L’ULTIMA ESPRESSIONE ARTISTICA DEL MONDO PREINDUSTRIALE
DISTINZIONE FRA ARTE E SCIENZA
SIGNIFICATO DEL TERMINE E PERIODIZZAZIONE
IL ROCOCÒ IN EUROPA: LA FRANCIA
IL ROCOCÒ IN INGHILTERRA
IL ROCOCÒ IN ITALIA: ARCHITETTURA SABAUDA
IL BAROCCO PIEMONTESE
IL ROCOCÒ A MILANO
IL RITORNO DELL’AVANGUARDIA A VENEZIA
IL VEDUTISMO: L’ARTE COME RICERCA STRUTTURALE DELL’IMMAGINE OTTICA
IL ROCOCÒ A BOLOGNA
ROMA ROCOCÒ
NAPOLI ROCOCÒ


L’ULTIMA ESPRESSIONE ARTISTICA DEL MONDO PREINDUSTRIALE

Parigi, Versailles
VEDUTA DELLA REGGIA CON I GIARDINI (XVII/XVIII sec.)

Il Rococò è l’ultima espressione dell’arte del vecchio mondo, agricolo e pastorale. A decretarne la fine è il Neoclassicismo, la poetica con la quale si apre il ciclo storico dell’arte del nuovo mondo, tecnologico e industriale, il ciclo dell’arte romantica o moderna.
Di solito quando ci si imbatte in opere rococò si pensa subito ad un periodo fatto di nèi finti, parrucche incipriate, trine e merletti; un periodo frivolo, evanescente. In realtà l’epoca che vede il fiorire dell’arte rococò non è tutta trine e merletti; in mezzo agli uomini incipriati e boccoluti dell’epoca si nascondono anche gli illuministi. Infatti il periodo del rococò è anche il periodo della speculazione illuminista, un movimento di idee destinato a rivoluzionare le menti della stragrande maggioranza della gente, sia in Europa che negli altri Paesi emergenti.
Per molto tempo la critica del passato, influenzata dalle idee neoclassiche, ha visto nel linguaggio rococò la naturale prosecuzione del linguaggio barocco, tanto da interpretarlo come un Barocco privo della sua anima religiosa. Questa visione è esatta: la vicinanza fra linguaggio barocco e rococò è così stretta che in Italia il Rococò prende il nome di barocchetto. Tuttavia la realtà è molto più complessa, e sotto questa denominazione generica figurano opere completamente diverse tra loro. Non bisogna dimenticare che per tutta la prima metà del XVIII secolo continuano a prosperare correnti classiciste e realiste e poi che la speculazione illuminista lascia il segno un po’ ovunque, e anche il Rococò porta impresse in qualche misura le impronte della spietata critica dell’epoca dei lumi. Questa si scaglia in modo particolare contro la retorica, il decorativismo, nonché il dimensionalismo monumentale barocchi.
L’afflato illuminista inizia a farsi sentire in alcune opere il cui scopo è quello di correggere i supposti difetti della corrente barocca. Questi supposti difetti del Barocco sono la fantasiosità dei temi, l’aspetto edulcorato delle immagini, la sovrabbondanza di decorazione, la confusione fra i vari tipi di immagine, l’impurità dell’impianto tonale. Non viene indicato come difetto il ricorso all’immaginazione, ma il fine per cui si ricorre a tale facoltà, e cioè per ingannare lo spettatore e indurlo a reazioni irriflessive, facendogli credere vero quello che invece è soltanto frutto di un’abile messa in scena. Si critica così anche lo strumento principe a disposizione dell’artista per realizzare immagini di forte impatto emotivo, ovvero la prospettiva, adoperata per ingannare a bella posta l’osservatore e non per permettergli di vedere con ordine e chiarezza.
Il criticismo illuminista non si oppone al linguaggio prospettico tonale barocco in nome di un altro linguaggio, espressivo di una visione diversa, ma si limita di fatto a criticarlo perché confuso dal chiaroscuro nel tono e utilizzato per fini discutibili; il suo scopo è rimettere ordine laddove a suo avviso c’è confusione. Infatti il linguaggio tonale si scinde, trasformandosi in linguaggio di macchie giustapposte, e la prospettiva diventa, da strumento illusionistico, strumento di coordinamento visivo, cosicché nel Settecento la ricerca dell’essenza della natura si trasforma in ricerca strutturale dell’immagine ottica.
Carattere peculiare della figuratività rococò è la compresenza di elementi secenteschi e anti-secenteschi. Questa compresenza può essere individuata nella coattività di quattro tendenze quali la propensione ad eccedere nella decorazione, ad aprire gli spazi interni all’aria e alla luce, a schiarire i colori, a ostentare il virtuosismo tecnico.
Linguaggio tipico dell’arte rococò è il pittoresco. Il pittoresco all’inizio non è propriamente una corrente artistica, ma più che altro una qualità che si riflette nella maggior parte delle opere della prima metà del Settecento, non solo di pittura, ma anche di scultura e architettura. Il termine sta ad indicare solitamente un indirizzo espressivo volto ad affermare valori tipicamente pittorici come la struttura a macchie e la resa coloristica delle superfici. Storicamente però il termine “pittoresco” sta ad indicare tutte quelle immagini spontanee della natura, irregolari, atipiche, fantasiose, capricciose. Con questo significato viene pronunciato per la prima volta nel Seicento da Salvator Rosa (1615-1673) a proposito di alcune sue opere che mostrano strani personaggi ambientati in altrettanto strani paesaggi. Da lui questo vocabolo passa poi per estensione a definire un vero e proprio genere. Ora non c’è dubbio che nel periodo rococò molte opere possono essere definite capricciose, ma sarebbe sbagliato usare questo termine indiscriminatamente per tutta l’arte settecentesca. In realtà va applicato solo a quelle opere che rispondono ai requisiti specifici del suddetto genere. Ciononostante la critica neoclassica ha fatto di tutta l’erba un fascio, categorizzando il pittoresco in un certo tipo di bellezza, e questa cosa è finita per definire con tale termine tutto ciò che è rococò.
Il pittoresco diventerà una vera e propria poetica in Inghilterra con Alexander Cozens (1717-1786), quando da pratica pittorica finalizzata alla creazione di paesaggi bizzarri verrà trasformato in una teoria della pittura di paesaggio, teoria che prevede la libera espressione del sentimento. Per questo particolare il Pittoresco si qualifica come uno dei due pilastri sui quali si fonderà l’arte romantica.

DISTINZIONE FRA ARTE E SCIENZA

Come è stato già detto in apertura il Rococò s’impianta su un substrato sociale ed economico ancora pre-industriale, ma dalle campagne dell’epoca già si alza il fumo delle prime fabbriche. Il lavoro industriale è un lavoro fondato sulle macchine, e le macchine sono il prodotto della tecnologia, e la tecnologia è il risultato dell’interazione fra scienza e tecnica.
Per distinguersi dalla scienza l’arte ha tre possibilità: specializzarsi come tecnica dell’immaginazione, assurgere a metodologia costruttiva dell’apparenza, trasformarsi in scienza del bello. Ad ognuna di queste tendenze corrispondono sul piano storico tre diverse realtà creative. Al Rococò corrisponde la prima, alla seconda il Vedutismo, alla terza il Neoclassicismo.
In opposizione al Rococò, ma al di là, anche al sensismo illuminista, si sviluppa, in Germania e Inghilterra, la poetica preromantica del Sublime, e, in Francia e Italia, in consonanza con la poetica del Sublime, il Neoclassicismo; col Neoclassicismo si apre la storia dell’arte del periodo romantico o moderno. A dispetto delle schematizzazioni storiche, nel Rococò dunque sono le radici prime dell’arte del periodo romantico; in esso è già una delle possibili risposte sulla ragion d’essere dell’arte in rapporto a quella della scienza.

SIGNIFICATO DEL TERMINE E PERIODIZZAZIONE

L’espressione “rococò” deriva da “rocaille”, termine col quale si indica un particolare tipo di decorazione a conchiglie e concrezioni calcaree, destinata ad adornare le finte grotte che movimentano con “episodi falso naturali” i giardini settecenteschi. Il Rococò nasce a Versailles, alla corte del Re Sole (1643-1715), ma ufficialmente esordisce durante il periodo della reggenza del conte Filippo II d’Orléans (1715-1723) e si va diffondendo rapidamente ovunque sotto il regno di Luigi XV (1715-1774). La sua storia viene bruscamente interrotta insieme a quella della monarchia assolutista di Luigi XVI (1774-1792) dalla rivoluzione francese alla fine del XVIII secolo. In termini seccamente cronologici va orientativamente dal 1715 al 1754.
Nel Settecento l’Italia perde il suo primato di centro di elaborazione e irradiazione della cultura artistica occidentale; ora lo deve dividere con Parigi, in misura maggiore, e con le altre capitali europee come Vienna, Londra e le città tedesche, in misura minore.

IL ROCOCÒ IN EUROPA: LA FRANCIA

Berlino, castello di Charlottenburg
Antoine Watteau
IMBARCO PER CITERA (1718)
Olio su tela, altezza mt. 1,29 – larghezza mt. 1,94

Il Rococò è un fenomeno europeo; il centro irradiante è Parigi; i massimi esponenti in pittura sono Watteau (1684-1721), Boucher (1703-1770) e Fragonard (1732-1806).
Antoine Watteau interpreta la pittura rococò come immaginazione lirica. Non si avvale di grandi apparati scenografici per eccitare la fantasia e sentirsi trasalire, ma si serve di formati medio-grandi per proporre candide evasioni in mondi trasognati, intrisi di malinconia. In uno dei quadri più famosi Imbarco per Citera l’operazione antoiniana non è assolutamente diversa da quella dei grandi decoratori, ovvero trasporre il mondo dei nobili e tutto ciò che lo circonda in una dimensione mitica. Solo che qui il paesaggio non è quello arcadico fatto di natura e monumenti, ma è la natura selvaggia, la natura naturata; si tratta sempre di un’evasione nell’immaginazione, ma molto più intima, più poetica, meno enfatica. Ciò esprime in termini visivi il nuovo orientamento spirituale dell’aristocrazia dell’epoca: l’immersione nella natura primordiale e misteriosa. Tuttavia, come si vede in modo particolare nell’architettura, questa immersione avviene facendo in modo da non dimenticarsi di tutti i confort della vita cittadina.

Berlino, castello di Charlottenburg
Antoine Watteau
L’INSEGNA DI GERSAINT (1720/1721)
Olio su tela, altezza mt. 1,62 – larghezza mt. 3,08

Nell’altra tela del castello di Charlottenburg, L’insegna di Gersaint, apparentemente così diversa, Antoine non fa altro che sostituire alla natura naturata un negozio di quadri con il fronte spalancato sulla strada, come il boccascena di un palcoscenico teatrale. L’effetto è quello di un ritorno al mondo reale, quotidiano: il negozio esisteva veramente, si trovava sul Ponte di Notre-Dame. Ma a volte la realtà, certa realtà, è più desiderabile del mito: infatti il quadro si riferisce ad un pezzo di vita vissuta nel periodo della reggenza di Filippo d’Orléans, un periodo contrassegnato dall’intellettualismo un po’ snob e dall’eleganza.
L’importanza storica di Watteau consiste nel fatto che con lui si compie un passo fondamentale verso l’emancipazione dell’arte in senso moderno: la pittura è un mezzo per vedersi proiettati attraverso l’immaginazione in una realtà diversa, poetica, che non è prefigurativa di un evento futuro, ma visualizzatrice di una situazione terrena desiderabile.

Parigi, Museo del Louvre
François Boucher
DIANA ESCE DAL BAGNO (1742)
Olio su tela, altezza cm. 57 – larghezza cm. 73

Washington, Galleria Nazionale d’Arte
Jean Honoré Fragonard
LA LETTERA (1776)
Olio su tela, altezza cm. 81 – larghezza cm. 65

François Boucher è un pittore acclamatissimo. Deve il suo successo, duraturo e solido, all’invenzione di una pittura nella quale riesce a trasformare l’immaginazione lirica di Watteau in immagini piene di grazia e fulgida eleganza.
Jean Honoré Fragonard segue le orme di Boucher, ma più di Boucher si ricollega a Watteau approfondendone la tecnica fatta di pennellate vibranti e soffici, fino a trasformarla in una tecnica fatta di pennellate rapide e disgiunte, riunificabili in sintesi nella retina: un vero e proprio impressionismo anzitempo.
Differentemente dal suo maestro Boucher la vita non gli serba solo gloria e onori. Infatti proprio quando è all’apice del successo la rivoluzione francese gli rovina addosso e gli stronca per sempre la carriera. A nulla vale il ritorno al lavoro sotto Napoleone (1804-1814); il suo mondo a quella data si è definitivamente eclissato e con esso anche l’arte che lo esprimeva.
Fragonard muore nel conforto della famiglia, ma ormai dimenticato da tutti. La sua fortuna professionale se l’era costruita dipingendo scenette di genere, raffiguranti nobili felici e spensierati impegnati in attività ludiche, un genere che chiaramente aveva i suoi cultori nelle classi privilegiate, ma, come queste, anche i giorni contati.

Parigi, Museo del Louvre
Chardin
LA CASSETTA DEL FUMATORE (1737)
Olio su tela, altezza cm. 32 – larghezza cm. 42

Fra i maggiori pittori francesi del periodo rococò non va assolutamente dimenticato Simeon Chardin (1699-1779), un pittore straordinario che per la scelta dei soggetti e per il modo di trattarli precorre alcune fra le più tipiche dimensioni liriche moderne. È forse lui il lontanissimo precursore del realismo magico. Diderot a proposito dei quadri di Chardin parlava di composizioni mute.
Comunque Chardin non è una mostruosa eccezione nel panorama artistico dell’epoca. È un artista che come tanti altri si oppone ad una maniera di fare pittura, frivola e piena di leziosità, preferendo a tale sistema un altro modo, più intimo, domestico, maggiormente aderente alla realtà di tutti i giorni. In tal senso quella di Chardin è una pittura che si ricollega alle istanze di quella di un Vermeer (1632-1675) e degli altri olandesi. I suoi soggetti sono oggetti comuni, usuali, eppure in virtù del modo di comporli, di colorarli e di raffigurarli immobili, assumono un senso lirico che li pone al di là dello spazio e del tempo reali.

IL ROCOCÒ IN INGHILTERRA

Londra, National Gallery
William Hogarth
LA MATTINA (1743/1745)
Dalla serie Matrimonio alla moda
Olio su tela, altezza cm. 70 – larghezza cm. 90

L’Inghilterra del periodo rococò è anti-rococò. La cosa si spiega facilmente col fatto che l’isola è la patria dell’Illuminismo. I principali artefici della pittura illuminista inglese sono Hogarth (1697– 1764), Gainsborough (1727-1788) e Reynolds (1723-1792).
William Hogarth fa e sa di fare teatro, ma lo fa con i pennelli non con gli attori. Soggetto delle sue commedie visive è l’uomo del tempo, inserito nel suo ambiente quotidiano, alle prese con i problemi del vivere corrente.
La rappresentazione di ambienti domestici ha lontane radici nella pittura fiamminga, ma le storie che si svolgono al loro interno sono un pretesto per cogliere la poesia della luce, in Hogarth diversamente la pittura è un mezzo per visualizzare una realtà sociale sottoposta a vaglio critico. Non è realismo, ma un modo di intendere il realismo; non è neanche arte di genere: nell’arte di genere non c’è giudizio morale. È satira? Si, ma artistica.
Wiliam lavora senza modelli, lavora a memoria. Per comprendere il fine ultimo di queste satire dipinte occorre ricordare che nel Settecento le cose sono assai cambiate. Non si tratta più di servirsi dell’arte per visualizzare la salvezza eterna, né si tratta più di ricorrere al suo esercizio per assicurarsi i benefici di un’altra vita. Il problema dell’attività creativa non si risolve più nel mondo trascendentale ma in quello terreno. D’ora in poi la scelta di esercitare la fantasia o impegnarsi nella realtà sarà effettuata in vista di un futuro da realizzarsi in questo mondo fisico e non in un altro, metafisico.

Londra, National Gallery
Joshua Reynolds
LADY COOLBURN CON TRE DEI SUOI FIGLI (1773)
Olio su tela, altezza mt. 1,41 – larghezza mt. 1,13

Londra, National Gallery
Joshua Reynolds
RITRATTO DI LORD HEATHFIELD (1787)
Olio su tela, altezza mt. 1,42 – larghezza mt. 1,14

Sir Joshua Reynolds è il primo pittore a concepire l’arte come servizio civile. Il servizio che il pittore offre alla società consiste nel mettere a disposizione tutte le risorse tecniche e culturali del mestiere per trasporre sul piano dei valori ideali la realtà quotidiana. Cosa intenda sir Reynolds per valori ideali ce lo dimostra nella tela che raffigura lady Coolburn con tre dei suoi figli. L’immagine ricalca nel suo aspetto compositivo il collaudato schema iconografico rinascimentale della Madonna col Bambino e san Giovannino, a cui il pittore inglese aggiunge il richiamo al classicismo seicentesco del drappo sullo sfondo.
Col passare del tempo l’ispirazione classicista di sir Reynolds si attenua e nelle ultime opere si avvicina maggiormente alla linea realistica di Thomas Gainsborough (la cosa è da mettere in relazione anche alla concorrenza di quest’ultimo). Nel Ritratto di Lord Heatfield, ad esempio, benché il soggetto, il governatore della Rocca di Gibilterra, presenti dei contenuti eroici, Joshua non lo rappresenta enfaticamente, bensì solo, come un uomo uscito vittorioso da una battaglia.

Londra, National Gallery
Thomas Gainsborough
I CONIUGI ANDREWS (1750 c.)
Olio su tela, altezza cm. 70 – larghezza cm. 118

Thomas Gainsborough vuole essere un paesaggista; suo malgrado passa alla storia come ritrattista, un genere da lui poco amato. Egli è l’inventore del pittoresco sociale, una tendenza nata nell’ambito del pittoresco paesaggistico e tendente a ricercare i valori tipici di questa poetica anche nella ritrattistica. È il rivale di sir Joshua Reynolds: i due si contendono il mercato dei ritratti della classe più facoltosa d’Inghilterra. Le differenze di indirizzo fra i due sono chiare: pur cogliendo entrambi la personalità più intimamente umana dei loro soggetti, Joshua ne idealizza l’imago, Thomas no.
Uno dei suoi dipinti più noti è quello in cui ritrae I coniugi Andrews. Moglie e marito sono colti durante una pausa nel giardino della loro tenuta di campagna. Lui, fucile alla mano, si appresta ad andare a caccia o ne è tornato, lei è comodamente seduta su una panchina. Traspare dai loro volti l’armonia che regna nella coppia, la stessa che si riscontra nella natura che si dispiega alle loro spalle, Una natura amica, che stimola i buoni sentimenti sociali.

IL ROCOCÒ IN ITALIA: ARCHITETTURA SABAUDA

Torino, castello del Valentino
Carlo e Amedeo di Castellamonte
ESTERNO (iniziato nel 1630)

Per conoscere l’arte del secolo dei lumi in Italia il posto migliore non è Roma, salda sede del papato, ma Torino, la cesariana Iulia Augusta Taurinorum. Torino non è una città fatta di monumenti come Roma, è una città regia, come le altre capitali europee, fatta di episodi emergenti, le dimore reali e i templi religiosi, su un uniforme tessuto urbano che ne costituisce la corte. Per tutto il Rinascimento resta un nucleo urbano ai margini dei maggiori centri di elaborazione culturale, ma con l’affacciarsi del nuovo secolo inizia pian piano a venire alla luce. Due sono gli avvenimenti fondamentali che fanno uscire Torino dal suo ambito provinciale: la riforma urbanistica avviata dai Savoia nel 1584, per mano di Ascanio Vittozzi (1539-1615), e l’intervento ambizioso di Vittorio Emanuele II (1861-1878), che desidera un capoluogo all’altezza delle altre grandi capitali europee, quali Londra e Parigi. La storia del riscatto torinese è dunque lunga; per conoscerla bisogna innanzitutto cominciare con l’andare a vedere subito in che cosa consiste l’intervento urbanistico del Vittozzi.
Architetto militare, il Vittozzi non contraddice la primitiva struttura del castrum romano, ma la rimarca avvalendosi di ampliamenti e ristrutturazioni. Il modello a cui si ispira è proprio Roma, ma la Roma del Fontana (1543–1607), cioè una città che si va preparando a svolgere il ruolo di capitale moderna. Col Vittozzi dunque Torino esce dall’ossequioso devozionismo rinascimentale, ed entra di prepotenza nel clima barocco; ma il modello di città dei Savoia non è la città dei papi, bensì la città del Re Sole.
A iniziare a dare un volto architettonico alla sistemazione urbana del Vittozzi sono Carlo (1560-1641) e Amedeo di Castellamonte (1610-1683). Di loro pugno è il castello del Valentino, un edificio smaccatamente francese, “strappato” dalle rive della Seine e “trasposto” sulle rive del Po’.

IL BAROCCO PIEMONTESE

Torino, duomo, cappella della Santa Sindone
Guarino Guarini
ESTERNO, SEZIONE E INTERNO (1667/1690)

A far balzare la città decisamente all’avanguardia, ancor prima che termini il Seicento, ci pensa un monaco teatino, Guarino Guarini (1624–1683), il quale dimostra di non avere problemi a coniugare fede religiosa e pensiero cartesiano. Il punto di partenza dell’architetto modenese è il Borromini (1599-1667) del quale sviluppa in senso virtuosistico le intuizioni tecniche. Ma il virtuosismo guariniano non è fine a sé stesso, è il modo attraverso cui si esprime la trascendenza divina.
Nella sua accezione il virtuosismo è la manifestazione di un prodigio, e il prodigio non è altro che il modo caratteristico di manifestarsi della divinità. Compito dell’architetto è quello di rendere fattibile, realizzabile, dare corpo al prodigio. La magia si ottiene utilizzando la tecnica in modo da ottenere manufatti stupefacenti, da lasciar meravigliati gli osservatori; e gli edifici religiosi del Guarini sono un miracolo tecnico che lascia meravigliati chi li guarda. Anche il Bernini (1598-1680), il Borromini e Pietro da Cortona (1596–1669) utilizzano la tecnica per provocare forti emozioni. Ma il Bernini e Pietro da Cortona lo fanno alla luce di un’idea di architettura precostituita. Lo spazio per padre Guarino, come per il Borromini, non è un’idea a cui dar forma, è una realtà da conquistare con la tecnica.
Così come fu per il Gotico, il dominio dello spazio settecentesco si ottiene mediante la scelta di forme sempre più audaci e complesse; e forme sempre più audaci e complesse si ottengono mediante l’azione combinata di arte e scienza.
Per il Guarini non è l’architettura che fa la tecnica, ma il contrario, è la tecnica che fa l’architettura. L’architettura del Guarini è tecnicamente rigorosa; la sua matrice è matematica. Ma la matematica che sta alla base della tecnica guariniana non serve a fornire una visione razionale dello spazio; al contrario, fa in modo che si perda. È quello che accade nella cupola della cappella della Santa Sindone.
Esteriormente la copertura della cappella della Santa Sindone richiama la volta di Sant’Ivo alla Sapienza del Borromini. A differenza di questa però strutturalmente, a causa della particolare posa in opera degli archetti di sostegno, incatenati come fossero mattoni (cioè impilati l’uno sull’altro con gli appoggi sfalsati), la forma si risolve in un gioco geometrico astratto. Impossibile per lo spettatore associare a tale intreccio di strutture portanti un attento, quasi maniacale studio matematico. Ma ciò non vuole dire altro che per il Guarini la matematica è razionalità superiore, motivo di trascendenza estatica e non di chiarimento e controllo del mondo sensibile.
Nella chiesa di San Lorenzo, degli stessi anni della cappella della Sindone, la fantasmagoria architettonica si fa decisamente più contenuta. La struttura statica della cupola si limita all’intreccio di otto archi sull’esempio di quelle islamiche, come nella volta della moschea di Bib Al-Mardum, di Toledo, risalente al 1000 d.C., e nel tiburio della cattedrale di Saragozza, del 1505/1520.

Torino, palazzo Carignano
Guarino Guarini
ESTERNO (1679/1685)

Quando passa agli edifici civili il Guarini placa la sua fantasia. Autografo è il Carignano: senza ombra di dubbio il palazzo più famoso di Torino. Nel suo salone per le feste, dall’inconfondibile pianta ovale, fu ospitato nel 1861 il primo parlamento italiano. Il modello del Carignano è inequivocabile: c’è dentro il progetto del Louvre del Bernini, la facciata dei Santi Luca e Martina di Pietro da Cortona, e il retro del collegio Salesiano del Gianicolo del Borromini.
Il Guarini muore a Milano all’età di 59 anni, nel corso di un soggiorno provvisorio per motivi di lavoro.

Torino, basilica di Superga
Filippo Juvarra
ESTERNO (1717/1731 c.)

Torino, palazzina di caccia di Stupinigi
Filippo Juvarra
ESTERNO, SALONE CENTRALE E VEDUTA D’INSIEME (1729/1730)

Con Vittorio Amedeo II (1743–1780) la situazione cambia; l’architetto dello stato sabaudo diventa l’architetto della corte sabauda. Nel 1714, chiamato dal Savoia, arriva a Torino Filippo Juvarra (1678–1736). È un architetto ancora giovane, ha 36 anni, ma è già celebre. È stato allievo di Carlo Fontana (1638–1714) e si è fatto le ossa lavorando all’estero come scenografo. Ciò gli ha permesso di acquisire una cultura architettonica di livello europeo, ma non solo, gli ha dato anche la possibilità di farsi una mentalità nuova, più laica.
Gli edifici del Juvarra non vanno visti solo per sé, ma in rapporto al contesto urbano. La basilica di Superga è un elemento dell’orizzonte cittadino, come, in altra misura, le Alpi. È un edificio religioso che assomma le due qualifiche di monumento e mausoleo: monumento per celebrare la vittoria contro i francesi; mausoleo per conservare memoria dei Savoia. Contrariamente alle sue consimili, quella di Superga non è una basilica posta nel cuore della città, ma ai margini; non appartiene al suo spazio concreto, ma al suo orizzonte visivo. L’architettura è pensata per esser vista da lontano; è un accento percettivo sulla sommità di un colle. Per dar corpo alla sua invenzione il Juvarra si ispira alle due chiese di piazza del Popolo e, al di là, al Pantheon. Ma qui il pronao è più stretto e profondo, mentre il tamburo è più alto. Questa variante si spiega col fatto che Filippo tiene conto delle aberrazioni ottiche prodotte dalla distanza e dal cambiamento continuo del punto di vista. Infatti a causa di questi due fattori la proporzione dei due nodi architettonici fondamentali variano, ora aumentando ora diminuendo le proprie dimensioni. Dunque le proporzioni sono giustificate nel quadro di un intervento finalizzato a mantenere le variazioni dimensionali, dovute al tipo particolare di veduta, entro limiti accettabili; perciò si può dire che l’edificio si “comporta” come una scena teatrale mobile. L’altro elemento di cui tener conto per comprendere le scelte estetiche del Juvarra è la presenza del monastero che sorge alle spalle della chiesa.
Il monastero è un’ampia costruzione a pianta rettangolare che si innesta sul corpo tondeggiante del tempio. Per armonizzare l’articolazione formata dall’alta cupola con le due basse ali del convento Filippo inserisce a ragion veduta due campanili, sicuramente memore delle soluzioni già sperimentate dal Bernini, dal Borromini e da Pietro da Cortona. È soprattutto a quest’ultimo che pensa per graduare il profilo dell’insieme, ma qui il distacco tra il pronao, proiettato all’innanzi, la cupola, diretta verso il cielo e il convento, tutto all’indietro, è più netto.
Nella facciata di palazzo Madama, iniziata un anno dopo l’avvio del complesso di Superga, Filippo si trova ad agire in uno spazio urbano. Nella sua mente c’è Versailles, e più in particolare i padiglioni da giardino, con le grandi vetrate per la fotosintesi clorofilliana. Solo che all’interno di palazzo Madama non ci sono piante, ma l’aristocrazia torinese, e la funzione delle grandi vetrate non è quella di far entrare la luce solare ma far uscire la luce artificiale del grande salone per le feste.
Dal 1729 al 1731 il Juvarra realizza in tempi record il grande complesso di Stupinigi. Nel bel mezzo di una porzione di Pianura Padana, a ridosso dei margini prealpini, si dispiega con fare ampio e spezzato un gruppo ininterrotto di candidi edifici. Sono la corte immensa della palazzina fatta costruire dal Savoia per ospitare i nobili suoi pari per le grandi battute di caccia e le grandi feste mondane. Ormai ci troviamo di fronte ad un’idea di spazio completamente nuova. È tramontata per sempre l’idea di un principio da tradurre in immagine; si è fatta strada l’idea di un comporre libero nel vuoto ambientale.

IL ROCOCÒ A MILANO

Firenze, Galleria degli Uffizi
Alessandro Magnasco
REFEZIONE DI ZINGARI (1710)
Olio su tela, altezza cm. 55 – larghezza cm. 70

La nostra navigazione nel Rococò prosegue alla volta di Venezia. Per arrivare a Venezia partendo da Torino si deve passare necessariamente per Milano, e siccome anche Milano ha il suo rococò, tanto vale fare una deviazione per andare a darle un’occhiata.
La Milano rococò può vantare due pittori assai singolari, uno l’opposto dell’altro, il Lissandrino e il Pitocchetto: tutto fantasia, niente realtà il primo, tutto realtà niente fantasia, il secondo.
Alessandro Magnasco (1667-1749), detto il Lissandrino, è di Genova, ma la maggior parte della sua parabola artistica la vive a Milano. Anche Giacomo Ceruti (notizie dal 1724-1757), detto il Pitocchetto, lavora a Milano ma non è di Milano, è di Bergamo. Le poetiche dell’uno e dell’altro sono quanto mai esplicite: per il Magnasco l’arte è fantasia, per il Ceruti è obiettività. Entrambi i pittori rappresentano un caso particolare nel panorama artistico generale dell’epoca. Il Lissandrino in quanto propone la sua poetica in un momento in cui si cerca di stabilire un rapporto fra arte e ragione; il Pitocchetto in quanto propone la sua in un momento in cui l’arte è contesa fra ragione e fantasia. Ciononostante Alessandro e Giacomo non sono degli stravaganti; danno volto a idee uscite dalla speculazione illuminista sull’arte. Cosa vuol dire esattamente fantasia per il Magnasco e obiettività per il Ceruti ce lo raccontano due loro quadri: Refezione di zingari, del Magnasco, e I due pitocchi, del Ceruti.
Se si guarda il quadro del Magnasco non tanto ci sorprenderà la scelta dei personaggi, zingari in questo caso, briganti, soldati e frati penitenti, nonché paesaggi, architetture cadenti e mari in burrasca in altri casi, quanto la tecnica, fatta di lumeggiature ottenute con tocchi sciabolanti di colore brillante su un fondo uniformemente cupo, come lampi nelle tenebre, colore acceso da una luce fredda, argentea proveniente dall’alto. Ne viene fuori un’immagine sgretolata, corrugata, disfatta in cui la forma naturale si disperde; sola s’intravede, in maniera inequivocabile, la materia con cui è costruito il dipinto e il modo in cui è stata aggregata sulla tela. Per il Magnasco dunque la fantasia è un moto che non produce illusioni visive ma evidenzia sé stessa, il suo modo di essere, il ritmo con cui si da alla percezione ottica. L’immagine fantasiosa non è vacua, superficiale, frivola, è densa di materia colorata, pesante, grumosa; insomma è il contrario dell’immagine barocca.
Per quanto riguarda i precedenti del Magnasco, non sembrano proprio esserci dubbi: Salvator Rosa con i suoi “capricci” e “stregonerie”. Tuttavia non c’è da sottovalutare l’influenza operata dal Morazzone (1573–1626), né l’incontro a Milano con Marco Ricci (1676-1730); e nemmeno la conoscenza dell’opera del Greco (1541-1614).
Senza dubbio il motivo scatenante della pittura del Magnasco è, almeno all’inizio, la polemica con gli artefici della “maniera grande”, i quali non nascondono il loro, neanche tanto larvato, disprezzo per i pittori di genere. Tuttavia al classicismo, brillante ma superficiale, della pittura ufficiale il Magnasco non contrappone la “maniera piccola”, ma la tecnica spregiudicata, irriverente, sprezzante addirittura, della sua maniera.

Brescia, Pinacoteca Tosio-Martinego
Giacomo Ceruti
I DUE PITOCCHI (1730 circa)
Olio su tela, altezza mt. 1,53 – larghezza mt. 1,72

Passiamo al Pitocchetto. Guardando i due barboni ritratti nel quadro si capiscono subito due cose: la prima è che obiettività per il Ceruti non vuol dire descrizione analitica, ma visione genuina, priva di pregiudizi, osservazione non viziata dalle regole prospettiche, compositive, né dagli effetti luminosi; la seconda è che per lui l’oggettività può essere trovata solo nei poveracci. Questo perché i signori si atteggiano, sempre; i poveracci mai, sono più spontanei. Dunque c’è nei benestanti un difetto alla fonte. Nei “due pitocchi” l’inquadratura è semplice, non c’è sfondo prospettico, la luce è chiara, naturale, radente, non c’è la pretesa di rivelare alcunché né di commentare. Questo è il suo realismo pauperistico; un indirizzo di “nicchia”, ma che svolgerà un ruolo di primaria importanza appena cento anni dopo.

Bergamo, Accademia Carrara
Fra Galgario
RITRATTO DI GIOVANE DISEGNATORE (1732 c.)
Olio su tela, altezza cm. 76 – larghezza cm. 65

Non si può lasciar Milano senza aver speso almeno due parole per Fra Galgario (1655-1743).
Fra Galgario, al secolo Vittore Ghislandi, è l’erede diretto della grande tradizione ritrattistica lombarda instaurata dal Moroni (1522–1579 c.). Ma rispetto a quelli del Moroni i ritratti di Fra Galgario sono più ricchi d’impasto e la tecnica è più rapida. Per il resto il Ghislandi si qualifica come il ritrattista di quella classe sociale, la borghesia, che di li a poco diventerà la classe politica dominante della nuova società. Guardando ai suoi lavori viene spontaneo il confronto con l’atro grande ritrattista italiano dell’epoca, Pompeo Batoni (1708-1787). Ebbene quanto la ritrattistica del Batoni è prescelta e ruffiana, quella di Fra Galgario è franca e informale.

IL RITORNO DELL’AVANGUARDIA A VENEZIA

Venezia, chiesa di San Vitale
Andrea Tirali
ESTERNO (1710)

Venezia, chiesa dei Santi Simeone e Giuda
Giovanni Scalfarotto
ESTERNO (1718)

Venezia, chiesa dei Gesuati
Giorgio Massari
ESTERNO (1726/1743)

Venezia, chiesa di Santa Maria Maddalena
Tommaso Temanza
ESTERNO (1748/1763)

Se Torino è la città che fa da ponte tra Francia e Italia, Venezia è la città dove il periodo rococò trova l’espressione più interessante e varia. Motivo? La sua stessa natura pittoresca.
Nel Settecento l’arte veneziana torna di colpo alla ribalta; l’ambiente artistico in cui vengono maturando le tante personalità è assai ricco di proposte innovative in tutti i settori. In architettura c’è di nuovo la teorizzazione del padre Lodoli (1690-1761) che riprende e rafforza la tendenza funzionalista sostenuta dalla poetica palladiana, fino al punto da condannare ogni espressione formale ingiustificata dal punto di vista pratico.
Dopo il Longhena, per avere un altro episodio importante per la storia dell’architettura veneziana bisogna aspettare il 1718, quando Giovanni Scalfarotto (1690 c. – 1764) inizia a costruire la chiesa dei Santi Simeone e Giuda. L’opera sostanzialmente è un ritaglio di Pantheon ricoperto da una cupola bizantina, cioè una chiesa che sembra un tempio pagano.
Sebbene l’edificio religioso non sia un capolavoro, segna comunque la precoce adesione di Venezia alle nuove istanze illuministe. La cosa si spiega: nella Serenissima il Barocco non ha avuto mai grande fortuna, per via del culto per il Palladio (1508-1580) e la condivisione delle teorie di padre Lodoli. Ancor più simile al Pantheon, ma con il pronao incassato è la chiesa di Santa Maria Maddalena, costruita nel 1748 da Tommaso Temanza (1705-1789), esattamente trent’anni dopo quella dello Scalfarotto. Nettamente palladiane sono invece la chiesa dei Gesuati, di Giorgio Massari (1687-1766), e la facciata di San Vitale, di Andrea Tirali (1657-1737), realizzata ancor prima, nel 1710. Fra tutti questi architetti palladiani, il Tirali è colui che intuisce precocissimamente la nuova ventata neoclassica che si sta preparando a spirare di li a non molto: ne è eloquente testimonianza il pronao della chiesa di San Niccolò da Tolentino. È il 1706.
Nell’ambito civile il cambiamento di rotta si manifesta nel 1749 per opera del Massari, autore della facciata di palazzo Grassi.

Firenze, palazzo Pitti
Sebastiano Ricci
VENERE E ADONE (1606/1607)
affresco

Salisburgo, Museo del Barocco
Giovanni Antonio Pellegrini
LA CADUTA DI ADONE (1713)
Olio su tela, altezza cm. 55 – larghezza cm. 53

Padova, Musei Civici, Museo d’Arte Medioevale e Moderna
Alessandro Longhi
RITRATTO DI ANTONIO RENIER (1765)
Olio su tela, altezza mt. 2,33 – larghezza mt. 1,37

Venezia, Galleria dell’Accademia
Rosalba Carriera
RITRATTO DI DAMA (prima metà del XVIII sec.)
Pastello, altezza cm. 57 – larghezza cm. 46

Londra, Galleria Nazionale d’Arte
William Hogarth
LA TOELETTA (1744 c.)
Dalla serie Matrimonio alla moda
Olio su tela, altezza cm. 70 – larghezza cm. 91

Venezia, Museo del Settecento Veneziano
Pietro Longhi
IL RINOCERONTE (1751)
Olio su tela, altezza cm. 62 – larghezza cm. 50

In pittura due sono i fenomeni che riportano la Serenissima ai vertici della produzione di qualità: i grandi cicli decorativi e il Vedutismo. Massima personalità del decorativismo veneto è Giovan Battista Tiepolo (1696-1770); massima personalità del Vedutismo veneziano è Antonio Canal, detto il Canaletto (1697–1768). All’inizio del secolo i principali esponenti del settore pittorico sono Sebastiano Ricci (1659-1734), Giovanni Antonio Pellegrini (1675-1741), l’Amigoni (1682-1752), il Pittoni (1687-1767) e Giannantonio Guardi (1699-1760); tutti virtuosi del colore, tutti specialisti, chi nell’affresco chi nei quadri da cavalletto. Ognuno di loro riprende ed estende il principio giordanesco dell’arte come modo di stupire attraverso la tecnica. Marco Ricci (1676-1730), nipote di Sebastiano, è specializzato in “capricci”: vedute di fantasia dal tocco rapido e intenso. Accanto agli esperti in decorazioni parietali ci sono poi i ritrattisti come Alessandro Longhi (1733-1813) e Rosalba Carriera (1675-1757). Quindi ci sono i vedutisti, di cui si dirà fra poco, e i pittori di costume come Pietro Longhi (1702-1785). Con quest’ultimo un nuovo soggetto entra a far parte della pittura, la vita vera, quella vissuta, quotidiana. In ciò il Longhi si avvicina all’inglese Hogarth, celebre per le sue “conversazioni” o scene famigliari che dir si voglia. Il valore principale di queste tele sta nel fatto che non c’è nessuna intenzione di cedere ad una facile retorica moralistica da commedia in costume, invece si vuol fare lettura della realtà sociale quale è, senza aggiunte od omissioni. Dunque in questi lavori non c’è interpretazione, ma attenta osservazione; tra l’oggetto e il soggetto non c’è stacco, entrambi occupano lo stesso spazio e agiscono nello stesso tempo, e questa simultaneità d’azione è ciò che impedisce il giudizio.

Venezia, chiesa di San Stae
Giovanni Battista Piazzetta
SAN JACOPO TRASCINATO AL SUPPLIZIO (1717)
Olio su tela, altezza mt. 1,67 – larghezza mt. 1,39

Qualcosa di più che un semplice cenno merita Giovanni Battista Piazzetta (1683-1754). Giovanni Battista Piazzetta è l’opposto di Sebastiano Ricci. Non è un “mano lesta” della pittura, ma un lavoratore lento e paziente; non dipinge in modo brillante e in superficie, ma profondo e oscuro; non si sposta da una corte all’altra per offrire i suoi servigi, ma resta per tutta la vita all’interno del suo studio. È un pittore, ma il suo stile non è pittoresco, bensì plastico. Per lui la modernità non si deve necessariamente identificare nella scioltezza tecnica, nel virtuosismo; vuole invece ricondurre la pittura alla serietà, alla severità dei maestri seicenteschi. La sua riforma si può sintetizzare in tre punti fondamentali: semplificazione compositiva; riduzione dei toni fra le note di massima e minima intensità; concentrazione di movimenti e espressioni. Dunque non propone una nuova poetica, semplifica quella esistente, il Rococò; non inventa nuove parole per un nuovo linguaggio, ma ristruttura il linguaggio corrente. L’obiettivo è esplicito: mettere a nudo gli elementi linguistici: disegno, luce, colore, composizione. Il suo lavoro è lo stesso del Crespi (1665-1747), maestro a cui guarda, ma la sua arte è priva della componente religiosa che caratterizza l’opera di quest’ultimo.
L’operazione del Piazzetta in campo pittorico può essere paragonata a quella teorica del Lodoli in campo architettonico: la revisione dell’intero settore dal punto di vista funzionale. Se la funzione dell’architettura è quella pratica di fornire spazi per le attività umane la funzione della pittura è quella di presentare in modo chiaro le tecniche di rappresentazione: è un’operazione prettamente linguistica che in sostanza si può sintetizzare nella manovra di riduzione dell’ornamento. Nel San Jacopo trascinato al supplizio questi punti sono tutti presenti.
L’importanza storica del Piazzetta nell’ambito culturale del tempo consiste nel fatto che l’artista rappresenta una delle tante voci critiche al Barocco. Tuttavia la sua opera revisionista non sfocia in una nuova idea dell’arte. La sua pittura, così intellettuale, interessa i giovani e dalla sua idea di ricondensazione strutturale scaturisce la ricerca di un nuovo linguaggio essenziale.

Würzburg
Giovan Battista Tiepolo
APOLLO E I QUATTRO CONTINENTI (1750/1753)
Decorazione del soffitto dello scalone
Affresco

Veniamo ora al Tiepolo e al Canaletto. Nel giudicare il Tiepolo la critica si divide in due fazioni. C’è chi lo vuole l’ultimo pittore barocco, il quale, dotato di tecnica prodigiosa, cerca l’innovazione partendo da un impianto tradizionale, e c’è chi lo vuole un innovatore sfortunato, bloccato nella sua grande impresa di aggiornamento di una grande tradizione dall’avvento di un nuovo mondo. Chi ha ragione? Di sicuro c’è che il Tiepolo è l’ultimo grande cantore di un mondo ormai destinato a scomparire per sempre: il mondo preindustriale. Tuttavia nella sua arte si trova qualcosa che lo rende più moderno dei più moderni artisti neoclassici. Si tratta del modo di usare il colore per tinte giustapposte, senza impasto, e della indifferenza verso il soggetto. Più in particolare, per quanto riguarda questo secondo punto, va precisato che non è per mancanza di cultura che il Tiepolo non si interessa del soggetto, per lui l’arte è nella tecnica pittorica, non in quello che la pittura racconta: e questo è un pensiero valido tutt’oggi. Non c’è da sorprendersi più di tanto: molte delle nostre idee moderne sono vecchie di 300 anni.
Giovan Battista Tiepolo nasce al tramontar del XVII secolo. Si fa le ossa nella bottega di Gregorio Lazzaroni (1655-1730), ma il suo primo vero maestro, quello spirituale, è il Piazzetta. Tra il 1715 e il 1716, quando ha 19 anni, realizza alcune tele per l’Ospedaletto, che costituiscono le prime opere firmate. In questi lavori è fin troppo palese l’influenza dell’altro Giovan Battista (Giovanni Battista, per essere precisi), insegnante, ma la pennellata del Tiepolo è tutt’altra che quella lenta e meditata del Piazzetta; è più sciolta, più briosa, cosa che lo avvicina più ai Ricci e agli altri grandi affrescatori. Questa affinità con i Ricci diventa vera e propria sintonia quando il Tiepolo riceve l’incarico di decorare a fresco la chiesa degli Scalzi: siamo nel primo ventennio del XVIII secolo e lo stile di Giovan Battista subisce una metamorfosi. Lo spazio si apre, la composizione si imbottisce di figure, i colori si arricchiscono di tinte e si schiariscono, la struttura si precisa in macchie sempre più nettamente separate: d’ora in poi questa sarà la sua pittura; le opere che seguiranno non saranno altro che un più ampio, panoramico, complicato, movimentato complesso di macchie colorate.
Negli affreschi che vengono appresso Giovan Battista precisa anche il suo riferimento storico: il Veronese (1528-1588). Nel 1750 va a Würzburg, chiamato alla corte del principe-vescovo, per decorare la sua sontuosa dimora: è l’apoteosi.
Il soffitto dello scalone di Würzburg funziona come un palcoscenico mobile, anche se non è di fronte allo spettatore ma sopra la sua testa. La condizione spaziale impone la quadruplicazione del boccascena. Su questo inserto prospettico si assiepa una folla di personaggi che fanno da corona ad un gran vuoto centrale, gremito di figure perse nelle nuvole. Ebbene proprio il vuoto centrale è il vero attore principale della rappresentazione, un vuoto che non fa lontananza ma si protende verso lo spettatore proprio per qualificarsi subito come finzione.
La novità di tutta questa complicatissima messa in scena sta nel fine: mostrare una condotta operativa. Giovan Battista non vuole ingannare lo spettatore, non gli vuole far credere vera una finzione; lo vuole far partecipe del suo entusiasmo per tutto ciò che è bello e grande, libero da ogni regola: l’opera del Tiepolo si qualifica così come atto di sfiducia verso la storia e illimitata fiducia verso la tecnica.
La sua pittura può sembrare, ma non lo è, ricca e spensierata; sa perfettamente cosa bolle in pentola al momento: la ricerca di una tecnica trascendentale. Non a caso Giovan Battista risale al Veronese: infatti questi è l’artista che ha saputo trarre dalla tecnica dei suoi tempi la maggiore magnificazione visiva possibile. Cambia solo l’elemento strutturale di base, che nel Veronese non arriva ad esplicitarsi completamente nella separazione dei tocchi. Rispetto a quella del Veronese la tecnica del Tiepolo è progressiva perché grazie al frazionamento delle tinte riesce ad allargare la scala dei toni, a rendere più mobile il timbro, a dinamizzare i riflessi. Un’altra notevole differenza con il cinquecentesco predecessore è lo spazio, estremamente più ampio e perduto.
A questo risultato il Tiepolo ci giunge partendo dalla prospettiva e non, come faranno più tardi i vedutisti, dalla macchia. Prospettive che non prepara lui, ma se le fa preparare dal quadraturista Girolamo Mengozzi Colonna (1686–1774), uno specialista con uno strano destino: fare da spalla ai virtuosismi del Tiepolo. Per Giovan Battista il soggetto è solo un input per mettere in moto il processo tecnico. Le sue rappresentazioni sono zeppe di figure colte in atteggiamenti dinamici, ma lo scopo di tanto agitarsi non è quello di drammatizzare la scena, bensì quello di mettere in vibrazione i colori. Dunque per il Tiepolo tutti gli elementi del linguaggio artistico sono congegni per stimolare l’immaginazione, e questa si dà alla percezione dell’osservatore in modo tanto più avvincente quanto più è virtuosa la tecnica. In altri termini l’arte è finzione; l’unica cosa reale è il lavoro dell’artista, la sua tecnica. Quindi non si deve guardare all’arte per lasciarsi suggestionare da quello che dice, ma da come lo dice. Senz’altro un’interpretazione tecnicistica, ma proprio per questo moderna e laica, come predica l’illuminismo.
Con il Tiepolo l’arte viene considerata una realtà a sé. Non è, come sembra, mimesi, non simula il vero; manifesta sé stessa, il proprio essere arte. È l’effetto dei colori che trattiene lo sguardo dello spettatore, non la lettura del contenuto; e più aumenta il primo più scade il secondo.
Giovan Battista Tiepolo muore 21 giorni dopo aver compiuto il suo settantaquattresimo compleanno, glorificato, ma emarginato da un pittore assai più debole di lui, Anton Raphael Mengs (1728-1779), che lo scalza non già perché più virtuoso quanto perché assertore di nuove idee, maggiormente in linea con i tempi che corrono.

IL VEDUTISMO: L’ARTE COME RICERCA STRUTTURALE DELL’IMMAGINE OTTICA

Roma, collezione privata
Gaspar van Wittel
VILLA FARNESE A CAPRAROLA (1720/1725 c.)
Olio su tela, altezza cm. 98 – larghezza cm. 174

Nella prima metà del Settecento l’arte figurativa veneziana comincia a risentire dell’indirizzo sensistico-razionalista che caratterizza la prima fase della speculazione illuminista. L’opera di revisione critica intrapresa da quest’ultimo trova nel paesaggio un genere particolarmente adatto, ciò sposta inevitabilmente l’attenzione degli artisti sul presente. Il Vedutismo veneziano sorge in contrapposizione ai “capricci”, sempre veneziani, come veduta esatta alternativa alla veduta di fantasia. Sul piano tecnico si distingue come pittura razionalmente controllata contro la pittura di getto: insomma scientismo contro pittoresco. Al virtuosismo tecnico degli artefici delle vedute capricciose, libero da regole, estremamente sciolto e basato sull’improvvisazione, il “tecnico” vedutista oppone il suo ortodosso rigorismo morfologico e procedurale; non s’intende vagare con la fantasia in spazi illusori, s’intende mostrare in maniera logica, chiara, ordinata, la realtà fenomenica.
Nonostante la palpabile differenza Vedutismo e pittoresco hanno un punto in comune: tutti e due criticano il Barocco. Il Vedutismo si oppone al Rococò come pittura di ricerca a pittura d’effetto; i “capricci” oppongono alla retorica barocca, all’immaginazione come rappresentazione ingannevole, la fantasia come rappresentazione schietta. Questo perché entrambe le poetiche sono emanazione del sensismo illuminista: nell’accezione di una più razionale espressione delle sensazioni visive il Vedutismo, nell’accezione di una più autentica espressione della fantasia i “capricci”. Capricci e Vedutismo nascono come poetiche critiche ma è in loro già la piena affermazione di una nuova visione del mondo, una visione che rifugge dalla presenza di entità metafisiche di natura divina. Non si mette in dubbio l’interpretazione barocca dell’immagine come realtà fittizia, né la natura dell’arte come strumento creativo d’immagini, ciò che si biasima è l’inverosimiglianza di quel che si proietta sul piano della figurazione, nonché l’illusionismo lezioso e sbrigliato di un certo modo di fare arte.
Il Vedutismo veneziano è il più importante, ma il Vedutismo non nasce a Venezia, ma a Napoli. Nasce per opera di Gaspar van Wittel (1653-1736), olandese. Van Wittel è l’autore di una numerosa serie di vedute, molte delle quali dedicate a Roma: sono le prime cartoline della storia.
Gaspar, contrariamente a quello che fanno molti suoi colleghi, trasforma il documentarismo pittorico in una consapevole scelta poetica: ne consegue una tecnica controllata, esente da distorsioni interpretative. Van Wittel è di quattro anni più anziano del Solimena (1657-1747) e muore undici anni prima, ma se si mettono vicine le opere dell’uno con quelle dell’altro non si può fare a meno di notarne l’abisso che le separa: quelle dell’olandese guardano più avanti. Valga da esempio il modo di intendere la prospettiva: il Solimena la utilizza come uno mezzo di allestimento teatrale, mentre il van Wittel la utilizza come uno strumento di coordinamento ottico per vedere meglio. Tuttavia anche questa non è del tutto una novità. Ma in Gaspar l’ordine che assumono le cose vedute non è l’ordine delle cose stesse, bensì l’ordine della mente del soggetto che le recepisce: ciò che appare sulla tela non è l’immagine del Creato, ma l’immagine della sensazione visiva. Dunque l’immagine artistica non è apparenza da correggere con la nozione delle cose, cioè con la cultura, ma materiale a cui dare un ordine; e questo rientra di diritto nel sensismo illuminista.

Roma, collezione Albertini
Canaletto
IL MOLO CON LA LIBRERIA E LA COLONNA DI SAN TEODORO (1735 c.)
Olio su tela, altezza mt. 1,10 – larghezza mt. 1,85

Fra i veneti colui che impersona al più alto livello lo spirito sensista è il Canaletto. Giovanni Antonio Canal, detto Canaletto, nasce a Venezia e ivi muore all’età di 71 anni. Il pittore parte dalla critica etica alla tecnica barocca, indirizzata ad illudere, ingannare, stimolare un devozionismo irriflessivo, non ponderato o meditativo. Nella veduta intitolata Il molo con la libreria e la colonna di San Teodoro, dipinta all’età di 38 anni, si riconosce uno degli scorci più celebri della “Serenissima”, con il Canal Grande solcato dalle ben note gondole e la piazza San Marco in primissimo piano, la cui presenza però la intuiamo soltanto, essendo in gran parte tagliata fuori dal quadro; sullo sfondo, inconfondibile, si staglia il profilo della Salute. Sembra una cartolina, e in effetti lo è; o almeno la funzione è la stessa di quella svolta dalle cartoline illustrate: rievocare attraverso l’immagine di una sua porzione, la suggestione di un’intera città. Dal punto di vista storico artistico il dipinto risulta estremamente moderno nella concezione, ma soprattutto nel tipo di luce. Infatti si tratta di una luce naturale; appartiene all’ambiente; non ha riverberi, né bagliori drammatici; non produce una illuminazione di tipo scenografico. La quinta urbana naturale entro la quale si svolge lo spettacolo della vita quotidiana è illuminata dalla radiazione solare del giorno.
Il paesaggio naturalistico non nasce in Italia, ma in Olanda, un secolo prima. Lì la luce naturale sublimava la sensazione concreta delle cose in fenomeni luminosi senza corpo, qui i riflessi, i chiari , gli scuri, fenomeni naturali, si condensano nella sensazione tattile delle cose che costituiscono la scena perenne della vita di tutti i giorni.
Senza dubbio si può affermare che il Canaletto è uno dei primissimi pittori a lavorare in “plein air”, cioè all’aria aperta, non al chiuso di una bottega, anche se per amore della verità dobbiamo aggiungere che non tutto il lavoro viene svolto a contatto col vero. Infatti, aiutato dalla camera oscura, appunta prima diligentemente sulla carta da schizzi, o direttamente sulla tela, le sagome e i colori percepiti sul posto, poi, in un secondo momento, nel suo studio, rielabora le immagini improntate arricchendole di toni e dettagli. Una volta eseguito questo lavoro le opere vengono rifinite tornando sul posto. Un altro elemento che va sottolineato e che rappresenta una novità assoluta per l’epoca è la scelta dei tagli prospettici, estremamente audaci nel prendere a soggetto luoghi di scarsa importanza storica e religiosa. Nel dipinto in esame, ad esempio, al centro della veduta c’è un mercato, l’attracco delle gondole, persone comuni che chiacchierano. La storica piazza San Marco è messa da una parte; la chiesa della Salute fa da sfondo; la stessa Biblioteca è resa come parte integrante del tessuto urbano della città.
Canaletto, stranamente, non viene considerato un artista rivoluzionario, eppure è stato uno dei pionieri lontanissimi di un modo di dipingere assolutamente nuovo: in natura, direttamente dal vero, senza regole precostituite. Anche la prospettiva, benché regola precostituita, qui, nelle sue opere, non viene utilizzata come intelaiatura grafica di preparazione all’atto del dipingere, bensì come strumento di coordinamento e di razionalizzazione della struttura a macchie impiegata nella costruzione dell’immagine. La magia delle vedute di Antonio si può apprezzare allorquando avvicinandosi alla tela ci si accorge di un fattore imprescindibile: quelle che da lontano sembrano figure umane, cose ed elementi vari come aria, acqua e materie solide sono in realtà macchie di colore giustapposte. Questo significa in termini di pensiero artistico che per Canaletto il contenuto dell’immagine è l’immagine stessa. Ciò che gli interessa non è quello che sta dietro il fenomeno luminoso ma la struttura del fenomeno, e questa per il Canaletto è costituita da un sistema di macchie.
Si va precisando così la differenza fra essenza e percezione. Un individuo non viene percepito per quello che è, ma per quello che risulta all’occhio; e all’occhio, secondo il Canaletto, un individuo risulta essere una serie di macchie giustapposte. I volti dei personaggi sono sintetizzati in poche macchiette più scure su un fondo carnicino: due puntini per gli occhi, uno per la bocca. Gli abiti non sono trattati come una forma unica a cui l’effetto tonale da volume, ma vengono letteralmente scomposti in un complesso binario di colori diversi, uno chiaro e l’altro scuro. Sarà l’abitudine mentale di chi guarda che rimetterà le cose a posto interpretando le diverse aree informi demarcate dal pennello come un solo colore, in parte illuminato e in parte in ombra. Non c’è chiaroscuro, non c’è modulazione cromatica, non c’è passaggio sfumato da una tinta all’altra, ma c’è accostamento fra due tinte diverse. Non solo, ma il colore che svolge il ruolo di ombra non è la stessa tinta con l’aggiunta del nero, così come il colore che svolge il ruolo di luce non è la stessa tinta con l’aggiunta del bianco, sono due tinte completamente diverse. Esempio: il rosso in ombra non è costituito dal rosso con l’aggiunta del nero, ma è interpretato da un marrone, o da un viola. Le ombre non sono affatto le stesse tinte più cupe, ma altri colori, derivanti dal processo di assorbimento dei raggi nel corso del fenomeno luminoso. Queste tinte ombra sono rappresentate dai cosiddetti colori secondari e terziari come i viola e i marroni, appunto. Ma la cosa non finisce qui: infatti le ombre, come i riflessi, risentono del colore dell’ambiente. Che in natura anche lo spazio avesse un colore lo avevano già scoperto i grandi veneti del Rinascimento; il Veronese soprattutto ne faceva la base del proprio discorso pittorico. Nell’opera intitolata Il ritorno del Bucintoro, dipinta nel 1729, all’età di 32 anni, guardando da distanza ravvicinata la casacca del rematore ci si accorge che è costruita con due macchie di colore, una verde veronese, l’altra verde scuro profondo. Questo modo di fare si ripete nel calzettone, in cui una parte è grigio azzurra, l’altra bianca.
Perché l’ombra è grigio-azzurra? Grigia perché bianco a cui è stata tolta la luce, azzurra perché ombra a cui si è aggiunto il celeste del cielo.
Nelle quinte architettoniche, il discorso tonale sembrerebbe perdersi, e invece anche qui le zone in luce e le zone in ombra, sebbene determinate in modo più rigido, sono campi di colore, né più né meno che gli stessi con cui vengono individuati personaggi e cose. Perciò le nuvole non sono mai solo macchie bianche, ma contengono il verde dell’acqua dei canali, così come il verde delle acque dei canali contiene il bianco delle nuvole.

Bergamo, Accademia Carrara
Francesco Guardi
RIO DEI MENDICANTI (post 1760)
Olio su tavola, altezza mt. 1,90 – larghezza mt. 1,50

Fra gli illuministi c’è anche chi la pensa in modo diverso. La speculazione illuminista in arte parla anche del ruolo del sentimento per cui al sensismo razionale si affianca il sensismo dei sentimenti. La prima interpretazione in senso romantico del sensismo illuminista la da Francesco Guardi (1712-1793). Se il vedutismo del Canaletto può essere definito come un vedutismo razionale quello del Guardi può essere definito un vedutismo irrazionale.

IL ROCOCÒ A BOLOGNA

Milano, Museo Teatrale della Scala
Ferdinando Galli Bibiena
SCENA PER IL TEATRO DEI SOMASCHI A BOLOGNA (1703)
Acquaforte, altezza cm. 38

A Bologna il livello tecnico del professionismo locale è garantito ancora dall’accademia Carraccesca, ma i maggiori talenti della città militano tra le file dei “quadraturisti”. Costoro sono pittori di prospettive architettoniche, creatori di grandi macchine scenografiche. L’origine del “quadraturismo” è da ricercare nella decorazione manierista di un Pellegrino Tibaldi (1527-1596). Il suo sviluppo seicentesco avviene per mano del Dentone (1575-1632), del Colonna (1600-1687) e del Mitelli, Giuseppe Maria (1634–1718), non Agostino (1609-1660), suo padre. Nel Settecento il Rococò diventa genere autonomo con i Galli Bibiena, dei quali si ricorderà il solo Ferdinando (1657-1743), capostipite dell’intera famiglia di scenografi, e Vittorio Maria Bigari (1692-1776).
Il grande merito del “quadraturismo” è quello di aver liberato la pittura dalla prospettiva come principio spaziale a priori.

Dresda, Gemäldegalerie
Giuseppe Maria Crespi
L’EUCARESTIA (1712 circa)
Dalla serie dei Sette sacramenti
Olio su tela, altezza cm. 127 – larghezza cm. 94

Con Giuseppe Maria Crespi la riflessione sull’arte si fa più profonda. Per lui compito della pittura non è quello di spiegare il mondo, bensì quello di tradurre la propria esperienza visiva. Questa esperienza può essere fredda e distaccata o suggestiva e coinvolgente; per il Crespi l’esperienza pittorica è suggestiva e coinvolgente. Non c’è niente di ludico nel dipingere, c’è solo un profondissimo, umilissimo senso religioso.
L’esperienza visiva per il Crespi si traduce in una composizione tonale di luci ed ombre. Ma luci e ombre non sono ottenute con una pittura liscia, distesa, bensì con tocchi concitati che rasentano il fervore religioso, come se la pittura fosse una sorta di preghiera: arte religiosa quella del Crespi dunque, ma non necessariamente cattolica.
Questo legame della pittura con l’intimità religiosa trattiene il Crespi nell’ambito culturale del Seicento, tuttavia quello che non capirono gli illuminati illuministi, e che ha impedito a Giuseppe Maria di figurare fra i massimi interpreti dell’illuminismo pittorico, è che la sua è una critica all’arte del suo tempo come quella illuminista, solo proveniente da un altro pulpito, non già razionalista, bensì del puro sentimento. A capirlo sarà invece più tardi il Piazzetta, la cui riforma del linguaggio pittorico avrà nel Crespi le necessarie premesse.

ROMA ROCOCÒ

Roma, porto di Ripetta
Alessandro Specchi
VEDUTA DEL PORTO TRATTA DA UN’ACQUAFORTE DI G. B. PIRANESI (1703/1705)

Roma, palazzo Doria
Gabriele Valvassori
VEDUTA DELL’INGRESSO CON PARTE DELLA FACCIATA SU VIA DEL CORSO (1730/1735)

Il Rococò, abbiamo detto, nasce a Versailles, Parigi, alla corte del Re Sole; il Barocco nasce a Roma, nella città dei papi; la Francia è uno stato laico, lo Stato della Chiesa è uno stato cattolico. Conclusione: il Rococò a Roma è tutt’altra cosa che a Parigi, e per estensione è diverso da quello di tutte le altre città influenzate dal modello culturale transalpino, o comunque laico. Vediamo in che cosa consiste questa diversità facendoci una passeggiata per le vie della Roma settecentesca.
Nella mente degli architetti urbanisti barocchi la Città Eterna deve essere un fitto tessuto di abitazioni ed esercizi commerciali irrorato da strade e stradine in cui all’improvviso si aprono piazze adornate da solenni edifici monumentali, episodi scenografici da lasciare senza fiato. Ebbene, uno di questi episodi, unico nel suo genere, il porto di Ripetta, è stato per sempre cancellato. Motivo? costruire gli argini per far fronte ai rovinosi straripamenti del Tevere, che di tanto in tanto si verificano causando numerose vittime e problemi all’intera città.
Il porto di Ripetta sorge sulla riva destra del Tevere, a metà strada fra la porta del Popolo e San Pietro. Il suo autore è Alessandro Specchi (1688-1729), ideatore anche della scalinata di piazza di Spagna. Il porto è fatto per essere visto sia dalla strada che dal fiume: nel Settecento il Tevere è una trafficatissima via d’acqua. La sua immagine risulta mobile in virtù dell’ampio andamento degli elementi architettonici che lo costituiscono. I principali sono una grande, distesa rampa scalinata, che si adagia sulla banchina con una fitta serie di gradini, disposti a seguire un disegno mistilineo, fondato su un andamento ora rettilineo, ora concavo, ora convesso, e un terrazzo a forma di esedra che si erge al centro della gradinata. Si tratta di un’architettura aperta, immersa direttamente nell’aria e nella luce, in un rapporto con l’ambiente che non è più quello di contrapposizione fra spazio naturale e spazio culturale, ma, al contrario, quello di interpretazione e dialogo fra l’uno e l’altro. L’intervento dello Specchi non piega la natura, la educa, non la costringe ad assumere forme che ne condizionano lo sviluppo, l’aiuta a crescere meglio, con ordine: l’architetto è come il contadino che taglia i rami infruttiferi per liberare quelli che danno frutti, raddrizza tronchi che crescono storti, pota siepi per irrobustirle.
Sempre lo stesso Specchi fonda nel palazzo che fu de Carolis al Corso, realizzato fra il 1714 e il 1724, la tipologia del prospetto lungo e piatto, mosso solo dal ritmo dei timpani delle finestre. Anche in questo caso Alessandro si rivela inventore di successo. Il Valvassori (1683-1761) nella facciata del palazzo Doria, sempre su via del Corso, da della tipologia dello Specchi un’interpretazione più pittorica, facendo del prospetto dell’edificio una lunga superficie agitata da lievi, ma fitti risalti.
Le intuizioni dell’architetto del porto vengono sperimentate anche negli edifici sacri come nella chiesa della Maddalena, dietro al Pantheon, dal Sardi (1680 c. – 1753), e in Santa Croce in Gerusalemme, dal Passalacqua (?-1748) e dal Gregorini (1700-1777).

Roma, piazza di Spagna
Francesco de Sanctis
SCALINATA DI TRINITÀ DEI MONTI (1723/1726)

La soluzione urbanistica escogitata dallo Specchi per il molo di Ripetta (il raccordo fra due vie, la via del porto e il fiume) fa scuola e viene ripresa per essere applicata e sviluppata in situazioni simili. Lo stesso Specchi ci riprova nel nodo viario di piazza di Spagna. In questo specifico caso si tratta di raccordare la via del Babbuino con la via Sistina per andare dritti dritti a Santa Maria Maggiore. Ma l’autore del porto non va oltre il progetto; la morte lo coglie all’improvviso all’età di 41 anni. L’esecuzione dell’opera spetta ad un altro architetto, Francesco de Sanctis (1693-1740).
Il de Sanctis non si limita a realizzare un programma prestabilito, ma interviene sull’assetto generale fino a dare all’intero complesso quell’aspetto definitivo che tanta ammirazione procura ancora oggi.
Anche per l’architettura urbana vale il principio della complicazione formale. La scalinata di piazza di Spagna, la più bella del mondo, riprende, complicandola notevolmente, quella del porto di Ripetta. Il fine è sempre lo stesso: qualificare architettonicamente un fatto naturale. Come? Non cancellandolo, ma definendolo formalmente: ad esempio sistemando un pendio con un mobile gioco di scale. La funzionalità si sostituisce così alla monumentalità, il fine civile al fine ideologico.

Roma, Fontana di Trevi
Nicola Salvi
VEDUTA DEL COMPLESSO (1732/1762)

Roma, piazza Sant’Ignazio
Filippo Raguzzini
VEDUTA DEL COMPLESSO (1727/1728)

Singolare ma oltremodo interessante la coincidenza di due sistemazioni urbane fra le più stuzzicanti della città: la fontana di Trevi e piazza Sant’Ignazio. Nell’una e nell’altra impresa si tratta di completare una piazza fornendola della parte mancante. Solo che nella Fontana la parte mancante è il prospetto monumentale che ha il compito di chiudere l’anello di case che formano la piazza antistante; in Sant’Ignazio, al contrario, il prospetto monumentale c’è, è la Facciata della chiesa, manca il coronamento di case che chiude il discorso. In tutte e due i casi la soluzione è una trovata scenografica altamente suggestiva.
Sempre al Raguzzini si deve un piccolo gioiello di architettura civile: il vecchio ospedale di San Gallicano. È opera del 1725, dall’aspetto confortante tanto per i degenti che per gli operatori: uno splendido esempio di come la funzione pratica si può volgere naturalmente ad una soluzione esteticamente piacevole.

Roma, basilica di San Giovanni in Laterano
Alessandro Galilei
FACCIATA (1736)

A bloccare la tendenza all’interpretazione della città in senso civile e moderno arriva Clemente XII (1730-1740). Clemente vuole ridare a Roma il volto severo e monumentale dell’epoca tardo manierista. Chiama per questo Alessandro Galilei (1691–1737), fiorentino, nipote del più celebre Galileo (1564-1642). Palladiano, il Galilei non riesce a rendere compatibile il Palladio con la Città Eterna. La causa non è tuttavia da ricercare nella mancanza di acqua a Roma, bensì nella errata interpretazione del carattere monumentale del Barocco romano, che è pittoresco e non geometrico. Sue sono le facciate della cinquecentesca San Giovanni dei Fiorentini e San Giovanni in Laterano. La prima richiama le facciate tardo cinquecentesche romane, la seconda si rifà alle articolazioni monumentali palladiane. Nell’uno e nell’altro caso difetta il rapporto col contesto.

Roma, basilica di Santa Maria Maggiore
Ferdinando Fuga
FACCIATA (1741/1743)

Roma, palazzo della Consulta
Ferdinando Fuga
FACCIATA (iniziato nel 1732)

Non fa lo stesso errore del collega Ferdinando Fuga (1699-1782), suo concittadino. Nel 1741, a cinque anni di distanza dalla realizzazione della facciata di San Giovanni, il Fuga completa i lavori di ammodernamento dei vecchi edifici sacri romani. Anche il Fuga ha una formazione tardo manierista, ma la sua razionalità non la applica ad un substrato culturale estraneo a quello della città, come fa il Galilei, bensì tiene conto dell’humus locale. Risultato? Una razionalizzazione del pittoricismo barocco: si tratta senz’altro dei primi sentori del clima che sta volgendo verso il nuovo pensiero illuminista. Questo nuovo clima si configura nella facciata di Santa Maria Maggiore con l’inserimento nella compatta fasciatura esterna di un episodio pittorico fatto di profonde aperture oscure intervallate a nitide superfici delicatamente mosse.
Che la soluzione del Fuga non è solo un espediente tecnico ma l’espressione di una scelta poetica lo dimostra il fatto che nel momento in cui si cimenta in opere pubbliche, come nel caso della facciata del palazzo della Consulta, l’architetto si dimostra ben deciso ad attuare soluzioni rococò, ma si dimostra altrettanto deciso a contenerne l’esuberanza.

Roma, chiesa di Santa Maria dell’Orazione e Morte
Ferdinando Fuga
ESTERNO (iniziata nel 1732)

Roma, villa Albani
Carlo Marchionni
FACCIATA ESTERNA (post 1747)

Il carattere critico del classicismo del Fuga si esplicita meglio in una piccola costruzione quale la chiesetta di Santa Maria dell’Orazione e Morte. Nella pianta si accosta al Borromini nel disporre l’ellisse con l’asse maggiore perpendicolare alla facciata, ma poi se ne distacca quando decide di neutralizzarne l’effetto di compressione con la soluzione berniniana delle cappelle laterali messa in atto nel Sant’Andrea al Quirinale. Per risolvere il prospetto si rivolge al Rainaldi (1611–1691) e alla sua Santa Maria in Campitelli; ma l’espansione spaziale di questi viene ricondensata in una struttura ristretta e appiattita in funzione di una più chiara leggibilità degli elementi architettonici.
Sulla stessa linea del Fuga è Carlo Marchionni (1702-1786), autore della bella villa Albani.

Roma, palazzo Braschi
Pompeo Batoni
RITRATTO DI JOHN STAPLES (1773)
Olio su tela, altezza mt. 2,49 – larghezza mt. 1,75

Roma, palazzo del Quirinale, Coffee House
Giovanni Paolo Pannini
PIAZZA DEL QUIRINALE (prima metà del XVIII sec.)
Olio su tela, altezza mt. 2,70 – larghezza mt. 2,54

In campo pittorico a Roma, tranne qualche eccezione, domina l’accademia, sintonizzata sul professionismo serio ma stagnante del Maratta (1625– 1713). Le sole alternative sono rappresentate dal giordanesco Sebastiano Conca (1680 c. – 1764), dal veneto Francesco Trevisani (1656-1746), un marattesco che da sul patetico, dal simpatizzante illuminista Pier Leone Ghezzi (1674-1755), dal realista Antonio Amorosi (1660-1738) e da Marco Benefial (1684-1764) il cui realismo religioso si contrappone tanto all’oratoria sacra del Maratta quanto al sentimentalismo pietistico del Trevisani. Si distinguono fra i pochi interpreti del rinnovamento Giovanni Paolo Pannini (1691 c. – 1765) e Pompeo Batoni.
Giovanni Paolo Pannini è un artista impegnato sul fronte della pittura di paesaggio, un fronte molto importante poiché banco di prova della sperimentazione illuminista. Fa vedute di Roma ma non può essere considerato un vedutista; perché? Innanzi tutto perché i suoi tagli non sono casuali, bensì studiati apposta per mettere in risalto i monumenti romani, quindi perché per lui la prospettiva non è uno strumento per organizzare l’immagine pittorica, ma uno strumento per amplificare ed esaltare il soggetto rappresentato. Dunque non già vedutista, ma ritrattista di città, è il termine giusto per lui.
Pompeo Batoni è fra i primi pittori romani (nel senso che lavorano a Roma e non che sono nati a Roma) a prendere le distanze dal Rococò. Per il lucchese l’arte è manifestazione di un ideale estetico. Questo ideale estetico consiste nella bella pittura e la bella pittura è quella che risulta dall’esame critico della cultura pittorica del tempo. Dipingere è per lui come costruire un edificio: vuol dire mettere insieme, armonizzandole, le varie parti strutturali di un’opera. Queste parti strutturali nel suo caso sono i mezzi espressivi della pittura: il disegno, la luce, il colore. Quando il disegno definisce, il chiaroscuro da corpo e il colore tono all’immagine, senza che l’un mezzo danneggi l’altro, allora si può dire che si è realizzato un buon dipinto. Naturalmente anche la pittura ha come tutte le altre arti, e l’architettura in particolare, le sue regole. Ma per essere creativi in presenza di regole non bisogna applicarle pedissequamente, bensì vagliarle, esaminarle criticamente, correggendole e migliorandole laddove necessario.
Siamo ormai lontani dai tempi in cui all’arte si chiedeva di mostrare la struttura del mondo. Per il Batoni l’arte è un lavoro che assolve a determinate richieste di mercato e compito dell’artista è quello di soddisfarle fornendo un prodotto della più alta qualità possibile. È una visione dell’arte meramente tecnica e commerciale, ma che rispecchia in pieno lo spirito dell’epoca fondato sull’idea illuminista di un’attività specialistica considerabile come servizio sociale e che ormai prelude alla svolta neoclassica, ovvero all’epoca moderna.

NAPOLI ROCOCÒ

Napoli, palazzo Serra di Cassano
Ferdinando Sanfelice
SCALONE INTERNO E CORTILE (1725 c.)

Napoli, Montecalvario
Domenico Antonio Vaccaro
INTERNO DELLA CHIESA DELLA CONCEZIONE (prima metà del XVIII sec.)

La Napoli spagnola era una città poco internazionalizzata; col passaggio sotto il regno delle Due Sicilie diventa una capitale europea. A promuoverne il profilo internazionale subentra la scoperta strepitosa dei resti di Pompei ed Ercolano, che attira intellettuali e studiosi da tutta Europa. Gli architetti più interessanti della prima metà del Settecento sono Ferdinando Sanfelice (1675-1748) e Domenico Antonio Vaccaro (1681-1750), due personaggi molto diversi tra loro. Il primo è un nobile autodidatta che si diletta di architettura; il secondo è un professionista, figlio d’arte; l’architettura per il primo è disinteressata speculazione intellettuale, mentre per il secondo è mestiere. Il Sanfelice progetta il palazzo di famiglia inventando soluzioni appaganti, soprattutto nel modo di raccordare architettonicamente lo spazio interno, privato, con quello urbano, pubblico. L’ingresso per lui diventa un modo per modulare attraverso la contiguità del vano scala e dell’atrio la luce uniforme e diffusa dell’esterno con quella modulata e soffusa dell’interno. E così facendo distrugge l’idea di facciata come organismo autonomo, sipario che preannuncia l’interno senza svelarlo.
Domenico Antonio Vaccaro opera invece in maniera del tutto diversa. Concepisce l’architettura come effetti di luce briosa e colorata, per causare i quali non esita a servirsi di materiali riflettenti tipo maioliche o assorbenti tipo stucchi. Al contrario del Sanfelice, che vuole fare del linguaggio architettonico napoletano un linguaggio europeo, il Vaccaro vuole fare del codice costruttivo partenopeo un linguaggio dialettale, ma non per questo incolto e grezzo, anzi, intende dimostrare che il rococò campano è molto più che una lingua di corte, è la lingua di un’intera città.

Napoli, albergo dei poveri
Ferdinando Fuga
(iniziato nel 1752)

Napoli, i Granili
Ferdinando Fuga
(iniziati nel 1779)

Nel 1752 inizia l’esperienza napoletana del Fuga. Il suo primo atto è porre fine allo scontro interno fra il Sanflice e il Vaccaro impostando il lavoro di progettazione non da un punto di vista linguistico, ma funzionale, fondato sulla risposta dell’architettura alle esigenze concrete di una grande città in trasformazione.
È nello spirito di praticità sociale la dislocazione degli spazi nell’albergo dei poveri, un gigantesco edificio con cinque cortili interni, quadrati, una chiesa esagonale, un anello di dormitori direttamente collegato alla chiesa da sei bracci a raggiera, e una facciata interminabile di 354 mt. di larghezza; una muraglia uniforme, bucherellata da un’infinità di finestre, mossa solamente dalle tre arcate dell’ingresso centrale e dal lievissimo aggetto delle lesene.
Ancora più piatto, esclusivamente funzionale è l’edificio progettato per i Granili (i granai pubblici): è il 1779, sul palcoscenico della storia fa la sua prima apparizione un edificio industriale.
L’opera napoletana del Fuga si completa con la costruzione di ville e chiese, soggetti facilmente esposti alle tentazioni del pittoricismo barocco. Ma Ferdinando non si lascia tentare e mantiene fede alla sua impostazione di misura, eleganza e austerità tardo manierista.

Caserta, reggia borbonica
Luigi Vanvitelli
VEDUTA D’INSIEME (iniziata nel 1751)

Se l’arte del Settecento tecnica deve essere e allora che tecnica sia, ma al servizio della ragione, non della fantasia. Nel 1751 Carlo III di Borbone (1734-1759) decide che è arrivato il momento di possedere una reggia che possa rivaleggiare con quelle delle altre corti europee, così incarica Luigi Van Wittel (1700-1773), figlio del vedutista fiammingo Gaspar, cognome poi italianizzato in Vanvitelli, di progettare e costruire la reggia di Caserta.
La reggia di Caserta non è semplicemente la residenza del re, è, come Versailles, la sede decentrata del governo, con tutti i suoi uffici, con tutta la sua amministrazione, con tutta la sua corte: tutto il mondo che conta in un palazzo. Memore di Stupinigi, il Vanvitelli depone su uno spiazzo immenso un altrettanto immenso blocco a forma di parallelepipedo. Davanti lo fa precedere da una sterminata corte, la città nuova, attestata su una strada rettilinea che si perde in direzione della costa, e da una smisurata piazza disegnata da tutta una serie di edifici posti a formare due esedre. Dietro, a proseguimento della spina del nuovo borgo, apre il viale che organizza e disperde lo scenografico parco nei boschi che scendono dai monti ad incontrare i viali e i giardini reali. Fra questi due orizzonti, urbano e naturale, pone trasversalmente, parallelamente all’Appia, a chiusura della doppia prospettiva, l’immensa bastionata del fronte strada della reggia.
La sterminata facciata, liscia, di mattoni a vista, è messa in lieve vibrazione dalle colonne scanalate situate nelle sporgenze ad angolo e dal bugnato squadrato dell’alto basamento semirustico. La compattezza del blocco è rotta dalla presenza di quattro cortili, o meglio piazze interne, di fondamentale importanza per l’illuminazione dei vari bracci. Fulcro dell’intero impianto è il disimpegno centrale, un ampio vano cilindrico dalla doppia funzione. Da qui si diramano le prospettive delle gallerie interne e si irradia la luce proveniente dai cortili. Questa è resa mobile dalla collocazione agli spigoli dell’imboccatura dei corridoi di grandi colonne lisce aggruppate.
L’uso della prospettiva in senso funzionale distributivo e la tendenza ad inondare di luce gli spazi interni collocano il Vanvitelli fra gli architetti rococò, ma la riconversione dell’apparato decorativo a pochi elementi espressivi di qualità strutturali lo proiettano già nel futuro ormai prossimo dell’architettura neoclassica.
Vanvitelli non si limita alla reggia, fa anche chiese. Nell’Annunziata di Napoli si ispira allo schema tardo manierista del Gesù di Roma, ma il rapporto fra vano centrale e cappelle laterali da origine ad una luminosità più chiara e diffusa in funzione di una più facile lettura dello spazio interno.

Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte
Francesco Solimena detto l’Abate Ciccio
MASSACRO DEI GIUSTINIANI A SCIÒ (prima metà del Settecento)
Olio su tela, altezza mt. 2,75 – larghezza mt. 1,63

A Napoli nel Settecento domina la pittura d’effetto. Francesco Solimena, detto l’Abate Ciccio, è l’erede di Luca Giordano (1632 c. – 1705). È pittore settecentesco, ma la sua pittura sembra riprendersi l’intenso contrasto luministico del Seicento abbandonato da Luca.
La sua tela col Massacro dei Giustiniani a Sciò brulica di figure intorno a setti di architetture seminascoste. Come nel Veronese, il punto di vista è basso per proiettare in primo piano la maggior porzione di cielo possibile. La composizione è estremamente movimentata e si da alla percezione di un’ipotetica platea, come una scena di teatro. Fin qui però niente di nuovo, quando si passa all’analisi dei mezzi espressivi invece si nota come il Solimena li tenga ben distinti e separati. Il suo intento evidentemente non è quello di mescolarli, quanto piuttosto di orchestrarli in modo da ottenere l’effetto voluto: un grande, vistoso, mobile gioco di luci ed ombre che cade addosso allo spettatore. Ecco allora che per raggiungere un tale obiettivo l’architettura agisce come un palcoscenico meticolosamente studiato nei minimi particolari per dare appoggio ai gruppi di figure; l’illuminazione sembra quella di un riflettore di scena, manovrato per amplificare il movimento burrascoso delle masse; il colore è tessuto sulla contrapposizione dei timbri ora più brillanti ora più profondi; le figure, con la loro ampia gestualità, non mostrano individui, bensì forme retoriche. Ma questo è teatro non è pittura! Comunque sia quella del Solimena rimane una rappresentazione che non vuole far pensare quanto piuttosto provocare forti emozioni visive.
Proseguono sulla stessa strada del Solimena, Francesco de Mura (1696-1782), Giacomo del Po (1652-1726) e Corrado Giaquinto (1703-1765), ma il repertorio inizia a battere la fiacca. Si cerca di sostenerlo studiando composizioni più fluenti e nuove gamme di colore.

Venezia, Galleria dell’Accademia
Gaspare Traversi
IL FERITO (1755/1756)
Olio su tela, altezza mt. 1,00 – larghezza mt. 1,27

Anche a Napoli, accanto alla pittura d’effetto, si va sviluppando una pittura di ripresa. Gaspare Traversi (documentato dal 1749 al 1776), artista per molti versi sconosciuto, è un pittore di pale d’altare, che però si cimenta anche in opere da cavalletto. Questi lavori sembrano a prima vista quadri di genere, in realtà sono qualcosa di più. Il ferito non è solo un dipinto spiritoso, è la manifestazione di una diversa condotta, quella di chi vuole attenersi ai dati della percezione visiva evitando di inquinarli con l’aggiunta di contenuti estranei agli elementi linguistici strettamente inerenti alla resa ottica. Insomma il Traversi vuole una pittura come tecnica di ripresa oggettiva, ma l’oggettività non la intende come dato concettuale. Cioè il pittore non trasforma l’esperienza ottica in concetto, si limita a precisarla con la sua tecnica. Questa operazione non contribuisce ad allargare la conoscenza della realtà naturale, si ferma alla conoscenza del procedimento pittorico: il che da all’immagine artistica un peso maggiore di quella fenomenica. In ciò e per ciò nel Traversi sono operanti gli stessi principi che informano una ormai sempre più numerosa schiera di artisti che, indipendentemente dalla propria nazionalità, fanno del realismo percettivo la nuova fede poetica del secolo.


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