante una spedizione scientifica al Polo Sud. Fa seguito a La zattera della Medusa, di Géricault (1791-1824), finito appena tre anni prima, nel 1819, che trae spunto da un altro naufragio.
Come ha fatto il collega francese nel suo quadro, Friedrich, nel suo, non ci racconta l’accaduto, non ci restituisce la fredda sequenza dei fatti in modo chiaro e ordinato affinché l’osservatore possa capire come siano andate effettivamente le cose, quali siano state le cause dell’incidente. Lui interpreta il soggetto come lo vede; non in maniera oggettiva, ma distorta, per via delle emozioni che il tema gli suscita. Caspar ci racconta l’avvenimento come lo vive lui; cioè ce ne dà un’interpretazione personale emozionata, o se si preferisce appositamente forzata per mettere in evidenza quello che prova, i suoi sentimenti: il sentimento di angoscia di fronte all’incontrollabile; il senso di sgomento di fronte alle immani forze dell’Universo; il senso di finitezza umana di fronte all’immensità della natura. In altri termini Caspar coglie il sublime nella natura, cioè il motivo espressivo fondamentale dell’intero ciclo romantico. Friedrich esprime il sublime facendoci percepire, pur nelle dimensioni limitate del quadro, il senso di una estensione sconfinata, una natura debordante e grandiosa. In primo piano si ergono degli smisurati lastroni di ghiaccio che formano una specie di piramide. Questa si piega verso sinistra, sospinta dalle stesse titaniche forze che crepano il pack. Attraverso il cielo denso di vapor acqueo congelato si intravedono altre piramidi di ghiaccio, sparse qua e là. Vagando con lo sguardo attraverso questa immensità infinita, s’inciampa con l’occhio in un particolare: una piccola forma scura sullo sfondo chiaro. È la Speranza, travolta e schiacciata dai ghiacci. La Speranza è una nave che porta degli scienziati ad affrontare le immense distese ghiacciate del Polo Sud per scopi scientifici. È dunque la nuova tecnologia, alla cui base c’è la scienza, a portare l’uomo moderno a sfidare la natura per averne il controllo. Ma per quanto possa essere eroico il suo tentativo, è destinato a fallire perché nulla si può contro la spropositata potenza della natura.
Il linguaggio espressivo di Friedrich, coerentemente con l’impostazione romantica del suo pensiero, interpreta la realtà sulla base della propria esperienza diretta, cioè a dire ricorrendo ad un linguaggio empirico. Questo linguaggio è un linguaggio fatto di macchie, dunque rientra nel novero dei canoni realisti, e più in particolare dei modi tipici del Pittoresco.

INGHILTERRA: LA CONFRATERNITA DEI PRERAFFAELLITI

Londra, Tate Gallery
Holman Hunt
CLAUDIO E ISABELLA (1850)
Olio su mogano, altezza cm. 76 – larghezza cm. 43

Londra, Tate Gallery
Dante Gabriele Rossetti
ECCE ANCILLA DOMINI (1849/1850)
Olio su tela, altezza cm. 72 – larghezza cm. 41

Londra, Tate Gallery
John Everett Millais
OPHELIA (1851/1852)
Olio su tela, altezza cm. 76 – larghezza cm. 119

L’arte romantica si prefigura in Inghilterra sul finire del XVIII e l’inizio del XIX secolo con l’opera di artisti quali Füssli (1741-1825), Blake (1757-1827), Constable (1776-1837) e Turner (1775-1851). Ma a metà Ottocento, con la morte dei principali artefici, sembra che la grande esperienza avanguardista britannica sia destinata a spegnersi prematuramente. Questa, intessuta sulla contrapposizione dialettica fra il positivismo tardo illuminista del Pittoresco preromantico e l’idealismo tedesco fresco di zecca del Sublime, si appresta ad essere scalzata e relegata nel dimenticatoio da un’arte commerciale, a bassissimo contenuto speculativo, atta a soddisfare la gretta morale utilitaristica della classe dirigente inglese. Chi pensa a ritirare su le sorti di una cultura in calo vertiginoso sono i preraffaelliti.
La Confraternita dei preraffaelliti si forma nel 1848, per opera di tre giovani pittori: Holman Hunt (1827-1910), John Everett Millais (1829-1896), Dante Gabriele Rossetti (1828-1882). Quest’ultimo, lo si capisce dal nome, è un italiano trapiantato a Londra a causa delle persecuzioni politiche (suo padre era un mazziniano). È a lui che la Confraternita deve poetica e orientamento. Sostenitore e consigliere del gruppo è John Ruskin (1819-1900), ritenuto il più grande critico dell’Ottocento europeo.
Punto fondamentale della poetica preraffaellita è l’idea ricorrente dell’incompatibilità dell’arte con la società moderna, tecnologica e industriale. Perché l’arte possa sopravvivere nell’epoca moderna non ci sono che due alternative: o cambia l’arte o cambia la società. I preraffaelliti vogliono cambiare la società: questa è secondo Ruskin la missione degli artisti. Il loro programma prevede un recupero del lavoro artigianale come valore etico, esempio di comportamento professionale serio, mosso da un autentico bisogno di rapportarsi con le cose, nella convinzione che solo in questo modo si può intendere lo spirito che anima le cose stesse. Per questo ci si pone come modelli i “primitivi” italiani, intendendo per primitivi, come dice il termine stesso che li contraddistingue, gli artisti precedenti a Raffaello (1483-1520). Perché proprio loro? Perché secondo Ruskin gli artisti delle generazioni precedenti a quella di Raffaello e Michelangelo (1475-1564), diversamente da questi, non intendevano l’arte come un processo intellettuale, ma squisitamente pratico, diretto, umile, fondato sulla quotidiana esperienza del fare creativo. Naturalmente la realtà non stava così. Fra i primitivi figurano pittori del calibro di Mantenga (1430 c. – 1506), Gozzoli (1420 c. – 1497) e Botticelli (1445-1510), che sono tutt’altro che primitivi.
Da ciò potrebbe sembrare che l’orientamento preraffaellita sia simbolista, e invece è naturalistico. Questo perché per loro l’arte è nella natura e per coglierla non ci si deve appellare al sentimento ma alla pura tecnica: intendendo per pura tecnica una tecnica che non pone problemi al di là di quelli dell’esecuzione. Se si rappresenta la natura in modo straordinariamente verosimile lo si fa non già per una questione gnoseologica, bensì per non intorbidire con la conoscenza l’adesione diretta e spontanea alla realtà.
Le caratteristiche che distinguono il fenomeno preraffaellita, come tutte le poetiche dei periodi di trapasso, sono da ricercare nella manifestazione figurativa oscillante fra due estremi opposti: il realismo e il metafisico. Ma non c’è tanto sublimazione quanto evoluzione, non c’è salto dal contingente al trascendente, ma movimento da uno stadio all’altro. In questo dinamismo stilistico consiste la spiritualità preraffaellita: è il moto evolutivo, il ritmo attraverso cui le forme naturali evolvono nelle forme artificiali dell’arte.
Il limite del Preraffaellismo è quello per cui l’arte consiste nel trarre la spiritualità delle cose rifacendole: dunque l’arte è nel processo non nel risultato. Ora quel che si può obiettare ad un assunto del genere è che: se invece di rifarle le cose, le si inventano di sana pianta non si otterrebbe lo stesso risultato? Se l’arte è il processo attraverso cui si estrae lo spirituale dal materiale per quale motivo non si può ritenere artistico un processo che invece di imitare l’esistente lo ricrea?

IL ROMANTICISMO ITALIANO

Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna
PADIGLIONE DEDICATO AL ROMANTICISMO ITALIANO

Dopo Canova (1757-1822) e per tutto l’Ottocento l’Italia, che per più di tre secoli aveva ricoperto il ruolo di guida di tutta l’arte europea, retrocede a fanalino di coda dell’intera cultura estetica internazionale, alla pari dei Paesi dell’est europeo, afflitti da un ritardo storico cronico.
Nei confronti del Romanticismo la penisola prima si sente estranea, poi cerca di porlo come polo per un confronto dialettico fra libertà e necessità storica. Solo nel Novecento, a partire dal Futurismo, la cultura visiva italiana si riaggancia ai livelli dell’avanguardia europea, colmando così la lacuna provocata dalla mancata esperienza romantica.
Il motivo di tale ritardo non risiede nell’isolamento dell’Italia: i contatti con la Francia non mancano; molti artisti vanno a lavorare a Parigi, anche se tutto ciò non serve a migliorare la situazione. Né lo si può imputare alla persistenza della tradizione classica: il Neoclassicismo non è meno importante in Francia (forse più) che in Italia; nessuno studia Michelangelo più approfonditamente di Delacroix (1798-1863).
La causa che provoca la manchevole partecipazione del Belpaese al rinnovamento romantico è ben più profonda e va ricercata nella particolare situazione politica dell’Italia del XIX secolo, contraddistinta dallo scarso potere della borghesia imprenditoriale peninsulare.
Nodo fondamentale di tutto il pensiero romantico è lo stretto legame fra libertà espressiva e coscienza, quindi non ci può essere umanismo laddove non ci si può esprimere liberamente. In Italia questo principio è sentito più che mai dal momento che molti artisti sono perseguitati politici a causa della loro autonomia. Ma nella penisola l’oppressione non è esercitata dalla grande borghesia connazionale, come in Francia, bensì dall’aristocrazia di un’altra nazione. La parola libertà dunque nel Paese del Sole fa rima con indipendenza nazionale: non ci si può porre il problema della libertà romantica, cioè da un punto di vista borghese interclassista, laddove tutta la borghesia italiana è sottomessa ancora alla dominazione austriaca e a quella delle monarchie di casa propria. Di conseguenza appare ovvio come l’obiettivo prioritario degli artisti italiani sia piuttosto quello rivendicativo di un’identità moderna nazionale piuttosto che quello di un’identità moderna sociale.
Tuttavia ciò che urta i borghesi italiani non è tanto il fatto che a governare siano forze straniere quanto piuttosto il fatto che queste forze sono d’ostacolo allo sviluppo socioeconomico dell’intero Paese. L’Italia ottocentesca non è una nazione, è un territorio frammentato in una pluralità di stati: il Nord è un pezzo d’impero austriaco; al Sud ci stanno ancora i Borboni; al Centro c’è lo stato della Chiesa.
In campo artistico la particolare situazione italiana si esprime attraverso l’atteggiamento polemico delle correnti innovative nei riguardi dell’accademismo dominante, che invece piace molto, come sempre, a governanti e governati: atteggiamento a dire il vero comune nel resto d’Europa. Ma a differenza di quanto va accadendo nelle altre nazioni, nella penisola ci si concentra sulla fase demolitrice delle strutture fatiscenti, senza pensare a come sostituirle. In questo modo si spiega uno dei fenomeni più tipici della situazione italiana: la formazione di correnti o scuole regionali o municipali il cui obiettivo è quello di porsi, da sole o in coppia con altre, come espressione della cultura artistica nazionale moderna.

PERIODIZZAZIONE

Veniamo alla periodizzazione. L’Ottocento italiano si può suddividere in due fasi storiche essenziali: prima e dopo l’unità. La prima fase è caratterizzata dalla contesa fra i singoli linguaggi regionali per la rivendicazione del titolo di legittimo pretendente al ruolo di linguaggio nazionale; la seconda è caratterizzata dalla ricerca di un linguaggio rappresentativo di un’identità linguistica nazionale che superi le differenze regionali.

I PRIMI TENTATIVI DI EMANCIPAZIONE

Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna a
Francesco Hayez
I VESPRI SICILIANI (1846)
Olio su tela, altezza mt. 2,25 – larghezza mt. 3

I primi tentativi di emancipazione dell’arte in Italia avvengono nel Lombardo Veneto. Alla metà dell’Ottocento, a Roma, sulla scia dei nazareni tedeschi si forma il movimento purista. Il suo obiettivo è trovare un accordo fra accademismo neoclassico e misticismo romantico. E la cosa poteva essere anche interessante se non fosse stato per il fatto che il secondo si traduce troppo spesso in una sorta di convenzionalismo religioso. Ma la capitale ormai non fa più testo; il nuovo centro propulsore è Milano, dove il liberalismo è sentito molto più che altrove.
A Milano opera e insegna, anche se è veneziano, Francesco Hayez (1791-1882) capo della scuola romantica italiana. Dal punto di vista poetico l’Hayez si propone di combinare il soggetto medievale tipico del romanzo storico con un disegno degno di un perfezionista come Ingres (1780–1867), ma a cui da calore un po’ di tono veneziano. Dal punto di vista critico la sua poetica si risolve in una commistione fra quello che si ritiene essere l’elemento stilistico tipicamente veneziano, il colore, e l’elemento stilistico tipicamente romano, il disegno: è questo per lui l’italiano figurativo moderno. Così facendo l’Hayez sfugge l’incontro incondizionato con la realtà per mettersi al riparo di una pittura tutta cultura, diretta a pochi iniziati. A testimonianza della sua poetica artificiosa può essere chiamato in causa uno dei lavori più celebri autografi: I vespri siciliani. Qui, in questa tela cospicua, Francesco rappresenta un celebre episodio storico. Lo ricordo brevemente.
Da Cronaca siciliana, un libello del XIII secolo, si viene a conoscenza che il martedì di Pasqua dell’aprile 1282 si tenne a Palermo un gran consiglio di tutti i più importanti baroni dell’isola; ordine del giorno: preparare la rivolta contro gli oppressori francesi. Come di consueto in quei giorni si faceva festa fuori le mura cittadine, in un luogo chiamato Santo Spirito. Ora successe che, durante i festeggiamenti, un francese, con fare tracotante, come era uso fra i dominatori, dopo aver preso con prepotenza una donna, vedendosi da questa respinto reagì trattandola in modo oltraggioso. Assistendo alla scena i palermitani intervennero in difesa della sventurata, ma per i baroni l’incidente fu l’occasione per sobillare una sollevazione popolare contro gli occupanti stranieri. E così avvenne che transalpini e siciliani misero mano alle armi. Al grido di «Morte ai francesi!» i padroni di casa entrarono in città e ammazzarono tutti i transalpini. Tremila ne caddero. La storia precisa che il giorno dell’incidente fu in realtà il 31 marzo, al tramonto, al rintocco dell’ora del vespro. Di qui il termine con cui l’avvenimento viene ricordato: I vespri siciliani. L’episodio è diventato degno di memoria per via del fatto che in seguito all’insurrezioni palermitana si sollevò l’intera Sicilia, e per i francesi la vita sull’isola divenne un incubo, tanto che furono costretti ad andarsene.
L’analogia con la situazione italiana durante il periodo risorgimentale è fin troppo evidente. Il vero contenuto del quadro è il sollevamento del popolo lombardo-veneto contro gli austriaci, tuttavia non viene esposto apertamente poiché Hayez ha troppo da perdere; non intende esporsi più di tanto, non vuole mettere a rischio la sua carriera, se non addirittura la sua vita: lui è un insegnante e uno stimato professionista. D’altro canto non vuole rinunciare ad esporre la propria opinione sulla situazione politica italiana; sa perfettamente che l’arte è un mezzo potentissimo d’informazione e fomento. Non se la sente però di sfidare le autorità e così si accontenta di veicolare il suo messaggio di ribellione mediandolo con un riferimento storico, colto e raffinato, per quei pochi che riescono ad intenderlo. Ecco dunque che nella sua rappresentazione non c’è gran che del fatto reale; al posto del popolo ribelle c’è un giovin cavaliere che armato di spada affronta e uccide l’altezzoso ingiuriatore; intanto la casta pulzella offesa sviene al cospetto di tanta violenza. Ma da dove l’ha tirata fuori il professor Hayez questa scena? Non certo dalla rivisitazione immaginifica della storia, ma dall’opera lirica: i quadri di storia hanno illustri precedenti, ma a Francesco la cosa non sembra sfiorarlo. Dipingendolo non rivive l’evento come fa Delacroix, allestisce una scena come farebbe un regista di teatro e poi la riproduce con i colori. Certe volte a guardare questo quadro mi par di sentir cantare. Comunque l’effetto è che tutto sembra incredibilmente finto.

LA SCAPIGLIATURA LOMBARDA

Milano, Collezione Rossello
Tranquillo Cremona
LA MELODIA (1874)
Olio su tela, altezza mt. 1,11 – larghezza mt. 1,29

Milano, Collezione Rossello
Daniele Ranzoni
LA PRINCIPESSA DI SAINT LÉGER (1886)
Olio su tela, altezza cm. 0,96 – larghezza cm 0,64

La Scapigliatura lombarda è il primo movimento italiano a porsi all’interno di un discorso di rinnovamento nel senso di un più autentico spirito romantico. La corrente è preceduta sulla strada dell’aggiornamento dal Piccio, al secolo Giuseppe Carnevali (1840-1873). I suoi paesaggi testimoniano la conoscenza della poetica illuministica preromantica del Pittoresco. Le prime opere sono strutturate a macchie, poi quelle degli anni successivi vanno in direzione di un recupero delle radici storiche piuttosto che in direzione di una maggiore libertà dai condizionamenti culturali. Nel Romanticismo di casa il pittore varesotto vede una possibile ripresa del Barocco, nonché una possibile riconsiderazione della tradizione lombarda come espressione tipicamente italiana, valutazione spesso sottostimata a causa dello strapotere della tradizione romana e fiorentina.
Tranquillo Cremona (1837-1878) e Daniele Ranzoni (1843-1889) sono due “scapigliati”. Entrambi conoscono il romanticismo francese; entrambi dissolvono la forma, la struttura plastica per fonderla con lo spazio ambiente. Per loro il sentimento non è un nuovo modo per affrontare la realtà visiva, è un modo per ravvivare e aggiornare il linguaggio chiaroscurato delle accademie.
Antonio Fontanesi (1818-1882) non è uno scapigliato, ma è da considerarsi il paesaggista più importante dell’Ottocento italiano. Scopre la veduta romantica grazie allo svizzero Calame (1810-1902); dopo il 1855 ha contatti frequenti con la Scuola di Barbizon e Camille Corot (1796-1875); nel 1865 scopre Turner. La sua pittura riflette tutta la tensione per una tribolata scelta fra Realismo e Romanticismo. Antonio sente il bisogno di stare a quel che si vede ma non può ammettere che il soggetto non sia suggestivo. Federico Faruffini (1831-1869) ha lo stesso problema e come Fontanesi cerca un soggetto nobile con cui riscattare e superare il realismo antiromantico. Però col passare del tempo invece di andare avanti finisce per invertire la direzione di marcia e fare ritorno alla storia dell’arte. Giuseppe Grandi (1843-1894) è uno scultore che si perde dietro una sterile polemica antimonumentalista. Ricusa il significato tronfio del monumento guglielmino, ma poi si perde nel fare monumenti antimonumentali.
Il limite del fumoso sentimentalismo degli “scapigliati” sta nell’essere l’espressione di una classe che si riconosce nella libera manifestazione del sentimento ma i cui interessi non hanno nulla a che fare col sentimento; è la sovrastruttura culturale di una classe che con la cultura romantica non ha niente a che fare.

L’OTTOCENTO NAPOLETANO

Napoli, Museo di San Martino
Giacinto Gigante
COSTIERA SORRENTINA (1842)
Olio su tela, altezza cm. 39 – larghezza cm. 55

Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna
Filippo Palizzi
VIOTTOLO CON PRETE (datazione ignota)
Olio su tela, altezza cm. 33 – larghezza cm. 35

Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna
Domenico Morelli
IL TASSO LEGGE IL SUO POEMA A ELEONORA D’ESTE (1863)
Olio su tela, altezza mt. 1,85 – larghezza mt. 2,66

Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna
Gioachino Toma
LUISA SANFELICE IN CARCERE (1877)
Olio su tela, altezza cm. 61 – larghezza cm. 78

Napoli all’inizio dell’Ottocento è esattamente quella che era un secolo prima, una grande città europea, centro internazionale di una florida cultura artistica. Più che mai attiva è la sua scuola di vedutisti. Tra gli avventori più dotati c’è Antonio Pitloo (1791-1837), olandese, Gabriele Smargiassi (1798-1882) e Giacinto Gigante (1806-1876). Più in particolare con i secondi due inizia e si sviluppa il processo di trasformazione della veduta esatta in veduta poetica.
Cosa significhi veduta poetica a Napoli ce lo spiega bene Giacinto Gigante. Per lui il Romanticismo è un modo per liberare la sensibilità dell’artista dalla rigidità della costruzione prospettica, un modo per affrancare il colore dalla forma. Benché i suoi soggetti siano vedute panoramiche il criterio di scelta non è la loro potenzialità scenografica ma il loro potere di sollecitazione dell’estro dell’artista; la realtà non è luce da tradurre in pittura, ma la reazione luminosa delle cose da interpretare sulla base di un sistema di macchie. Ciò che trattiene i napoletani, come il resto degli italiani più in generale, all’interno dei confini classici è l’idea della preesistenza di una realtà data all’atto del dipingere.
Filippo Palizzi (1818-1899) sembra aver compiuto un deciso passo avanti rispetto al Gigante, in realtà il suo realismo ha lo stesso difetto del pittoresco di Giacinto: la scelta di un soggetto poetico.
Domenico Morelli (1826-1901) si oppone al taglio realistico della pittura napoletana dell’epoca proponendo di contro una pittura d’immaginazione. Ma allo stato dei fatti il suo progetto non si discosta più di tanto dalla poetica oggettivista se non nella differenziazione del tema, e la resa tecnica risulta solo più impressionante che impressionistica. Rimane tuttavia importante rilevare come il Morelli, al di là del suo obiettivo immediato, cioè l’opposizione ad una pittura di veduta, abbia quello di contrapporre al romanticismo del nord, gelido e intellettuale, quello del sud, più caldo e intuitivo. Scopo? La contesa regionalistica fra Campania e Lombardia sul primato culturale in Italia.
Anche Gioacchino Toma (1836-1891), napoletano di formazione, pugliese di nascita, è realista, ma per scelta morale più che stilistica. Egli rappresenta l’anti-Morelli, cioè una doverosa aderenza alla realtà, fatta di storia ed esistenza umana, contro il verosimilismo immaginifico del collega.

TOSCANA: PATRIA DEI MACCHIAIOLI

Firenze, via Cavour
EX CAFFÈ MICHELANGELO

Milano, Collezione Samorè-Gerli
Adriano Cecioni
CAFFÈ MICHELANGELO (1861, ma secondo la maggioranza dei critici più tardi)
Acquerello su carta, altezza cm. 53,5 – larghezza cm. 82

A Firenze non c’è due senza tre. Dopo la rivoluzione giottesca e rinascimentale la città gigliata tiene a battesimo, fra il 1850 il 1860, il movimento dei macchiaioli.
Il movimento dei macchiaioli è senz’altro il più importante movimento artistico italiano dell’Ottocento. La sua azione benché poco determinante per l’evoluzione dell’arte in Europa, lo è invece per l’evoluzione del linguaggio artistico in Italia. Il termine macchiaioli col quale gli aderenti a questo movimento sono universalmente noti è un termine spregiativo al pari del termine impressionisti. È un epiteto usato dai critici dell’epoca per indicare gli artisti dediti alla pittura di macchia, una pittura ritenuta inferiore rispetto a quella costruita alla luce delle buone regole accademiche.
Per conoscere la storia dei macchiaioli occorre partire da un caffè, il caffè Michelangelo, in via Larga. Qui, intorno dal 1848, si ritrova la più feconda intellettualità dell’epoca. È qui, in una saletta appositamente riservata agli artisti, che s’incontra, con più di dieci anni d’anticipo sul cafè Guerbois e Nouvelle Athènes, il meglio della cultura antiaccademica fiorentina; è qui che grazie alle novità portate da Parigi e da altre località all’avanguardia da critici, pittori e scultori che l’arte italiana esce dal suo provincialismo ed entra nell’ambito di un discorso più ampio e robusto, purtroppo però sempre limitato alle problematiche nazionali. Le riunioni sono spesso movimentate; le figure di maggior spicco sono il critico Diego Martelli (1839-1896), che reca notizie dal fronte avanguardistico parigino, e il pittore napoletano Domenico Morelli, il quale, benché legato ancora a temi romantici, parla di pittura di tocco e d’impressione. Un contributo importante alla nascita del movimento lo si deve, anche se così non sembra, al conte Demidoff (1839-1885), il quale decide di aprire al pubblico la sua collezione privata. Ciò permette a molti artisti di osservare di persona opere di colleghi del calibro di Delacroix, Corot e dei paesaggisti di Barbizon. Quindi, da ultimo, non va assolutamente dimenticato un altro avvenimento della massima rilevanza che non tarderà a far sentire la sua influenza, anche se molto indiretta, e cioè la presenza nel capoluogo toscano, nel 1856 di Degas (1834-1917).
I macchiaioli si oppongono al romanticismo moderato e purista dei pittori accademici come il Bezzuoli (1784-1855), il Ciseri (1821-1891) e l’Ussi (1822-1901) sostenendo come il napoletano Palizzi la necessità di rifarsi allo studio diretto dal vero. Si differenziano anche dai lombardi come il Cremona e il Ranzoni poiché la loro macchia condensa e chiarisce le cose non le espande e indefinisce, contribuendo così ad eliminare ogni concitazione emotiva e amplificazione oratoria. I macchiaioli vogliono un rinnovamento artistico legato ad un rinnovamento culturale più generale; il loro desiderio si accompagna a quello degli intellettuali politicamente impegnati che sognano un Paese unito. Riguardo al problema principe della situazione culturale italiana, la necessità di una lingua ufficiale unica, il toscano, anche in arte rivendica il diritto di diventare la lingua ufficiale dell’Italia unita. La sua contesa è con la Scapigliatura lombarda; la sua rivendicazione non è solo in nome della tradizione, ma anche in nome di un linguaggio più nazionalpopolare.

LA TEORIA MACCHIAIOLA

I macchiaioli hanno un fondamento teorico e una direzione programmatica. Mirano al realismo, ma il loro realismo non dipende da un’impressione, bensì da una riduzione del dato reale ad un sistema di macchie. La pittura di macchia non è assolutamente una novità. Si può dire che dal Settecento in poi tutta la pittura più aggiornata è impostata sulla macchia (si pensi al pittoresco). La novità dei macchiaioli sta nel farne una teoria. Secondo loro il vero si vede come un contesto di macchie (e fin qui niente di nuovo). Queste macchie hanno un doppio valore: stanno ad indicare la tinta e il tono (ecco la novità). La luce non cambia il colore, ma solo il tono. Ad esempio le ombre di un covone di paglia non sono grigio-viola, ma ocra scura, cioè una tonalità più bassa del giallo. Il quadro risulta dunque da un sistema di macchie giustapposte; fra le varie macchie si stabilisce un rapporto; la regolazione di questo rapporto determina il valore estetico, l’arte. Ora non può esservi un chiaro e uno scuro se non si da per scontata la presenza di corpi solidi; e non si può parlare di corpi solidi se non si ammette la presenza di uno spazio che li contiene.
Con i macchiaioli cambia anche il modo di concepire il disegno. Nella comune accezione il disegno è il modo di fissare la nozione dell’oggetto, fase propedeutica alla coloritura. Per i macchiaioli il disegno è invece la fase conclusiva della pittura, linea di confine fra macchie di diverso tono.

DIRFFERENZA FRA MACCHIAIOLI E IMPRESSIONISTI

Spesso i macchiaioli vengono paragonati agli impressionisti. Niente di più sbagliato. L’approccio dei macchiaioli verso il vero non è come negli impressionisti completamente impregiudicato. Gli impressionisti impostano il loro operare su un nuovo sistema visivo; i macchiaioli semplificano un sistema visivo tradizionale. Semmai la poetica dei macchiaioli è una poetica decisamente realista in accordo con il realismo di Courbet (1818-1877) e dei paesaggisti della scuola di Barbizon, ma con marcato richiamo alla tradizione e un’inclinazione all’aneddoto.
A guardar bene, la struttura visiva dei macchiaioli è ancora la stessa di quella di Piero della Francesca (1410 c. 1492), prospettica, solo applicata ad un ambito molto più semplice, che non implica la visione dell’intero Creato inteso come totalità di cose e azioni. Con ciò i macchiaioli si qualificano quali riformatori del linguaggio toscano storico, non come innovatori.
Quello dei macchiaioli non è un movimento isolato, cercano infatti di impostare un’azione concorde con i gruppi artistici napoletani. Nel gruppo parecchi sono toscani, il resto è formato da artisti di varia provenienza, molti dei quali rifugiati politici.
Sono toscani Giovanni Fattori (1825-1908), Telemaco Signorini (1835-1901), Odoardo Borrani (1834-1905) e Raffaello Sernesi (1838-1866); Silvestro Lega (1826-1895) è della provincia di Forlì; Giuseppe Abbati (1836-1868) di Napoli, Nino Costa (1826-1903) di Roma, Vincenzo Cabianca (1827-1902) di Verona e Vito d’Ancona (1825-1884), ironia della sorte, marchigiano di Pesaro.
L’artista più rappresentativo del gruppo è Giovanni Fattori.

Valdagno, Collezione Marzotto
Giovanni Fattori
IN VEDETTA (1868/1870)
Olio su tavola, altezza cm. 37 – larghezza cm. 56

Giovanni Fattori è livornese. È il meno intellettuale del gruppo, e per questo il più spontaneo, il più libero da mode e teorie. Essere il meno intellettuale non vuol dire essere il più ignorante, vuol dire che lui la cultura se la fa sul campo. Fattori vuole dimostrare l’adattabilità del linguaggio storico toscano alla situazione attuale, dunque le sue referenze per candidarsi ad essere lingua nazionale moderna. Per capire quali argomenti usa analizziamo uno dei suoi quadri, quello intitolato In vedetta.
I soldati sono immobili, lo spazio è un vuoto inanimato, il tempo è come bloccato. Fattori riesce a cogliere l’istante in cui un episodio di insignificante quotidianità coincide con l’universalità dello spazio geometrico. Come in Piero della Francesca la profondità si ribalta sulla superficie a formare una tarsia pittorica, ma lo spazio non è lo spazio astratto di Piero, i piani sono cose, e la luce non è la sua luce gnostica, bensì è la luce di una particolare ora della giornata, le tredici, le quattordici.
Dov’è l’arte? Nel corrispondersi ed equilibrarsi dei colori-luce e dei colori-ombra.
Lo spazio è un vuoto definito dai due piani fondamentali, l’orizzontale e il frontale; fra questi si frappone il terzo piano fondamentale, il laterale. I piani non sono elementi astratti; sono definiti dalle variazioni tonali dei due colori dominanti: il bianco e il blu. Come in ogni scala tonale gli estremi sono costituiti dal bianco puro che equivale alla massima intensità della luce e dal nero che equivale alla totale assenza di luce, ovvero al buio assoluto. La massima intensità della luce in questo quadro prende la forma dei cavalli bianchi, dei berretti (i chepì) e delle bandoliere; la totale assenza di luce invece ha la forma del cavallo nero e dell’ombra del cavaliere in primo piano. Fra questi estremi si dispiegano le tonalità intermedie del bianco, come il bianco calcinato del muretto in prospettiva e quello terroso del piano di posa, e del blu delle divise dei soldati e il grigio azzurro del cielo.
Terminata l’analisi sorge spontanea una domanda: come mai i macchiaioli non hanno raggiunto l’obiettivo che s’erano proposti e cioè di far assurgere il loro linguaggio di macchia a lingua nazionale e di valorizzarlo nel contesto storico moderno?
Due sono i motivi: primo perché l’Italia unita non ha saputo sviluppare le spinte popolari; secondo perché i macchiaioli cedono spesso all’aneddotica e al compiacimento linguistico. Lo stesso Fattori d’altronde non è sempre riuscito a raggiungere l’identità assoluta fra episodicità percettiva e universalità intelligibile.

Venezia, Museo d’Arte Moderna
Telemaco Signorini
LA SALA DELLE AGITATE A SAN BONIFACIO (1865)
Olio su tela, altezza cm. 65 – larghezza cm. 59

Telemaco Signorini non è uno strutturalista ma un virtuoso della macchia. È insieme a Adriano Cecioni (1836-1886) il teorico del gruppo; un intellettuale dunque, molto diverso dal suo collega Fattori. Nel quadro intitolato La sala delle agitate a san bonifacio dipinge il camerone di un manicomio con delle squilibrate. Come Fattori fa coincidere lo spazio prospettico con la luce bianca; questa inonda il vuoto incuneandosi dal basso, da destra. Su questo schermo luminoso si stagliano scuro su chiaro le sagome delle ricoverate. La costruzione è rigorosa, l’elemento strutturale è la linea. Attraverso essa Telemaco descrive ambiente e figure, di cui si sofferma a precisare il carattere e il gesto di ognuna.
Per lui quindi lo “spirito toscano” consiste in un ingegno prensile, in una capacità analitica acuta e in una perspicuità critica sottile. Cosicché, nel complesso della cultura figurativa dell’epoca, la sua opera si traduce in un brillante ma del tutto interlocutorio brano di pittura toscana d’alta classe.

Milano, Collezione Enrico Piceni
Silvestro Lega
SOTTO IL PERGOLATO (1866 c.)
Olio su tela, altezza cm. 74 – larghezza cm. 94

Silvestro Lega è il macchiaiolo che si accosta di più all’Impressionismo. Il Pergolato è il suo quadro più noto. Viene dipinto fra il 1864 e il 1868 e coglie alcune donne sedute all’ombra di un pergolato. Il lavoro, è evidente, tiene conto delle esperienze che si vanno compiendo in Francia ad opera del gruppo di Batignolles: il soggetto è privo di qualsiasi motivo eroico o celebrativo, la tecnica condotta en plein-air. Tuttavia fra il macchiaiolo e gli impressionisti ci sono delle notevoli differenze. Innanzi tutto manca nell’opera del Lega la freschezza e la spontaneità dei lavori impressionisti; il suo è più costruito, più studiato, più curato; secondo poi l’immagine risulta dalla messa in campo di due sistemi diversi, la macchia e la prospettiva. L’obiettivo qui più che una nuova pittura sembra essere l’aggiornamento tematico del linguaggio vedutista settecentesco. Le sensazioni non costruiscono lo spazio, si distribuiscono ordinatamente su una struttura predisposta; i toni non strutturano il vuoto, lo riempiono, non si muovono liberamente ma percorrono delle vie tracciate a priori, invisibili e immutabili. Essendoci uno spazio universale e stabile ecco dunque che fra struttura prospettica e macchia si ripropone il rapporto fra assoluto e relativo, forma e colore, rapporto superato dalle esperienze francesi. Contrariamente a quel che vanno sostenendo gli impressionisti nel Lega non c’è affronto diretto e impregiudicato della realtà: ci si pone di fronte al vero armati di solide basi classiche. La sensazione rimane subordinata alle esigenze della visione prospettica e pertanto viene declassata da elemento strutturale ad elemento sovrastrutturale.

LA SITUAZIONE IN ITALIA DOPO L’ESPERIENZA MACCHIAIOLA

Il limite della teoria macchiaiola sta tutto nella sua debolezza pragmatica. Neanche il Lega, che è pur uno dei massimi rappresentanti del gruppo, riesce ad uscire dall’aneddoto e dalla buona pittura.
Le cose peggiorano notevolmente quando viene a mancare il sogno della toscanità quale linguaggio della nuova Italia unita. A vecchi e nuovi macchiaioli non rimane altro che scegliere fra due soluzioni: rimanere nella penisola col pericolo di scadere nel folclore o emigrare all’estero e respirare aria nuova. Seguono la prima soluzione artisti come il Gioli (1846-1922), il Cannicci (1846-1906), il Ferroni (1835-1912) e il Tommasi (1866-1941); scelgono la seconda Giuseppe de Nittis (1846-1884) , Federico Zandomeneghi (1841-1917), e Giovanni Boldini (1842-1931), che, tranne l’ultimo, proprio macchiaioli non sono, ma che tuttavia hanno avuto stretti rapporti col gruppo toscano.
De Nittis si trasferisce a Parigi nel 1867. A lui tocca l’onore di partecipare alla storica mostra del 1874 nella casa-studio di Nadar (1820-1910); ma la sua esperienza parigina non lo muove di pezzo verso la conquista di orizzonti più vasti. Proprio nel 1874 arriva a Parigi lo Zandomeneghi. Lo colpisce soprattutto Degas, ma non avverte la novità strutturale della sua pittura. Giovanni Boldini tenta prima la fortuna a Londra, poi punta su Parigi. Qui diventa uno degli artisti alla moda più acclamati. Il suo virtuosismo sorprende e fa tornare in mente ai francesi nazionalisti e moderatamente modernisti lo stile sciolto di un Watteau (1684-1721) o di un Fragonard (1732-1806). Nonostante il successo mondano, dal punto di vista critico il Boldini non sa far altro che interpretare l’Impressionismo come mera tecnica al servizio del proprio estro personale.