I D’ESTE PROMOTORI DEL RINASCIMENTO IN EMILIA
DESCRIZIONE DEL CICLO PITTORICO NEL SALONE DEI MESI DEL PALAZZO SCHIFANOIA
COSMÈ TURA: PROFILO ARTISTICO
POETICA TURIANA
ALTRE MAESTRANZE ALL’OPERA NEL SALONE DEI MESI DEL PALAZZO SCHIFANOIA
PROFILO ARTISTICO DI FRANCESCO DEL COSSA
PROFILO ARTISTICO DI ERCOLE DE ROBERTI
LA SITUAZIONE ARTISTICA IN EMILIA DOPO FERRARA: PROFILO ARTISTICO DI COSMÈ TURA DOPO L’ESPERIENZA ESTENSE
PROFILO ARTISTICO DI FRANCESCO DEL COSSA DOPO L’ESPERIENZA ESTENSE
PROFILO ARTISTICO DI ERCOLE DE ROBERTI DOPO L’ESPERIENZA ESTENSE
LA SCULTURA EMILIANA
LORENZO COSTA E FRANCESCO FRANCIA: LA FINE DEL QUATTROCENTO EMILIANO
BIAGIO ROSSETTI: L’ARCHITETTURA IN EMILIA
LA PITTURA CINQUECENTESCA A PARMA: IL CORREGGIO
IMMAGINAZIONE E FANTASIA: I POLI OPPOSTI DELL’ARTE EMILIANA CINQUECENTESCA


I D’ESTE PROMOTORI DEL RINASCIMENTO IN EMILIA

Ferrara, centro storico
VEDUTA URBANA

Ferrara, palazzo Schifanoia
ESTERNO (1465/1470)

Nel quadro generale della cultura figurativa rinascimentale gli emiliani ricoprono un ruolo determinante per quanto concerne il discorso particolare che riguarda il rapporto fra arte e immaginazione.
Se l’arte è linguaggio figurato come vanno sostenendo a Roma, e non rappresentazione del Creato, la sua natura strumentale è molto simile a quella del linguaggio verbale. Il che vuol dire che si possono utilizzare le figure come si utilizzano le parole, per dar forma ad un contenuto. Gli emiliani non rinnovano i vocaboli del linguaggio rinascimentale ma la loro nuova concezione dell’arte incide comunque profondamente sulle sue strutture. La nuova concezione che nasce in Emilia riguarda l’attività dell’artista che qui viene equiparata a quella del poeta, o meglio, e qui sta la vera novità, si riconosce all’artista la stessa libertà che si riconosce al poeta e cioè quella di dare libero sfogo alla propria immaginazione.
Orazio (65–8 a.C.) diceva “Ut pictura poësis”, che altro non significa se non quanto appena asserito, ovvero riconoscere all’artista la stessa libertà concessa al poeta di ricorrere all’immaginazione per creare le sue opere. In altri termini le immagini visive sono identiche alle immagini suscitate dalle parole, l’unica differenza sta nel mezzo di comunicazione. Questo fatto che vede il pictoribus atque poetis sarà il principio su cui i teorici del Seicento fonderanno il Barocco.
Con gli emiliani dunque l’arte diventa un’attività strettamente legata all’immaginazione. I primi sintomi di questa tendenza si hanno nell’opera del Tura (1430 c. – 1495) per cui l’arte è una materia che ha una profonda affinità con la magia alchemica.
Il rinnovamento artistico in Emilia si avvia con l’opera di Jacopo della Quercia (1374-1438), che dal 1425 al 1438 lavora alle formelle del portale maggiore della basilica di San Petronio, a Bologna. Ma non è da Bologna che parte il rinnovamento culturale emiliano, bensì da Ferrara, dalla illuminata politica culturale di Lionello (1407-1450) e Borso d’Este (1413-1471). In effetti benché Jacopo della Quercia rappresenti un inconfutabile punto di svolta resta comunque un fenomeno isolato per tutta la prima metà del Quattrocento bolognese. Basti pensare che il completamento della basilica avvenuto dopo la sua morte viene eseguito ancora in stile gotico.
Tuttavia è a Ferrara che s’incrociano i due umanesimi, l’italiano e il fiammingo. Il primo nelle persone di Leon Battista Alberti (1404-1472), presente in città durante l’investitura di Borso d’Este, di Mantegna (1430 c. – 1506), d’istanza a Mantova, non molto lontana da Ferrara, di cui si sente fortissima l’influenza, e di Piero della Francesca (1410 c. – 1492), passato di qui qualche anno prima; il secondo nella persona di Rogier Van der Weiden (1399 c. – 1464). Tutte queste componenti avrebbero potuto benissimo dar origine ad uno stile eclettico e invece hanno dato origine ad uno stile tutto particolare.
Le “delizie estensi” sono una rete di residenze suburbane ed extraurbane riservate prevalentemente allo svago e alla vita mondana, ma all’occasione fungono anche da sedi di ricevimenti ufficiali e centri di emanazione del potere signorile. Sono formate da tre palazzi: Il palazzo di Schifanoia, il palazzo di Belfiore e il palazzo di Belriguardo. La “delizia” di Schifanoia è ubicata lungo la via che dal cuore medievale di Ferrara porta verso le mura di cinta del lato sud-est. Il palazzo si articola in due corpi addossati. Quello più piccolo rappresenta il nucleo primitivo e risale all’epoca di Alberto V d’Este (1347-1393) che lo fece erigere nel 1385; quello più grande rappresenta l’ampliamento avviato nel 1391. In origine l’ampliamento era costituito da un edificio ad un solo piano. Venne ristrutturato per volontà di Lionello d’Este tra il 1441 e il 1450 che pensò di farlo decorare dal Pisanello. Nel 1465 Borso d’Este lo fa innalzare di un piano dall’architetto Pietro Benvenuto degli Ordini (documentato dal 1448–1483) e in questo secondo piano fa ricavare un salone di rappresentanza dalle proporzioni ragguardevoli, il futuro salone dei mesi in cui farà affrescare il ciclo omonimo. Nel 1493 Ercole I (1431–1505) fa togliere la merlatura e la fa rimpiazzare da una copertura a tetto di tipo civile, trasformando così per sempre l’aspetto della “delizia” di Schifanoia da palazzo medievale in palazzo rinascimentale. Artefice della nuova e definitiva sistemazione è Biagio Rossetti (1447-1516).
L’anno 1470 è ormai prossimo, Borso d’Este, signore di Ferrara, si prepara a ricevere l’investitura ufficiale a duca per mano di papa Paolo II (1464-1471); fervono i preparativi per il grande evento. Per dare una cornice adeguata all’avvenimento commissiona la decorazione del salone di rappresentanza del palazzo: vuole un salone degno di rivaleggiare con quelli dei Gonzaga, degli Sforza e dei Montefeltro; dovrà essere il più grande affresco a tema profano del Quattrocento. Il salone misura mt. 24×11 ed è alto mt. 7,50, la superficie complessiva è di mq. 525. Tanto per farsene un’idea meno astratta la camera degli sposi del Mantegna è meno della metà.
La stesura del programma iconografico l’affida a Pellegrino Prisciani (1435 c. – 1518), professore dello studio ferrarese, bibliotecario di corte e astrologo. Questi elabora un palinsesto in cui si compenetra cultura esoterica, ancora molto di moda nel ferrarese, e cultura rinascimentale, entrambe innestate su un nucleo narrativo storico mitologico che ha lo scopo di magnificare gli effetti del buon governo di Borso. Per la traduzione in pittura del programma fa chiamare tutte le migliori botteghe attive di Ferrara; a sovrintendere ai lavori chiama Cosmè Tura. La scelta di affidare a così tanti frescanti la decorazione della sala risponde a ragioni di tipo logistico: il tempo per eseguire i lavori è di solo un anno.

DESCRIZIONE DEL CICLO PITTORICO NEL SALONE DEI MESI DEL PALAZZO SCHIFANOIA

Ferrara , palazzo Schifanoia, salone dei mesi
INTERNO (1469/1470)

L’intero ciclo è pensato come un grande calendario figurato. Si parte dalla parete nord con i mesi di gennaio e febbraio, si passa poi alla parete ovest con i mesi di marzo, aprile e maggio, quindi ci si sposta sulla parete sud dove compaiono i mesi di giugno, luglio, agosto e settembre, si conclude con la parete est con i mesi di ottobre, novembre e dicembre. Gli affreschi meglio conservati sono quelli sulle pareti nord ed est. Ogni parete è doppiamente suddivisa in tre partiture, sia in senso verticale che in senso orizzontale. Le partiture verticali sono rimarcate da finte lesene che formano un loggiato illusorio, mentre quelle orizzontali sono differenziate semplicemente da una diversa tonalità cromatica e struttura dello spazio. Vanno sommati poi nel computo sette riquadri di collegamento e di ripresa del tema generale più l’affresco del camino. I comparti orizzontali sono organizzati in modo che man mano che si sale dal primo al terzo si passa dalla dimensione terrena a quella divina passando per la dimensione astrale. Partendo dal basso verso l’alto le fasce sono ripartite nel modo seguente: nel registro inferiore ci sono riportati i possedimenti della casata, sia di città che di campagna, con tanto di manovalanza al lavoro e nobiltà in amabile conversazione. Scopo? Offrire un’immagine edificante di sé e del proprio governo, a garanzia della pace e la stabilità nei domini estensi. In questa fascia il duca è ritratto più volte, come gli imperatori romani nei monumenti, in varie situazioni: mentre concede udienza ai sudditi, oppure mentre s’intrattiene con i dignitari o gli ambasciatori di altre città, in attesa di partire per una battuta di caccia. Nel registro mediano sono rappresentati i vari segni zodiacali, affiancati dai “decani”, divinità derivate dai calendari greco- orientali. Il registro superiore ospita scene in cui appaiono divinità pagane tratte dalla mitologia greca con personaggi dediti a svolgere attività favorite dagli influssi celesti. Il senso globale dell’intera composizione è l’apoteosi di Borso d’Este fra mitologia e astrologia. I vari brani che compongono le diverse fasce si prestano ad una lettura in senso verticale. Ad esempio il fatto che sopra al mese di gennaio e febbraio ci siano Giunone e Nettuno, mentre sotto ci siano scene di famiglia (sotto la prima) e un torneo (sotto il secondo), sta a significare che quei mesi sovrintendono a quelle specifiche attività che godono della tutela delle divinità pagane Giunone e Nettuno.

COSMÈ TURA: PROFILO ARTISTICO

Londra, National Gallery
Cosmè Tura
PRIMAVERA (1460 c.)
Altezza cm. 116 – larghezza cm. 75

Cosmè Tura è il pittore di corte degli estensi. È un artista che ha già avuto modo di mettere in mostra le proprie qualità, ma soprattutto è colui che meglio di chiunque altro può interpretare il sottile gioco dialettico fra cultura esoterica, ancora medievale, e cultura storicistica, rinascimentale. Il primo incontro fra Cosmè Tura e Borso risale al 1460, quando l’artista è chiamato a lavorare per lo studiolo dell’estense nella “delizia” di Belfiore. Per l’occasione Cosmè realizza la tavola con la primavera (o secondo un’altra interpretazione la Musa Erato), che rappresenta l’enunciazione della sua poetica. All’epoca dell’incarico l’ambiente ferrarese è dominato dagli storicismi di Leon Battista Alberti e di Andrea Mantegna, dall’universalismo di Piero della Francesca e dal lenticolarismo espressivo di Rogier Van der Weyden. Ma la molteplicità delle fonti non dà origine a soluzioni eterogenee. Cosmè Tura invece di cercare compromessi cerca lo stimolo nei reciproci contrasti per superarli e giungere a livelli superiori. In questa operazione trova la sua guida spirituale in Donatello. La materia diventa luce attraverso il tormento del modellato; l’antico è un mondo misterioso, al limite dell’esoterico, a cui si arriva solo attraverso la magia della tecnica. La magia tecnica di Cosimo Tura ha il suo modello ideale nell’alchimia. Fine dell’alchimia è la trasmutazione della materia; fine dell’arte pittorica di Cosimo Tura è trasmutare la materia in luce, perciò imita tutte le sostanze fino all’estenuazione per raffinarle, decantarle, fino a farne spazio che, per lui, non è la più assoluta delle forme, ma la più immateriale delle immagini. In questo Cosmè Tura si pone come artista collegato alla cultura tardo-gotica, ancora largamente presente nell’ambiente ferrarese degli estensi. Il trono è rappresentato secondo le regole della prospettiva; è fatto di marmi policromi, a cui sono applicate decorazioni dorate a forma di grossi delfini, secondo la stilizzazione tipica dell’epoca, con denti aguzzi e pinne attorcigliate a formare complessi giochi lineari, sottolineati dalla luce incidente che fa sembrare tutto metallico o brillante come gemme; altri elementi richiamano il mondo marino: la conchiglia dietro la testa della musa, i coralli e le perle. Il panneggio appare rigido e scultoreo, come se fosse sbalzato nella pietra; a tutto ciò va aggiunta l’attenzione al dettaglio ricercato quale le damascature delle maniche della veste. La luce chiara e la prospettiva discendono da Piero della Francesca, la cura lenticolare dei dettagli, evidente soprattutto negli accenti brillanti delle gemme e delle perle, discende ovviamente dai fiamminghi; ma è tutto portato all’eccesso, tanto da trascendere nell’innaturale. Qui ogni cosa sembra cesellata, ogni cosa sembra fatta di materiale prezioso, bronzo, marmo pregiato, cristallo, perfino il cielo è fatto di lapislazzuli e la carne d’avorio; le figure non sono illuminate, sono luminose. Dunque è chiaro che per Cosmè Tura dipingere non è un modo per rappresentare il Creato ma per trasformare la materia terrena in una materia più preziosa, i corpi opachi in corpi luminescenti, la fisicità in spiritualità. Quindi anche lui come tutti ricerca l’essenza della natura, solo che, al contrario dei suoi colleghi rivoluzionari, non la individua nelle forme universali, ma nell’equivalenza fra preziosità materiale e elezione spirituale, e questo è ancora motivo tipicamente tardo-gotico, bizantino addirittura. Motivo tardo-gotico è anche l’attenzione riservata ai profili. Ma la linea turiana assume una funzione particolare: il suo andamento tormentato non si giustifica col fatto che deve contenere e consolidare le forme, ma col fatto che deve sollecitare il colore a trasformarsi in energia luminosa.

POETICA TURIANA

Cosmè Tura è coetaneo di Andrea Mantegna ma in lui opera ancora il motivo gotico della trascendenza espressiva. Tuttavia non risulta un reazionario, in quanto se ne serve per esprimere l’ansia dell’uomo che tende alla perfezione divina. Le sue deformazioni, le sue tinte traslucide, sono mezzi visivi utilizzati spontaneamente per commuovere l’osservatore, farlo partecipe del dramma umano, del cammino verso la salvezza, solo che lui questo cammino lo percorre da pittore. Con il Tura dunque il dipingere diventa una condotta operativa avente come ultimo scopo non già la conoscenza del Creato, bensì la salvezza eterna, e questa conclusione lo pone già al centro di una nuova concezione dell’arte, una concezione che avrà grandi sviluppi nel secolo successivo, il Cinquecento.
Non diversamente da un Perugino (1450-1523) o da un Signorelli (1445 c. – 1523) anche per il Tura fine dell’arte è elevare l’anima a livelli superiori; ma al contrario di costoro egli non pensa di ottenere ciò con la dimostrazione delle verità religiose per mezzo di spiegazioni di tipo razionale, bensì cercando attraverso il processo creativo di stimolare il processo elettivo dell’anima: insomma l’arte è un qualcosa che ha più a che fare con l’etica che con l’estetica; è un modello di comportamento più che un modello di bellezza; è il tragitto terreno che l’anima deve compiere per riscattarsi dalla sua condizione materiale. In pittura questo tragitto si traduce con la raffinazione della materia, dalla più vile e opaca alla più nobile e trasparente.

ALTRE MAESTRANZE ALL’OPERA NEL SALONE DEI MESI DEL PALAZZO SCHIFANOIA

Probabilmente Cosmè Tura si limita a stendere il progetto d’insieme nella sua articolazione spaziale e nella composizione generale, quindi si preoccupa di predisporre i cartoni da affidare alle singole botteghe.
Le maestranze all’opera nel cantiere ferrarese sono Francesco del Cossa (1436 – 1478) ed Ercole de Roberti (1451 c. – 1496), sicuri, poi i non meglio identificati “Maestro degli occhi spalancati”, “Maestro degli occhi ammiccanti”, “Maestro dell’agosto” e “Maestro di Vesta”. Al primo si deve tutta la parete ovest, con i mesi di marzo, aprile e maggio; al secondo si deve la parete dedicata al mese di settembre; agli altri si devono in sequenza: il mese di giugno, il mese di luglio, il mese di agosto e il mese di dicembre. L’elenco non è finito, ce ne sono altri a cui dare ancora un nome, come ad esempio l’autore del brano raffigurante un gruppo di cavalieri. Comunque sia il numero elevato di personalità presenti nel salone rende bene l’idea di quanto esso sia importante e di quanto ricca di nuovi talenti sia la città degli estensi. Naturalmente non tutti i maestri impegnati nell’impresa hanno la stessa levatura artistica: ad un debole “Maestro dagli occhi spalancati” fanno riscontro all’estremità opposta della scala qualitativa un Francesco del Cossa e un Ercole de Roberti.
Vista la loro rilevanza andiamo dunque a vedere più nel dettaglio il profilo di queste due personalità emergenti. Cominciamo da Francesco del Cossa.

PROFILO ARTISTICO DI FRANCESCO DEL COSSA

Francesco del Cossa è di circa 6 anni più giovane del Tura. A lui si deve l’adattamento dei caratteri del linguaggio cortese come il ritmo fiabesco e l’amore per gli apparati decorativi, nonché quelli di stampo fiammingo, tipo l’osservazione ossessiva della realtà nei suoi minimi dettagli, alle strutture tipiche del linguaggio rinascimentale. Anche in lui come nel Tura la molteplicità delle fonti non da origine ad un linguaggio eclettico, tutt’altro. La struttura spaziale rigorosamente pierfrancescana non è d’impedimento allo svolgimento lineare e coloristico, da miniatura, del discorso figurativo, al contrario, lo amplificano in scala tridimensionale. Ne risulta così un nuovo tipo di bellezza cortese, non più gotica ma rinascimentale.

PROFILO ARTISTICO DI ERCOLE DE ROBERTI

Ercole de Roberti è il più giovane dei maestri impegnati nel palazzo. All’epoca dei lavori è sui 18 anni; suo è il mese di settembre. Nonostante l’età risulta già in possesso di un linguaggio maturo; il suo stile è inconfondibile, caratterizzato com’è da un frenetico, incessante movimento. In lui il linguaggio tormentato del Tura si fa aspro ed esasperato. Le sue figure sembrano forgiate nella pietra dura; l’energia che le anima le fa muovere a scatti, come se fossero percorse da scosse elettriche, e la luce che le accende pare generata dalla stessa forza che le infonde vita.
È un discepolo del Cossa, ma fin dall’inizio sembra molto più vicino al Tura che al suo maestro. Sposa l’idea di questi di un’arte come modello di comportamento, non di perfezione formale; ma in lui il fine religioso non si identifica nell’ascesi bensì nella comunione spirituale con la natura. Tuttavia questa componente poetica gli si chiarirà più tardi, con la maturità. All’inizio la pittura di Ercole sembra spiritata; tutto è moto, un moto che passa da una figura all’altra, si trasmette in ogni direzione, animando tutto lo spazio.

LA SITUAZIONE ARTISTICA IN EMILIA DOPO FERRARA: PROFILO ARTISTICO DI COSMÈ TURA DOPO L’ESPERIENZA ESTENSE

Ferrara, Museo della cattedrale
Cosmè Tura
ANNUNCIAZIONE (ANTE INTERNE DELL’ORGANO DEL DUOMO DI FERRARA (1469)
Altezza mt. 3,49 – larghezza mt. 1,52

Modena, Galleria Estense
Cosmè Tura
SANT’ANTONIO DA PADOVA (1484)
Altezza cm. 178 – larghezza cm. 80

Londra, National Gallery
Cosmè Tura
POLITTICO ROVERELLA, MADONNA COL BAMBINO IN TRONO (1474)
Altezza mt. 2,39 – larghezza mt. 1,02

Parigi, Museo del Louvre
Cosmè Tura
POLITTICO ROVERELLA, PIETÀ (1474)
Altezza mt. 1,32 – larghezza mt. 2,67

Terminato di lavorare a Schifanoia la squadra si disperde. Dopo l’esperienza estense la poetica del Tura non cambia, tuttavia non resta estranea ai problemi che vengono emergendo in campo figurativo. A partire dall’Annunciazione del duomo di Ferrara all’innaturalità delle figure si aggiunge un paesaggio fantastico, surreale, il ché contribuisce in modo decisivo a trasformare l’arte turiana in pittura visionaria. Questa si fa ancora più eclatante nel Sant’Antonio da Padova, opera matura, dove il metafisico si estende dal paesaggio al santo in estasi. Nel Polittico Roverella eseguito intorno al 1474 per il vescovo di Ferrara, si pone il problema della monumentalità della figura umana posto da Andrea Mantenga.
Nello scomparto centrale con la Madonna in trono e angeli cantori le figure sono disposte su una serie ravvicinatissima di piani verticali che si inseriscono quasi a forza nello spazio prospettico formato dall’arcata che si apre alle spalle della sacra rappresentazione: la prospettiva dunque non serve per mettere le cose nello spazio, ma, al contrario, per spingerle in primo piano.
Nella Pietà della lunetta in più c’è da registrare un fatto nuovo. L’impostazione complessiva è sempre la stessa, figure compresse sul quadro prospettico di una volta a botte, però il modellato si fa più aspro, più tormentato, ma questa volta non per impedire al colore di adagiarsi, bensì per comunicare il tormento dell’anima attraverso il tormento della materia. Anche la luce sembra cambiata, le figure non sembrano più luminose ma illuminate da una fonte esterna e radente: è evidente che a questa data Cosmè ha presente le opere del Cossa e del prodigioso de Roberti. A siffatta innaturalità si aggiunge, a partire dall’Annunciazione del duomo di Ferrara, un paesaggio fantastico, surreale, il ché contribuisce in modo decisivo a trasformare l’arte turiana in pittura visionaria.

PROFILO ARTISTICO DI FRANCESCO DEL COSSA DOPO L’ESPERIENZA ESTENSE

Dresda, Gemäldegalerie
Francesco del Cossa
ANNUNCIAZIONE (1462/1468 c.)
Altezza mt. 1,31 – larghezza mt. 1,13

Contrariato dallo scarso compenso accordatogli dal duca Francesco (la cosa è documentata da una lettera con le lamentele dell’artista datata 25 marzo 1470 ritrovata da Adolfo Venturi (1856–1941) alla fine dell’Ottocento) il Cossa lascia Ferrara e si trasferisce a Bologna. A Bologna era già stato dal 1462 al 1468. A quell’epoca risale, ma la cosa non è certa, un’annunciazione che oggi si trova a Dresda. Qui sono più che mai chiare le matrici culturali del giovane artista. Lo spazio è chiaramente quello di Piero della Francesca; la monumentalità della figura umana e la sua storicità sono quelle del Mantenga. Di suo c’è il senso della materia: tutto sembra fatto dello stesso materiale: marmo. Causa? Il suo modo di dare la luce, secondo un modello che non è quello di Piero, la divisione dell’unità in parti illuminate e parti in ombra, ma secondo la divisione in luce riflessa e luce assorbita. Questo modo di trattare il colore rende le figure del Cossa come se fossero prima scolpite e poi tirate a lucido.
Del 1473 è il Polittico Griffoni. Nei santi il richiamo al Mantenga si fa esplicito. Le figure appaiono eroiche e monumentali per via del loro rapporto con le dimensioni dei pilastri che si ergono alle loro spalle. La doppia illuminazione, interna e esterna, le fa sembrare statue di cristallo esposte in aperta campagna.

Bologna, Pinacoteca Nazionale
Francesco del Cossa
MADONNA TRA I SANTI GIOVANNI EVANGELISTA E PETRONIO (1474)
Tempera su tela, Altezza mt. 2,27 – larghezza mt. 1,66

La Madonna tra i santi Giovanni evangelista e Petronio è l’ultima opera nota di Francesco del Cossa. La dipinge negli stessi anni in cui Cosmè Tura realizza il Polittico Roverella. La data è significativa perché segna il punto di svolta della sua poetica: per il momento non si conoscono quali sviluppi abbia avuto questo cambiamento d’indirizzo, Francesco morirà 4 anni dopo. Ora l’artista non cerca più l’ideale nel bello naturale, bensì nella forza morale; e la forza morale spesso contrasta con il bello naturale. Non più dunque il modello classico, ma il modello ellenistico si pone come obiettivo ultimo all’operare dell’artista. Tuttavia va notato che al nuovo archetipo il Cossa arriva sempre per la via dell’elezione spirituale tecnica, imitativa degli stadi materiali e non per via di una maggiore accettazione del dato reale. La svolta si spiega innanzi tutto con la destinazione dell’opera: il Foro dei mercanti di Bologna, ambiente frequentato dalla borghesia cittadina, solida e disincantata; quindi col fatto che dopo la Camera degli sposi l’equilibrio a lungo cercato fra Piero della Francesca e Mantenga si va sbilanciando in favore del secondo.

PROFILO ARTISTICO DI ERCOLE DE ROBERTI DOPO L’ESPERIENZA ESTENSE

Berlino, Museo dell’imperatore Friedrich III, oggi Museo Bode
Ercole de Roberti
PALA DI SAN LAZZARO (1475 c.)
distrutta nel 1945

Milano, Pinacoteca di Brera
Ercole de Roberti
PALA DI SANTA MARIA IN PORTO FUORI (1479/1481)
Olio su tavola, Altezza mt. 3,23 – larghezza mt. 2,40

Quando il Cossa lascia Ferrara per trasferirsi a Bologna Ercole de Roberti lo segue. Qui lo aiuta nella realizzazione del Polittico Griffoni: di suo pugno è la predella con i Miracoli di san Vincenzo Ferrer.
Il dipinto è un fregio continuo formato da una serie di animatissimi episodi ospitati fra architetture di ogni tipo, la cui funzione è quella di estendere il movimento che corre lungo il piano frontale a tutto lo spazio della rappresentazione. Infatti la loro disposizione crea vuoti continuamente variabili, nonché angolature, visuali sempre diverse.
La collaborazione fra il Cossa ed Ercole prosegue felicemente fino a quando la morte del primo la viene bruscamente a interrompere. Nella Pala di San Lazzaro, fatta ai mezzi, si vede bene come lo stile dei due artisti si stia dirigendo sempre più decisamente verso il Mantegna. Nella Pala di Santa Maria in Porto Fuori, eseguita dopo la morte del suo maestro, fa capire come Ercole si stia avvicinando a rapidi passi al Giambellino (1430 c. – 1516). Della prima pala in questa resta solo l’impianto generale: un serto architettonico spuntato per miracolo nell’aperta campagna ravennate. L’elemento discriminante dell’opera è la luce, la quale non è più immedesimata alle cose, ma riempie lo spazio, offuscando gli oggetti lontani e sfumando quelli vicini. Altro elemento discriminante sono i personaggi: Madonna e santi non sono più sculture translucide ma esseri umani di una moralità superiore, uniti non già da leggi universali, ma perché sentono la necessità di stare insieme in quel determinato luogo, in quella determinata ora.
A qualche anno dalla morte del Cossa a Ercole più che della problematica universalistica impiantata in tutta Italia da Piero della Francesca interessa fornire la sua personale interpretazione alla concezione dell’arte del Tura come esperienza affine a quella religiosa. La differente interpretazione della religiosità nell’arte del Tura e in quella di Ercole de Roberti appare evidente se si raffrontano due opere di soggetto simile: il Sant’Antonio da Padova, del primo, e il San Giovanni Battista, del secondo, eseguite rispettivamente nel 1484 e nel 1480 circa.
Il santo del Tura è una figura imponente, occupa quasi tutto lo spazio del dipinto, lasciando intravedere solo uno spicchio di paesaggio marino bagnato dalla luce incandescente di un tramonto colto proprio nel momento dell’imminente eclissamento del sole; la tunica è corrugata da un improbabile numero di pieghe il cui scopo è chiaramente quello di dare il senso del tormento interiore del santo; il colore, impostato su toni corruschi, conferisce alla scena un aspetto surreale, il santo si fa avanti come in una visione medianica, la luce che lo colpisce alle spalle gli sottrae volume facendone una figura diafana e ascetica. Il santo di Ercole è invece una figura filiforme, appena in grado di schermare la luce che si irradia dal fondo; non è estraneo all’ambiente in cui si trova, è parte di esso, è come lui asciutto e spigoloso, non lo relega alle spalle, vive al suo interno.

LA SCULTURA EMILIANA

Bologna, San Domenico
Niccolò dell’Arca
ARCA DI SAN DOMENICO (1467/1473)

Bologna, Santa Maria della Vita
Niccolò dell’Arca
PIETÀ (1485)

A Bologna, negli stessi anni in cui operano il Cossa e il de Roberti, è attivo un altro artista che, sebbene scultore e non pittore, si ricollega alle loro istanze ferraresi; non è ferrarese e neanche bolognese, ma pugliese: Niccolò dell’Arca.
Niccolò dell’Arca (1435 c. – 1494) è della stessa generazione del Mantenga, del Tura, del Crivelli (1430 c. – 1495 c.). È detto dell’Arca per via del fatto che fra il 1467 e il 1473 si occupa del completamento dell’arca d i San Domenico, sita nella chiesa omonima. A questa data è impegnato a risolvere in scultura il problema del momento: trovare un punto d’incontro fra umanesimo italiano e umanesimo fiammingo, più in particolare, almeno per quanto lo riguarda, fra l’universalismo di Piero della Francesca e il particolarismo delle Fiandre.
La sua cultura europea non si enuncia tutta in una volta ma si viene precisando in corso d’opera: lo si vede bene nelle statue di San Giovanni evangelista e Sant’Agricola. Nella prima, il naturalismo lenticolare di chiara matrice fiamminga con cui descrive i singoli frutti nei festoni e rende la qualità materica della tunica che avvolge il più giovane dei discepoli di Gesù, sposata alle masse cariche di tensione espressiva alla Claus Sluter (1340-1405 c.), lasciano pochi dubbi sulla sua formazione d’origine, maturata ovviamente al sole del Sud, feudo culturale di Fiandre e Borgogna. Nella seconda invece è gia la svolta: abbandona il linguaggio di masse contorte dello Sluter per aderire a quello di masse luminose di Francesco del Cossa. Questo fa capire che per Niccolò è arrivato il momento di trovare anche in scultura la soluzione al dilemma pittorico di spazio universale e ambiente percettivo. Ma la cosa non va oltre l’arca. Uscito dal cantiere di San Domenico è affascinato dal rapporto che lega religione e sentimento nelle immagini del de Roberti. Prova ne è il San Giovanni Battista dell’Escorial di Madrid, parente stretto di quello dei Musei di stato di Berlino del de Roberti.
Ma il meglio della sua produzione, l’opera per la quale viene universalmente ricordato, arriva nel 1485, o giù di lì, scultura corale posta nella chiesetta di Santa Maria della Vita. Si tratta della Pietà, un gruppo di statue in terracotta eccezionalmente espressive, tirate con un’abilità che rasenta il virtuosismo, caratterizzate dalla violenta esternazione dell’unanime condizione psicologica di straziante partecipazione ad un evento luttuoso. Per questa sua opera Niccolò prende spunto dall’artigianato locale, ma se ne serve per metter su uno spettacolo strappa lacrime. Per esser sicuro di colpire i cuori dei fedeli esaspera i gesti con la contorsione dei corpi e lo svolazzare delle vesti, devasta i volti spalancando bocche e strizzando occhi: sembra quasi di sentirle urlare. Cosicché il movimento forsennato del giovane de Roberti riappare qui nel maturo Niccolò dell’Arca. La fonte di questo movimento è la stessa: benché le vesti sembrino mosse dal vento, non c’è nessun vento a muoverle; ciò che le muove è una forza interiore, la stessa che fa precipitare i corpi sul cadavere di Cristo.
In Emilia i grupponi monumentali in terracotta diventano una tradizione. Dello stesso anno (forse prima, forse dopo, la datazione è controversa) è l’altra Pietà, molto simile ma più contenuta nell’esternazione del dolore, che si trova nella chiesa di San Giovanni Battista a Modena, del modenese Guido Mazzoni (1450-1518). Il prosperare delle tematiche particolarmente coinvolgenti ci rende edotti sul fatto che alla fine del secolo l’arte emiliana è chiaramente indirizzata verso la produzione di immagini il cui scopo è quello di suscitare forti emozioni per la partecipazione più intensa dei fedeli al dramma umano di Gesù Cristo, cosa questa che avrà un notevole peso nella fase di riscossa controriformistica della Chiesa.

LORENZO COSTA E FRANCESCO FRANCIA: LA FINE DEL QUATTROCENTO EMILIANO

Parigi, Museo del Louvre
Lorenzo Costa
ISABELLA D’ESTE NEL REGNO DI ARMONIA (1506)
Tempera e olio su tela, Altezza mt. 1,64 – San Giacomo Maggiore, Bologna

Bologna, San Giacomo Maggiore
Francesco Francia
MADONNA E SANTI (1494)
Tavola, altezza mt. 1,80 – larghezza mt. 1,70 – larghezza mt. 1,97

Il Quattrocento emiliano si va chiudendo con l’ormai consolidato dominio bolognese sull’intera regione. Portabandiera di questa egemonia petroniana sono Lorenzo Costa (1460-1535), ferrarese, allievo del de Roberti, e Francesco Raibolini detto il Francia (1447 c. – 1517), bolognese. È a quest’ultimo che si deve la trasformazione della pittura religiosa del Tura e del de Roberti in pratica devozionale, e la fondazione di una fortunata tradizione che avrà un ruolo estremamente importante per il rilancio dell’arte religiosa nella seconda metà del Cinquecento.

BIAGIO ROSSETTI: L’ARCHITETTURA IN EMILIA

Ferrara, Addizione Erculea
Biagio Rossetti
VEDUTA (1492/1510)

Ferrara, palazzo dei Diamanti
Biagio Rossetti
VEDUTA D’ANGOLO (1492)

In architettura il primo passo verso il rinnovamento avviene in campo urbanistico. A compierlo è il duca Ercole I affidando a Biagio Rossetti il piano d’ampliamento di Ferrara. L’architetto con un progetto che ha dell’incredibile per la sua vicinanza allo spirito della progettazione urbanistica moderna invece di prospettare una città ideale si mette a studiare la situazione urbana di fatto per poterne trarre poi le soluzioni più adatte. Nasce in questo modo la cosiddetta Addizione Erculea.
L’Addizione Erculea consiste innanzi tutto in un tracciato viario che si collega ma non riprende la vecchia disposizione medievale. Questo fa da direttrice prospettica allo sviluppo spaziale della città. Ma si badi bene, e qui sta la grande novità, non segue degli schemi astratti, per cui le vie non sono altrettante visuali prospettiche che regolano gli isolati in modo geometricamente ordinato, bensì sono delle direttrici che danno origine a degli episodi architettonici improvvisi. È la medesima prospettiva messa in opera nei dipinti dei maestri ferraresi, una prospettiva che non ordina e omogeneizza, ma che da corso a rapidi passaggi di grandezze, contratture spaziali e inaspettate dilatazioni, scarti, deviazioni, vedute plurime. Lo stesso Rossetti s’incarica di definire nel concreto il nuovo spazio urbano costruendo personalmente alcuni edifici, il più importante dei quali è il palazzo dei Diamanti, il suo capolavoro.
Il palazzo dei Diamanti sembra un comune edificio rinascimentale, ma non lo è. La sua singolarità consiste proprio nel fatto che si trova in una trama urbana come quella ferrarese progettata dal Rossetti. Infatti nella Ferrara del Rossetti può accadere, dati i criteri informatori del progetto ispirati ad un’idea di prospettiva non condizionante, che qualche palazzo non si trovi con la facciata in perpendicolo rispetto alla via principale, ma questa gli passi di fianco o lo releghi ad un angolo. E allora in tal caso accade che, come nel palazzo dei Diamanti, a far da nota dominante al posto della facciata subentra lo spigolo, il quale per l’occasione si arma di doppie paraste e di un inedito balcone ad angolo.
La disposizione di spigolo comporta un problema d’illuminazione. Provenendo dai lati o di fronte, la luce renderà sempre visibile una facciata in ombra. Ebbene il Rossetti non cerca di aggirare il problema con una fonte suppletiva, ma di far di un presunto difetto virtù. Invece di dissimulare il prospetto in ombra lo valorizza attraverso il trattamento della parete esterna con un bugnato a forma piramidale. Risultato? Una diversa intensità nella vibrazione luminosa, come avviene nelle formazioni cristalline, ad esempio nei diamanti.

LA PITTURA CINQUECENTESCA A PARMA: IL CORREGGIO

Parma, convento di San Paolo
Correggio
CAMERINO DELLA BADESSA (1519)
Affresco

Il Correggio (1489 c. – 1534) è il primo artista a imboccare la strada di un’arte che non si qualifica più come conoscenza dell’essere ma come immaginazione. Stando alla storia dovrebbe essere un manierista, ma resta molto difficile inserire il Correggio nel novero degli artisti manieristi. Il suo modo naturale, senza problemi di aderire al linguaggio dei grandi maestri cinquecenteschi lo esclude dalla corrente manierista, intellettuale e problematica. Il linguaggio rinascimentale, fonte di dubbi e tormenti per gli artificiosi sperimentatori di nuove strade, diventa, nelle mani del Correggio, mezzo per esprimere tutto il proprio amore per la vita, per la natura, per l’uomo. Con lui l’immagine artistica non si deve più necessariamente porre il problema del rapporto con la realtà (quesito che invece assilla i colleghi manieristi); per lui il rapporto ora è tra immagine artistica e immaginazione. Il suo assunto è semplice: la mancanza di certezze assolute non rende inutile la ricerca della verità, ma non si può parlare di verità in campo metafisico se la vera essenza in sé è inconoscibile. Quindi non rimane altra soluzione che aver fede nel pensare vero quel che si pensa essere vero facendo affidamento sull’immaginazione: l’immaginazione è il nocciolo della questione.
L’immaginazione non è la fantasia, è la facoltà che ci permette di pensare all’aspetto fisico di una realtà in assenza della realtà stessa. E la cosa non interessa solo il campo speculativo: si pensi ad esempio a scienze come l’archeologia o come la paleontologia che hanno come oggetto di ricerca una realtà di cui non è possibile farne un’esperienza diretta e completa. Quindi non è assolutamente detto che seguire l’immaginazione significa perdersi necessariamente nell’arbitrio. Nel Correggio il tema stimola l’immaginazione e questa trapassa dal vero al verosimile in modo istintivo. Ciò è possibile poiché siccome con l’immaginazione si può pensare ragionevolmente all’esistenza dell’universalità ecco che la visualizzazione dell’immaginato si risolve in un processo naturale, senza drammi.
Il tema del dibattere col Correggio dunque passa dalla realtà all’immaginazione: è un conoscere o un esistere? Passerà quasi un secolo prima che gli artisti inizieranno a confrontarsi su questo argomento. Lo faranno nel Seicento per primi, a Roma, il Bernini (1598-1680) e il Borromini (1599-1667). Per il Correggio il problema non esiste: è un conoscere che si fa per via del sentimento.
Antonio Allegri nasce a Correggio, cittadina in provincia di Reggio Emilia. Si forma in un ambiente dominato da pittori come Lorenzo Costa e Francesco Francia, ma il suo vero padre spirituale è il Mantenga mantovano. In modo particolare lo attrae il suo mitologismo allegorico. Lo attrae tanto perché parla di un mondo le cui immagini hanno perduto ogni riferimento certo con la realtà. Questa interpretazione dell’Antico lo induce a pensare alle forme classiche non già come ad una precettistica quanto piuttosto ad un repertorio di vocaboli da usare con la massima libertà. Oltre alle forme antiche anche le tematiche che riguardano da vicino il mondo pagano gli fanno particolarmente gola.
Nel 1519, quando Antonio è sui trent’anni, viene incaricato di decorare a fresco il camerino della Badessa nel convento di San Paolo a Parma. In effetti non si tratta di uno stanzino per il ritiro spirituale, ma di un luogo di ritrovo, un salotto per le signore intellettuali appartenenti alla nobiltà parmense dell’epoca.
Il suo intervento capolavoro sta tutto nella volta. La vera struttura, fatta in muratura, viene completamente trasformata in una struttura virtuale fatta di tralicci dipinti, organizzati a formare un padiglione sopra cui si distende una fitta verzura, alla quale, a mo’ di decorazione, sono agganciate ghirlande di frutti. Il padiglione si appoggia su un fregio timpanato con una serie continua di lunette di finto marmo che accolgono finte statuette. Sopra le lunette, nella parte bassa del tralicciato, si aprono degli oblò, dei medaglioni da cui si affacciano dei puttini sullo sfondo del cielo. Dunque la materia reale si trasforma in architettura dipinta e da questa passa al tralicciato che è una via di mezzo fra natura e artificio umano, quindi alla natura stessa nelle immagini dei festoni, della verzura e dei puttini. Dal reale al virtuale il passaggio è senza strappi, l’uno confluisce nell’altro. Non c’è niente di più immaginario che intravedere bambini giocare su un tetto fatto di vimini e ricoperto di fronde, eppure lo si “sente” talmente naturale da recepirlo come fosse una realtà vera.
Il motivo allegorico è ricorrente, allude al rapporto fra civiltà e natura, ma è solo un pretesto per dar libero sfogo al gioco dello scambio fra verità e finzione, realtà e virtualità, natura e arte. Ad esempio che altro significato può avere la pergola se non architettura che si trasforma in natura, e le statuine delle lunette se non scultura che prende vita?

Parma, cupola della chiesa di San Giovanni Evangelista
Correggio
VISIONE DI SAN GIOVANNI A PATMOS (1520/1523)
Affresco

Nel camerino della Badessa lo scambio tra realtà e immagine, verità e immaginazione è tutto rimandato ad un unico comun denominatore: il mezzo pittorico. Nella cupola della chiesa di San Giovanni Evangelista affrescata dal 1520 al 1523 Antonio si fa più esplicito: è ovvio, la Camera della Badessa è un salotto per poche signore colte, la cupola si rivolge alla massa.
Qui l’architettura è reale, ma l’imposta non fa da base ai costoloni, apre un vuoto popolato di santi seduti su nembi ovattati che si dispiegano come un diaframma per lasciar intravedere il corpo di Gesù Cristo mentre si libra senza peso nel bel mezzo di un vortice di luce dorata.
In quest’opera appare evidente come il Correggio faccia ricorso alla forza plastica di Michelangelo (1475-1564) per enfatizzare i moti attraverso il dinamismo delle masse, ma pensa anche a Tiziano (1488 c. – 1576) quando ricerca l’impatto immediato, l’effetto sicuro sul pubblico. Però non si tratta come nel Vecellio di fissazione di un’emozione visiva, bensì di creazione di una suggestione. La differenza sta nel fatto che Tiziano vuole riproporre la reazione emotiva determinata dall’impressione visiva; Correggio vuole suscitare esattamente il tipo di reazione che si propone. Nella provocazione dell’effetto suggestivo è importante la conoscenza delle cause: e Correggio rende sempre chiaro il motivo che genera la visione, la prospettiva aerea di Leonardo (1452-1619).

Parma, cupola del duomo
Correggio
ASSUNZIONE DELLA VERGINE (1522/1530, ma secondo altri 1526/1528)
Affresco

L’esperimento effettuato nella chiesa di San Giovanni Evangelista ha un immediato successo, tanto che ancor prima di essere portato a termine (ma secondo altri non è andata così) ad Antonio viene affidato l’incarico di decorare l’intradosso della cupola del duomo di Parma con l’Assunzione della Vergine.
In questa opera il Correggio non fa altro che riprendere e complicare il congegno compositivo sperimentato nella cupola precedente. Qui l’architettura lascia completamente il posto alla pittura. Il raccordo fra la struttura emisferica della copertura e il tamburo ottagono viene dissimulato dalla presenza di grandi figure in scorcio. Anche se apparentemente lontani anni luce è sempre il naturale sviluppo della volta della Camera della Badessa: li c’erano poche figure e molta architettura; qui c’è poca architettura e molte figure.
Nella cupola dell’Assunta i corpi dei personaggi fanno tutt’uno con i volumi avvolgenti delle nuvole: ne scaturisce uno stravolgente effetto di grande massa in movimento.

Vienna, Museo di storia dell’arte
Correggio
GANIMEDE (1530)
Olio su tela, altezza cm. 163 – larghezza cm. 71

Il Correggio non ha affrescato solo cupole, ma ha all’attivo pure un’ingente quantità di pale d’altare, nonché quadri con soggetti mitologici. In questa vasta produzione “minore” il fine è lo stesso delle opere “maggiori”: dimostrare l’origine naturale del sentimento attraverso il filo diretto che collega nella figurazione l’immagine reale all’immagine immaginata. Questo fine nelle opere da cavalletto si configura allo stesso modo che negli affreschi. Nelle cupole, per questioni legate ad un problema di statica visiva, i movimenti delle figure sono amplificati al massimo attraverso la stesura esagerata dei piani cromatici, cosa che provoca forti scorci con evidente sconvolgimento delle proporzioni e delle immagini liturgiche tradizionali. La modalità non cambia nei quadri da cavalletto, cosicché le figure si agitano ugualmente come se fossero percorse da moti viscerali di commozione e affetto.
Tra i suoi più celeberrimi quadri spiccano per la raffinata preziosità delle gamme cromatiche la cosiddetta serie con gli amori di Giove, dipinti negli anni immediatamente successivi a quelli delle cupole.
Analizziamone uno a caso come Ganimede, dipinto dopo il 1530. In questo quadro si vede bene come per Correggio la pittura rimane un apparato per attirare l’attenzione dello spettatore e costringerlo ad entrare nel dipinto. Il meccanismo funziona facendo affiorare le figure principali al piano limite della tela fino a farne uscire illusoriamente alcune parti, quindi subito dopo far scivolare lo sguardo in orizzonti lontanissimi. Contribuisce a questa forma di invito visivo l’atmosfera che riempie lo spazio virtuale e il colore ammiccante con i suoi toni avorio, rosa e grigio-azzurro. Ma la parte da leone in questa operazione la fanno forse i sentimenti che si leggono nei volti dei personaggi e che oscillano prevalentemente fra il voluttuoso e il sensuale. Il tipo di amore espresso nella serie pittorica è un sentimento che nasce dall’interno e passando per le cose terrene va a finire nelle braccia di Dio: altro motivo che contrassegnerà il barocco berniniano.
Queste composizioni emanano un fortissimo senso di palpabile morbidezza, elemento espressivo ricavato senza dubbio dall’interpretazione di Leonardo. Il suo interesse per l’opera del maestro toscano non si riduce all’evidente lezione sullo sfumato, ma va ben più a fondo, alla sua concezione sull’origine naturale dei sentimenti. Ma il Correggio non è uno scienziato. Per lui, religioso, la natura umana è di origine spirituale: questo spiega la fiducia nel principio per cui l’uomo è naturalmente portato all’amore verso Dio. Tradotto in immagini suona più o meno così: partendo dalle sembianze empiriche si passa gradualmente al bello. È una mimesi, non c’è dubbio, ma la scelta delle parti da mettere insieme per formare il bello non avviene ad opera della ragione bensì ad opera del sentimento. Questa scelta operata dal sentimento si configura esattamente in figure dinamiche, composizioni asimmetriche e ritmate, non già in figure statiche, composizioni simmetriche equilibrate; forme in continua metamorfosi e non già immutabili, ricerca di un qualche particolare che ravvivi l’insieme rendendolo unica e irripetibile combinazione di momenti elettivi, tipo la tenerezza di uno sguardo, la morbidezza di un gesto, un riflesso di luce sui capelli, un velo d’ombra sul volto, il brillare di un riflesso su una piega, non già perfetta volumetria geometrica. Insomma, un bello che è già in tutto e per tutto romantico e che Stendhal (1783-1842), molto più tardi, lo eleverà a categoria da contrapporre all’altro tipo di bello, il bello classico.

IMMAGINAZIONE E FANTASIA: I POLI OPPOSTI DELL’ARTE EMILIANA CINQUECENTESCA

Fontanellato, Parma, rocca Sanvitale
Parmigianino
CAMERINO DELLA STUFETTA (prima del 1524)
Affresco

Quando si parla di geni incompresi non si pensa mai al Correggio. Eppure è stato lui che ha anticipato di ben settant’anni l’avvento del Barocco. Neanche il suo più grande discepolo, il Parmigianino (1503-1540), lo ha compreso. Ma d’altronde non lo poteva comprendere. Lui, Francesco Mazzola, questo è il vero nome del Parmigianino, è uno spirito sofistico, irrequieto, complicato; gli manca tanto l’impulso sentimentale quanto quello religioso. Considera la pittura un’attività intellettuale e dunque si comporta da perfetto manierista, cosa che fa tornare indietro la spinta innovatrice di Antonio: il giovane allievo inchioda sulla moda del momento il maestro già proiettato nel futuro. La passione per l’alchimia, passione che lo porterà ad abbandonare la pittura ancor prima della precoce scomparsa, darà alle sue opere un certo non so che di arcaicistico, un’impronta particolare che condurrà l’artista a riallacciarsi al rigorismo del Tura e degli altri ferraresi del Quattrocento.
Le domande che tutti gli storici dell’arte si pongono riguardo alla particolare posizione assunta dai due artisti emiliani nel quadro dell’evoluzione del linguaggio artistico del periodo sono da un lato il come mai se il Correggio è stato un precorritore del Barocco si è dovuto attendere 70 anni prima di veder sorgere il nuovo indirizzo artistico, dall’altro come mai il Parmigianino, in questo momento, non risulta anzitempo invecchiato, ma perfettamente in linea con la sua epoca. La risposta più accreditata risulta quella per cui fino a quando l’arte emiliana non incontrerà quella veneta non si potrà impiantare la nuova poetica dell’immaginazione del Correggio sulla necessaria nuova poetica dell’arte come pura prassi dei pittori veneti. La qual cosa è premessa indispensabile per eliminare quel tanto di intellettualismo ancora presente in lui e che ne rende, come ne ha reso, interpretabile sempre in termini di manierismo la sua opera.
Tra Correggio e Parmigianino corrono solo 14 anni di differenza: pochi per costituire una generazione. Ma probabilmente il maggior ostacolo che si frappone fra allievo e maestro è proprio la precocità dell’allievo. A 19 anni infatti ha già l’incarico di affrescare il camerino della stufetta nel castello che i Sanvitale hanno a Fontanellato: sono gli stessi anni in cui Antonio sta sperimentando le grandi composizioni aeree nelle chiese di Parma. Benché la cameretta venga correntemente indicata col termine di “stufetta” è in realtà la stanza da bagno della contessa Paola Gonzaga (1504 c. – 1550), moglie del conte Gian Galeazzo Sanvitale (1496–1550), ma potrebbe essere stato anche uno studio privato o un luogo riservato alla meditazione. Si tratta di uno stanzino di circa 16 mq., con le pareti semplicemente intonacate, probabilmente coperte da arazzi in origine, sovrastato da una volta a botte con 14 lunette. Le lunette figurano come strutture autonome, come se non facessero parte integrante della volta, la quale risulta architettonicamente inesistente, dissimulata dalla pittura. Una libertà stilistica che però si scontra con la logica costruttiva.
Il soggetto degli affreschi, comunemente identificato con il mito di Diana e Atteone, è del tutto sfuggente, permeabile ad altre interpretazioni, tra cui quelle in chiave alchemica, dettata dal possibile utilizzo della cameretta a laboratorio alchemico del conte Gian Galeazzo Sanvitale, appassionato, come il Parmigianino, di pratiche esoteriche. Nella decorazione pittorica della volta basta una sola occhiata al soffitto per capire a quale modello si rifà Francesco in questo suo lavoro: il camerino della Badessa. Come ha fatto il suo maestro 3 anni prima simula nella volta un pergolato ricoperto di verzura, ma questo invece che riempire l’intero spazio s’interrompe a metà soffitto per far posto ad un ampio vuoto dal quale si affaccia un roseto. Al centro di questa vasta apertura, sul cielo azzurrissimo, è sospeso un tondo che incornicia uno specchio. Già la presenza di questo specchio sospeso al centro del cielo impedisce di procedere naturalmente dalla struttura reale a quella immaginaria, poi ci si mette anche l’effetto riflettente che rimanda verso il soffitto l’immagine dell’osservatore che si trova proiettato così nella virtualità dell’immagine dipinta. Un artificio, un intellettualismo, un preziosismo che complica il naturale passaggio dal reale all’immaginario: alla naturalità del suo maestro il Parmigianino contrappone la sua artificiosità. Se nel camerino della Badessa l’architettura dipinta si sostituisce a quella vera senza recare traumi visivi, qui, nella “stufetta”, l’architettura reale s’interrompe, si trasforma in altro.
Gli storici dell’arte spiegano la presenza di queste incongruenze con una scelta anti-correggesca da parte dell’artista, un modo per impedire di passare visivamente dalla struttura reale a quella immaginaria, un artificio, un intellettualismo, un preziosismo che ha lo scopo di interrompere la continuità fra architettura reale e dipinta. Essendo la pittura virtualità non è necessario che l’architettura dipinta segua la logica costruttiva di quella vera. Tra pittura ed architettura non c’è continuità ma contraddizione, e questa si deve vedere chiaramente: stiamo sulla stessa linea di Giulio Romano (1499 c. – 1546) nel Palazzo del Tè. È assurdo pretendere dall’architettura la costruzione di un edificio che crolla; con la pittura ciò è possibile. E allora cosa trattiene il pittore, creatore di realtà virtuali, dal farlo?

Milano, castello Sforzesco
Correggio
RITRATTO VIRILE (1525)
Olio su tela, altezza cm. 60 – larghezza cm. 43

Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte
Parmigianino
RITRATTO DI GALEAZZO SANVITALE (1524)
Olio su tavola, altezza cm. 107 – larghezza cm. 80

Il confronto tra allievo e maestro continua anche nel campo della ritrattistica. Per misurare la distanza abissale fra naturalismo correggesco e artificialità parmigianina è utile confrontare due ritratti dipinti probabilmente nello stesso periodo 1524/1525. Si tratta del Ritratto di Galeazzo Sanvitale, che si trova oggi al Museo di Capodimonte, e il Ritratto virile del Castello Sforzesco di Milano.
Nel ritratto del Sanvitale tutto è freddamente, lucidamente descritto e messo a fuoco. Il vuoto che si fa intorno al personaggio effigiato traspone l’immagine dal piano della natura a quello metafisico dell’arte. La pittura è fatta per rendere possibile l’impossibile: nel Sanvitale raggelare nel marmo e nel metallo dell’armatura il misterioso sguardo che si perde nel nulla del soggetto ritrattato. Al contrario quello del Correggio coglie il personaggio di sorpresa, immerso nella stessa brumosa atmosfera che avvolge la vegetazione che si distende alle sue spalle. Dell’ignoto signore ritrattato da Antonio sembra quasi di sentirne il respiro: niente di più lontano dal marmoreo ritratto di Francesco.

Washington, Galleria Nazionale d’Arte
Dosso Dossi
CIRCE (1520)
Olio su tela, altezza mt. 1,36 – larghezza poco più di mt. 1,00

Se l’arte manifesta l’immaginato può anche manifestare il fantasioso: infondo tra immaginazione e fantasia il passo è breve. Così all’arte-immaginazione del Correggio fa subito seguito l’arte-fantasia del Dosso. Immagine e fantasia benché molto simili non sono esattamente la stessa cosa. Di simile hanno che tutte e due sono il prodotto della stessa attività mentale, cioè quella che produce immagini in assenza dell’oggetto; di diverso hanno che l’immaginazione riproduce sempre una realtà data anche se relazionata in modo innaturale: tipo gli uomini seduti sulle nuvole; la fantasia proietta l’immagine di una realtà inesistente sul piano naturale: ad esempio un coniglio bianco macchiato di rosso. Per far nascere il Barocco deve accadere che la cultura emiliana incontri la cultura veneta. Il primo artista emiliano ad entrare in contatto con la pittura degli innovatori veneti è Dosso Dossi (1489 c. – 1542), probabile coetaneo del Correggio.
Fondamentale per il Dosso l’incontro con la pittura tonale del Tiziano e l’incontro con l’Orlando furioso dell’Ariosto (1474–1533). La fantasia non è semplicemente un mezzo, un gioco sottile; per l’Ariosto è un’attività degna di figurare fra le attività creatrici, anzi è molto più stimolante della sterile logica scolastica.
Il Dosso vede nel poema dell’Ariosto la realizzazione di una nuova concezione della poesia, e ciò gli basta per spingerlo a trasferire lo stesso principio nell’arte. L’analogia fra arte e poesia non l’ha certo scoperta lui: anche questo concetto lo trae dalla pittura veneta, e precisamente da Giorgione (1477 c. – 1510). Ma la novità rispetto alla concezione giorgionesca sta nel fatto che il pittore veneto quando pensa alla poesia pensa a Lucrezio (94–55 a.C. c.) e Virgilio (70-19 a.C.) e alla loro misteriosa comunione con la natura, il Dosso invece quando pensa alla poesia pensa a quella dell’Ariosto appunto, per il quale è la concreta attività attraverso cui si esplicita la fantasia. La pittura del Dosso assimilando i processi della lirica ariostesca non si distacca dalla logica che distingue i processi di aggregazione naturale dell’immagine, cosa questa che lo inserisce in un contesto linguistico prettamente antimanieristico. Mischiando però fantasia e realtà nell’idea che la pittura si deve qualificare apertamente e esplicitamente come artificio, immagine artificiale, distinta da quella naturale, si reinserisce nell’ambito del pensiero manierista.
Il ragionamento che lo fa giungere a questa conclusione è perfettamente logico. La distinzione che si fa fra immagini reali e immagini di fantasia nelle arti visive, arti che parlano esclusivamente attraverso le immagini, è una distinzione che ha un senso fintanto che si considera la realtà divisa in cose e apparenza delle cose. Allora in questo caso le immagini che proiettano oggetti concreti sono immagini reali, quelle che si formano in assenza di qualunque oggetto, nella nostra mente sono immagini di fantasia. Però tutte e due, sia quelle reali che quelle di fantasia, in quanto apparenza sono uguali. In arte anche la conoscenza avviene attraverso la percezione, ecco dunque l’importanza che ha per l’arte la percezione delle cose e non le cose stesse.
Considerare la fantasia come un’attività inferiore alla logica o alla stessa immaginazione è legittimo fin tanto che si ammette l’esistenza di due piani, uno reale e l’altro virtuale. Dal momento in cui si ammette che per gli occhi esistono solo immagini, e la cosiddetta realtà non è altro che una elaborazione particolare delle percezioni ottiche, allora vuol dire che la nostra cognizione dipende dalla struttura mentale, la stessa che agendo in vari modi, operando vari percorsi possibili, dà come risultato la cognizione così come l’immagine di fantasia. Da questo punto di vista dunque ogni rappresentazione può dirsi avere lo stesso valore. Perciò, concludendo, se le arti visive sono arti che si devono occupare di percetti non v’è ragione logica alcuna perché ci sia una gerarchia discriminatoria fra quelli che riflettono la realtà e quelli che riflettono la fantasia.
Forse il dipinto più noto del Dosso è quello intitolato Circe, del 1520. La prima cosa che viene in mente guardandolo è cosa potrebbe voler significare. Certo il contenuto non si può dire esplicito, anzi non è neppure detto che ce l’abbia un contenuto. Forse è semplicemente un saggio in cui l’autore ha sciolto la sua fantasia. A guardarlo bene ci si accorge che ci sono molte cose che messe insieme hanno senso solo per chi ne conosce il codice interpretativo. Basta osservare l’abbigliamento di Circe: in testa porta un turbante; indossa un corpetto che finisce con delle frange come quelle delle corazze romane o dei baldacchini; veste di seta e porta steso sulle ginocchia un tappeto. È seduta non si sa se su una sedia o una pietra, al centro di un cerchio magico, in aperta campagna con una tavola appoggiata su una gamba, con su delle figure geometriche. L’accompagna un cane dagli occhi, dalla bocca e dal naso umani; ci sono anche dei feticci, una corazza e un piccioncino, il tutto in un pingue paesaggio collinare.

Vienna, Museo di storia dell’arte
Dosso Dossi
GIOVE CHE DIPINGE FARFALLE (1530 c.)
Olio su tela, altezza mt. 1,11 – larghezza mt. 1,50

Neppure la tela che raffigura Giove mentre dipinge farfalle ha un contenuto esplicito. Non è chiaro per quale motivo Giove sta dipingendo farfalle e perché Mercurio sta dicendo ad una donna implorante di fare silenzio. Né si capisce perché invece di stare sul Monte Olimpo il signore degli déi è sceso nella campagna parmense, con un tempaccio che non promette niente di buono, e che tutto può far sperare di dipingere fuorché lepidotteri svolazzanti. Il fatto è che il significato di queste immagini sfugge, sono immagini ermetiche. I critici comunque tentano di dargli un senso. Ad esempio Circe è la maga che si diverte a confondere i comuni mortali trasformando gli esseri umani in maiali; Giove è invece molto probabilmente l’allegoria della pittura così come la vede il Dosso, creatrice di immagini silenti, bellissime e variopinte, ma dalla vita brevissima.