IMPORTANZA STORICA DEL REALISMO OTTOCENTESCO
I PRINCIPALI INTERPRETI DEL REALISMO OTTOCENTESCO
SUPERAMENTO CONTEMPORANEO DI NEOCLASSICO E ROMANTICO
CONSEGUENZE DEL REALISMO OTTOCENTESCO
CHIARIMENTI IN ORDINE AL TERMINE
IL REALISMO DI COURBET
LE RADICI DEL REALISMO COURBETIANO
LA NUOVA SFERA DELL’ARTE
ARTE COME ESPERIENZA ISTINTIVA E INCONTAMINATA
LA SPIRITUALITÀ REALISTA
CONSEGUENZE
RUOLO ETICO DELL’ARTE NEL REALISMO OTTOCENTESCO
ARTE E FOTOGRAFIA
LA RISOLUZIONE DI COURBET ALLA QUESTIONE TECNICA
LA RISOLUZIONE DI COURBET ALLA QUESTIONE DEL RAPPORTO FRA ARTE E INDUSTRIA
ANALISI DELL’OPERA DEMOISELLES SUR LA RIVE DE LA SEINE
FUNZIONE SOCIALE DEL REALISMO: DAUMIER
MILLET
LA SCUOLA DI BARBIZON
COROT


IMPORTANZA STORICA DEL REALISMO OTTOCENTESCO

Montpellier, Musée Fabre
Gustave Courbet
BONJOUR MONSIEUR COURBET (1854)
Conosciuto anche come LE RENCONTRE
Olio su tela, altezza mt. 1,29 – larghezza mt. 1,49

Il Realismo ottocentesco è un movimento di estrema importanza per la storia dell’arte. Con il suo avvento si esplicita il pensiero romantico e l’attività creativa smette definitivamente di guardare al passato per volgersi al presente. Dai principali aderenti a questa corrente provengono le prime risposte alle problematiche emergenti in seno al contesto socioculturale della nuova era tecnologica e industriale.
Il Realismo ottocentesco irrompe sulla scena artistica europea intorno alla metà del XIX secolo, in un momento particolarmente ricco di avvenimenti, di cui alcuni della massima importanza per il futuro assetto dell’intero emisfero boreale. Sul fronte economico incalza la rivoluzione industriale; in politica si passa dal regime reazionario orleanista ai moti insurrezionali del 1848, quindi alle misure repressive del 1852; sulla sponda del progresso tecnologico si hanno i nuovi mezzi di ripresa meccanica; infine, in campo culturale si assiste ad un considerevole aumento del peso della scienza e, per estensione, dell’influenza del positivismo nella vita spirituale dell’uomo: è infatti in questo momento che lo spirito scientifico, dopo un periodo d’eclissamento, torna ad “illuminare” le coscienze. Tuttavia per spiegare in modo soddisfacente la fioritura del Realismo ottocentesco non basta chiamare in causa il peso della scienza, la reazione al clima di figuratività coatta instaurato dalla borghesia antidemocratica, la nascita della fotografia e la diffusione dell’industria, occorre aggiungere un importante fenomeno sociale.
Il principale fenomeno sociale che caratterizza la metà dell’Ottocento e che determina una svolta radicale nel campo dell’arte è costituito dalla spaccatura fra la borghesia intellettuale e la borghesia dirigenziale. La cosa si spiega: rivoluzionaria nel periodo in cui c’era da abbattere il regime reazionario monarchico la borghesia dirigenziale diventa controrivoluzionaria nel momento in cui sale al potere. Una cosa analoga avviene in campo artistico. Come il Neoclassicismo per i romantici del periodo della restaurazione, il Romanticismo degli anni quaranta diventa agli occhi degli artisti più sensibili alla situazione politica un modo falso ed edulcorato di rappresentare lo stato di fatto, nonché un indirizzo reo di prestarsi alla manovra reazionaria di oscuramento della verità da parte del potere costituito. Il Realismo ottocentesco nasce così, come risposta alla tendenza evasiva del Romanticismo storico nella sua fase controrivoluzionaria.

I PRINCIPALI INTERPRETI DEL REALISMO OTTOCENTESCO

I maggiori interpreti del Realismo ottocentesco sono Honoré Daumier (1808-1879), Francois Millet (1814-1875) e Gustave Courbet (1818-1877); a questi vanno aggiunti i paesaggisti della Scuola di Barbizon e Camille Corot (1796-1875).
Honoré Daumier, Francois Millet e Gustave Courbet sono tutti artisti dalle personalità molto diverse, tanto da sembrare esponenti di indirizzi completamente differenti. Più in particolare Daumier e Courbet sono due rivoluzionari che fanno la rivoluzione anche come artisti oltre che come uomini. Politicamente schierati a sinistra, la loro azione rivoluzionaria non si esprime solo attraverso la partecipazione attiva alla vita politica del proprio Paese, ma anche attraverso il proprio linguaggio. Gustave Courbet e Honoré Daumier sono personaggi così spiccatamente dissimili che l’impresa di unificare i caratteri del realismo con loro si presenta quanto mai ardua (fra il realismo di Courbet e quello di Daumier c’è un abisso), per cui conviene limitarsi ad analizzarne le opere cercando di metterne in rilievo di volta in volta i tratti comuni. Comunque, entrambi sono artisti importantissimi per la storia dell’estetica romantica. Uno dei due soltanto, però, si libera completamente dell’impronta passionale e passa il confine che separa l’arte antica dall’arte moderna: Courbet.

SUPERAMENTO CONTEMPORANEO DI NEOCLASSICO E ROMANTICO

Fra le tante diversità, un solo singolo punto trova d’accordo tutti, cioè quello che riguarda la scelta fra partigianeria neoclassica e partigianeria romantica. Come è universalmente noto ogni tesi porta con sé il principio della propria antitesi. Se il Romanticismo storico nasce come antitesi al Neoclassicismo, il Realismo ottocentesco nasce come antitesi all’idealismo in generale, tanto neoclassico quanto romantico. La contrapposizione concettuale fra neoclassici e romantici da origine a due blocchi opposti che si fronteggiano rasentando spesso i toni della più aspra polemica. Il Realismo ottocentesco non entra nel merito della disputa, non intende risolverla proponendosi come sintesi delle due correnti. Il suo obiettivo è il superamento delle posizioni antitetiche. Motivo? La risoluzione di due concezioni aventi un comun denominatore: la distorsione della realtà fenomenica in funzione del raggiungimento di obiettivi ideali quali la manifestazione del bello classico o del bello romantico. Cioè il nuovo indirizzo vuole andare oltre due visioni inclini, in definitiva, a considerare l’arte come un processo di alterazione dell’esperienza visiva, l’una in senso razionale, l’altra in senso passionale, per raggiungere il bello ideale. Per i realisti l’arte non è scelta fra due estetiche, ma rinuncia all’estetica; obiettivo del realismo non è il bello, ma il vero.

CONSEGUENZE DEL REALISMO OTTOCENTESCO

Conseguenza immediata di tale tesi è che col Realismo ottocentesco cambia il soggetto tematico, e cioè d’ora in poi gli artisti prenderanno quale oggetto del proprio lavoro la realtà presente, quotidiana, vera, e non più il passato o il mito o la realtà idealizzata. Ma il concetto di vero non è per tutti lo stesso, né tutti sono disposti a rinunciare alla suggestività della fonte ispirativa. Se dunque alla base del Realismo ottocentesco c’è un rifiuto, solo per Courbet questo rifiuto si traduce nella rinuncia a modificare la realtà, manipolare l’immagine, privilegiare la presentazione del puro fenomeno all’esposizione di un giudizio: insomma di fronte alla scelta fra ragione e passione scegliere la testimonianza visiva. In altri termini solo con Courbet il Realismo ottocentesco liquida di fatto la concezione di un’arte vista come ricerca di ideali estetici e le sostituisce quella di un’arte vista come via all’esperienza incondizionata del mondo reale. In questo modo il Realismo ottocentesco supera storicamente il sensismo settecentesco, il pittoresco positivista dei vedutisti e dei realisti, ferma restando soltanto più la fedeltà alla concezione illuminista di un’arte intesa come metodo di conoscenza visiva.
Anche se all’apparenza non si direbbe, ma nel Realismo l’arte si pone definitivamente come un modello di coerenza metodologica. Infatti tiene fede con la tecnica agli enunciati poetici e non più ad un superato principio di abilità artigianale, per cui quanto più la tecnica esprimerà con efficacia gli assunti poetici tanto più tecnicamente riuscita risulterà l’opera. Se così non fosse non si spiegherebbe come mai rientra nell’orbita del Realismo un artista come Daumier, il quale poco ha a che fare con l’imitazione della realtà, e davvero pochissimo con l’abilità tecnica dell’artista artigiano.
Ciò detto passiamo ad analizzare le singole personalità, partendo proprio da Gustave Courbet, cioè dall’artista che più di ogni altro ha saputo rompere col passato. Ma prima di far questo cerchiamo di chiarire meglio il significato del termine realismo.

CHIARIMENTI IN ORDINE AL TERMINE

Il termine realismo è assai affine al termine naturalismo, tanto che sembra inevitabile la confusione fra l’uno e l’altro, eppure, concettualmente, le differenze ci sono. La linea di demarcazione fra i due concetti consiste nel fatto che nel realismo non esiste una scelta univoca per quanto riguarda il singolo aspetto della realtà da assumere come contenitore del principio estetico. In altri termini ciò che fa la differenza è che nel naturalismo l’arte viene concepita come ricerca estetica, mentre nel realismo l’arte è concepita come ricerca del vero, indipendentemente dal fatto che l’oggetto da ritrarre sia bello o brutto.
Chiarito il significato, passiamo a Courbet.

IL REALISMO DI COURBET

Parigi, Musée du Petit Palais
Gustave Courbet
RAGAZZE IN RIVA ALLA SENNA (1857)
Conosciuto anche come ESTATE
Olio su tela, altezza mt. 1,74 – larghezza mt. 2

Gustave Courbet, nasce ad Ornans e muore a Vevey all’età di 59 anni. Fra tutti gli artisti innovatori della prima metà del XIX secolo spetta a lui far compiere all’arte l’ultimo passo verso il definitivo affrancamento dal passato. Se Delacroix (1798-1863) aveva fatto piazza pulita dei canoni classici, Courbet inizia ad inventare quelli del linguaggio moderno. Ancor più che Daumier, il quale affronta soggetti prettamente politici, Courbet precisa la presenza attiva della rivoluzione nelle frange dei vocaboli visivi attingendo a soggetti ispirati al mondo dell’emarginazione sociale.
Con lui si affrontano e si risolvono per la prima volta problematiche moderne, fra cui quella relativa alla distinzione della pittura dalla fotografia, quella riguardante la distinzione fra opera d’arte e prodotti dozzinali ottenuti tramite l’ausilio dei mezzi meccanici, quella relativa al rapporto fra arte e industria; tutte questioni ancora attuali, come le risposte date da Courbet attraverso il suo lavoro. Oltre a questo il realismo courbetiano prende posizione anche su altre importanti, delicate questioni, retaggio del passato prossimo, quali quella della presunta presenza dell’anima, entità metafisica, nell’opera d’arte, e quella più propriamente attinente alla questione strumentale. Le sue proposte circa la soluzione dei problemi della funzione culturale e sociale dell’arte nella nuova società industriale, nonché il suo pronunciamento sul valore della manualità nella tecnica artistica, sono d’importanza capitale per la sopravvivenza dell’arte fatta con pennello e scalpello e valide tutt’oggi. Courbet è il primo artista a chiarire e a stabilire in via definitiva la differenza fra l’opera d’arte fatta a mano e quella fatta a macchina; egli è il primo artista a sentire e dare una risposta al problema della libertà espressiva nella civiltà tecnologica e industriale. Infine la sua opera assume un ruolo determinante nel processo di emancipazione del concetto di arte più in generale. A partire da lui l’arte non viene più intesa come presenza collocabile nel fenomeno esterno, l’immagine naturale, il bel soggetto, il soggetto suggestivo, bensì come presenza collocabile nel puro processo creativo, alias la tecnica.

LE RADICI DEL REALISMO COURBETIANO

Apparentemente il realismo courbetiano non sembra appartenere al periodo romantico, ma ad un’analisi più approfondita si vede bene come rientri appieno nel quadro storico artistico dell’epoca. L’immagine realistica di Courbet in effetti non dipende da una visione naturalistica dell’arte, ma dal fatto che per lui l’attività creativa non si identifica né con l’ideale classico né con quello romantico, bensì sta nell’assenza di ideali. Illuministicamente concepisce l’arte alla stessa stregua di una scienza, ma dalle finalità diverse. Con lui l’attività figurativa cessa contemporaneamente di essere vista sia come ricerca del bello, comprensiva di una procedura tecnica esemplare, che come espressione del sentimento, inclusiva di una partecipazione umana alla strutturazione dell’opera. Per lui l’arte non insegnerà più a riconoscere il bello, né quello classico né quello romantico, ma sarà l’espressione di una tecnica al servizio dell’esperienza visiva personale.

LA NUOVA SFERA DELL’ARTE

Come aveva decretato Delacroix la creatività deve guardare al proprio tempo, e per essere del proprio tempo deve trovare in sé, nella propria esperienza del mondo gli elementi strutturali per la costruzione di una nuova immagine della realtà, più adeguata alla situazione corrente. Ma Eugène non riesce a rinunciare alla romanticità del soggetto.
Tanto per i neoclassici quanto per i romantici l’oggetto deve contenere in sé una qualche potenzialità suggestiva che ispiri l’artista e lo spinga alla creazione. Per i pittori di Barbizon, per Corot tra oggetto e soggetto si deve stabilire una certa empatia; per Millet, ma anche per lo stesso Daumier ci deve essere un motivo per riprendere un pezzo di realtà e rifarla sulla tela. Solo Courbet riduce l’oggetto a puro stimolo visivo. Per lui in arte non è importante il soggetto dell’opera, ma l’opera in quanto tale, cioè a dire la tecnica. E questo assunto costituisce uno dei principali punti di svolta: con la perdita dell’ultimo, residuo, tenue contatto con l’immagine reale della natura l’arte si stacca definitivamente dal passato ed entra nel presente. L’altro assunto fondamentale è costituito dal trovare in sé gli elementi strutturali per la costruzione di una nuova immagine della realtà. Ciò significa guardare alla propria cultura personale, quella fondata sulla propria esperienza, sulle proprie inclinazioni, sulle proprie convinzioni.

ARTE COME ESPERIENZA ISTINTIVA E INCONTAMINATA

Fondare l’arte sulla propria esperienza non vuol dire però rinunciare alla cultura, ma attingere alle conoscenze acquisite sul campo, attraverso l’esercizio della disciplina specifica. Il realismo di Courbet nasce da un processo sottrattivo, isola la componente realistica liberando l’immagine artistica da tutte le interpretazioni del passato. Il risultato è un’adesione spontanea dell’immagine artistica a quella della realtà, privata del sostegno della cultura storica. Tuttavia Courbet giunge all’esperienza dalla cultura romantica. In effetti questa offriva molti elementi utili per una visione obiettiva delle cose; bastava indirizzarli verso l’interpretazione della realtà corrente, sganciarli dalla funzione principale cui erano stati destinati fino a quel momento, e cioè quella di critica verso le forme culturali classiche. Allo scopo sembrava adattissima non tanto la struttura messa in opera da Delacroix quanto quella di Ingres (1780–1867), però svincolata dall’influenza esercitata su di lui dall’interpretazione degli artisti del passato. Questi elementi utili sperimentati da Ingres sono gli elementi strutturali che Courbet trova alla fine del suo percorso di decantazione sovrastrutturale e che si identificano con i toni di colore, distintivi della struttura tonale.

LA SPIRITUALITÀ REALISTA

Riguardo alla dibattuta questione sulla presunta spiritualità dell’opera d’arte romantici e neoclassici avevano considerato l’oggetto artistico come un prodotto speciale, che si distingue da tutti gli altri in quanto dotato di anima. Courbet, agnostico, riduce il concetto di anima a manifestazione concreta del lavoro creativo. In arte, per Gustave, ciò che conta non è l’idea dell’artista, né quello che egli prova, importante è il suo lavoro. E questo deve essere istintivo e incontaminato, laddove per incontaminato si intende libero da ogni tipo di condizionamento non solo culturale e ideologico, ma anche sociale e produttivo. L’arte è nella manifattura dell’opera e non in ciò che ritrae o ciò a cui rimanda. Ma attenzione, questo non vuol dire che per Courbet non conta l’artista che sta dietro al quadro o alla statua che sia. Questo conta e come, ma non già per il fatto che è un’esistenza che si identifica con un ideale, cioè virtuale, bensì perché è un’esistenza fisica, che si identifica con la sua forza lavoro, la sua tecnica. Dunque, secondo lui, in campo estetico la scelta che si pone, come aveva intuito per primo Géricault (1791-1824), non è fra ideale e passionale, ma fra ideale e reale. Il che non vuol dire scegliere semplicemente fra due indirizzi, realismo o astrazione, ma, in senso più profondo, vuol dire scegliere fra arte come presenza concreta del soggetto operante nella realtà contingente e arte come presenza virtuale. Scelta questa che è alla base della sopravvivenza stessa dell’arte intesa in maniera tradizionale, cioè come attività produttrice di opere autografe uniche.

CONSEGUENZE

Importanti sono, come sempre nei casi di forti personalità, le conseguenze. Se il soggetto non ha più nessuna importanza per l’arte e la sua interpretazione non entra più a far parte dei criteri di valutazione di un’opera, mentre ciò che conta è il manufatto in sé, la sensazione che suscita, il solo gioco dei mezzi espressivi, la comprensione di un’immagine artistica si riduce a capire come è costruita e basta. Ciò significa che l’arte sta nella forma e non nel contenuto, ovvero nel lavoro dell’artista e non nella natura, cioè l’arte sta nella tecnica che fabbrica l’opera. Ma questo potrebbe voler dire che l’arte è arte anche se non significa niente. A partire da Courbet il vero soggetto dell’arte è l’arte stessa. Dunque un’opera si dovrà leggere soltanto per quello che rappresenta in sé, indipendentemente dal soggetto, ovvero come un processo di assemblaggio di elementi costruttivi. Ecco dunque che l’arte figurativa si trasforma in una sorta di architettura visiva. Ma il fine dell’assemblaggio degli elementi architettonici non è solo quello di rendere belle le dimore, bensì quello di assolvere ad una funzione sociale o privata ben precisa. Quale funzione assolverà d’ora in poi la pura aggregazione formale in pittura o scultura? Courbet dà la risposta anche a questo interrogativo: l’arte servirà solo a rendere esplicito il suo processo creativo.
Sul piano stilistico succede che provocando la crisi contemporanea della concezione classica e della concezione romantica Courbet porta avanti il processo di dissoluzione dell’arte intesa in senso umanistico, e cioè la dissoluzione di un’arte che vede nei valori della conoscenza e dell’abilità manuale i suoi capisaldi, nonché la sua ragion d’essere. Infatti, nei suoi quadri, Gustave si limita ad imitare l’immagine afferrata dagli occhi, senza trasformare il veduto in forme mentali gnostiche o reazioni emotive: e in ciò prosegue l’opera di sfaldamento dell’arte umanistica per mano delle forze anticlassiche.

RUOLO ETICO DELL’ARTE NEL REALISMO OTTOCENTESCO

Riguardo alla funzione dell’arte nella nuova società industriale, vale a dire rispetto alla questione di stabilire cosa dà l’attività creativa all’uomo del XIX secolo, per Courbet, come per Daumier e per gli altri realisti, non diversamente da neoclassici e romantici, il ruolo dell’attività creativa rimane sempre quello della formazione delle coscienze: un buon quadro è come un buon libro, non serve a migliorare la produzione dei beni di consumo, serve a migliorare il comportamento umano; per tutti l’esercizio dell’arte è un modo per raggiungere la libertà. In ogni modo perdurano piccole differenze sulla questione che attiene al valore dell’oggetto, cioè l’importanza della gnosi per l’esercizio creativo. Infatti, mentre per Daumier e gli altri realisti resta fondamentale per l’arte il compito di insegnarci a vedere oltre il veduto, per Courbet il ruolo conoscitivo dell’attività estetica non conta, conta solo il ruolo etico. Ma a quale libertà da adito secondo Courbet il semplice esercizio dell’arte? La libertà dalla logica del mercato, libertà dalla logica della macchina, libertà dalla logica dell’arte stessa: l’arte sarà d’ora in poi il modo di comportarsi del lavoratore libero da ogni sorta di potere e l’immagine artistica sarà la fenomenizzazione in chiare forme solide della coscienza libera. In altri termini l’arte moderna insegnerà ad esercitare la propria libertà attraverso il fare, ad essere liberi facendo; sarà una tecnica che insegnerà a prendere coscienza del proprio essere individui.
In questo contesto ideologico sembra difficile trovare coerente la proposta di un indirizzo realistico, eppure non è così. Se l’arte punta a dire la verità, tutta la verità, soltanto la verità, non è per spiegare com’è fatta esattamente la natura, ne come si sono svolti effettivamente i fatti storici, né perché dire le bugie manda all’inferno; ma perché il soggetto deve essere mondato da qualsiasi interpretazione personale che possa in qualche modo convogliare l’attenzione su di sé e distoglierla dal vero contenuto dell’opera, che non è ciò che viene raffigurato, ma come è raffigurato, ovvero la maniera in cui si dispongono gli elementi strutturali nella costruzione dell’immagine artistica. Neanche il romanticismo di Delacroix aveva osato tanto.

ARTE E FOTOGRAFIA

Due dei più importanti fenomeni che caratterizzano la metà dell’Ottocento e che determinano una svolta nel campo dell’arte sono la nascita della fotografia e la diffusione dell’industria.
Nei confronti della fotografia Courbet è il primo artista a pronunciarsi sulle differenze fra le tecniche di ripresa manuale della realtà e le tecniche di ripresa meccanica: problema, questo, della massima importanza, in cui è messa in gioco la sopravvivenza stessa dell’arte.
La nascita della fotografia nel 1836 conduce l’attività creativa ad un inevitabile confronto. Se ci sono due mezzi nati per lo stesso fine, per stabilire chi dei due non è di troppo occorre precisarne le rispettive funzioni. E anche in questo caso l’operato di Gustave è illuminante.
Il punto fondamentale, quello che fa la differenza, per Gustave non è cosa ci fa vedere un dipinto di così diverso e indispensabile rispetto alla fotografia, tanto da renderlo necessario, bensì quale obiettivo ci permette di raggiungere il semplice orchestrare forme e colori su una tela rispetto a quello che ci permette di raggiungere un semplice click.

LA RISOLUZIONE DI COURBET ALLA QUESTIONE TECNICA

L’arte per Courbet è uno dei tanti strumenti che l’uomo moderno possiede per compiere l’esperienza della realtà visiva; modo che potrà essere esperito con altri mezzi, altre tecniche: dipende dalle situazioni, dalle circostanze, dalle capacità e dalle opportunità tecnologiche. Nei confronti di questo assunto rimane comunque un interrogativo di fondo: ma che necessità c’è di rifare a mano quel che può essere fatto molto più velocemente a macchina?
Per lui l’opera d’arte fatta con colori e pennelli (o mazzuolo e scalpelli), in altri termini l’opera d’arte tradizionale, è un prodotto qualitativamente superiore a quelli che si possono ottenere con altri mezzi tecnici. Non già perché rifare una cosa sia più difficile che fotografarla (ogni tecnica ha le sue difficoltà). La tecnica artistica tradizionale ha le sue regole, ha i suoi problemi specifici, conduce a dei risultati piuttosto che ad altri, come del resto ogni altra tecnica. L’unica differenza sta nel diverso peso delle tecniche manuali rispetto a quelle meccaniche. Per i romantici nell’atto del dipingere c’è l’anima dell’artista, mentre nello scattare una foto no. L’anima del fotografo si perde nella fredda applicazione delle procedure tecniche che l’operazione fotografica necessariamente richiede. Per Courbet non è così; non è una questione di anima. Quando un artista opera, per esempio un pittore come lui, parte dalle sensazioni, che sarebbero poi l’interpretazione personale dell’immagine della natura. Queste impressioni luminose, soggettive, si trasformano in colore concreto, steso su un supporto più o meno consistente, ovvero si tramutano nell’opera d’arte. Il dipinto è altro che il prodotto del lavoro manuale dell’artista, al quale si aggiunge il lavoro mentale di traduzione della sensazione ottica, fatta di luce, in sensazione pittorica, fatta di materia colorata. Il risultato dunque non è più l’apparenza transitoria, ma è la materializzazione concreta del lavoro dell’artista, mentale e manuale insieme, che resta e che fa dell’immagine dipinta un’immagine più pesante di quella afferrata dall’occhio o fissata con uno scatto. Ora anche il fotografo (e, oggi, anche il computer-grafico) compie un percorso in cui il lavoro manuale interagisce con quello di concetto; solo che nella fotografia (così come nella grafica computerizzata) la manualità è ridotta al minimo: ci vuole molta più manualità ad eseguire un quadro che non a scattare una fotografia, o battere dei tasti. Ovvero c’è nel prodotto finale di queste tecniche una minore quantità di forza lavoro. Dunque secondo Courbet a fare la differenza non è l’interpretazione, il momento intellettuale che interviene nell’operazione pittorica (anche per scattare una foto bisogna interpretare i toni della luce), quanto il fatto che questa si svolge contestualmente al lavoro di mescolamento, di stesura e di aggiustamento del colore sulla tela, e non manovrando dei semplici congegni meccanici. Nel dipinto c’è sempre una fetta di sé come forza lavoro maggiore che nella foto (e nella grafica computerizzata). Questo vuol dire che Courbet non fa distinzione di valore fra fotografia e pittura (possono essere entrambe arte), ma distingue l’immagine leggera, virtuale della fotografia da quella concreta, pesante della pittura. Un’idea al passo coi tempi, non c’è dubbio, ma con qualche punto critico. Courbet non sospetta neppure, (d’altronde a quell’epoca chi lo sospettava) che si possa considerare il lavoro intellettuale, il teorizzare, l’ideare, un lavoro alla stessa stregua di quello che fabbrica oggetti materiali, né che l’idea, il progetto di un’opera possa essere considerata un’impronta (questo pensiero si farà strada più tardi, col funzionalismo). Per lui l’artista è equiparabile più ad un operaio che non ad un tecnico progettista: l’arte è lavoro pratico, concreto, mestiere manuale. Ciononostante Courbet è il primo artista a riconoscere che il problema tecnico dell’arte non è un problema di tipologie (si fa arte con qualsiasi tecnica), ma di dosi quantitative della componente manualistica. La differenza non sta nel fatto che con le tecniche manualistiche si è creativi e con quelle che prevedono l’uso delle macchine no: si può creare anche con le macchine.
La differenza non sta neanche nel soggetto operante: un poeta nelle tecniche manualistiche e un tecnico nelle prassi meccaniche, in quanto procedure imitative (all’inizio le immagini fotografiche vengono considerate mere copie delle immagini naturali, e il computer è lungi dall’essere inventato).

LA RISOLUZIONE DI COURBET ALLA QUESTIONE DEL RAPPORTO FRA ARTE E INDUSTRIA

Nei confronti dell’industria due sono le principali questioni che si pongono. La prima è di ordine teorico, la seconda di ordine morale. Quella di ordine teorico si presta ad essere risolta facilmente affermando che l’arte si realizza nell’idea e non nella prassi, anche se ciò comporta la sua rinuncia ad essere romantica (e questo si può superare), nonché la sua rinuncia ad identificarsi con la prassi (ma anche questo si può facilmente superare affermando che pure quello intellettuale è un lavoro; però la cosa alla metà dell’Ottocento è prematura). Quella di ordine morale è molto più dura da metabolizzare per via del fatto che contempla la spinosissima questione del rapporto fra libertà creativa e necessità economica. Essa è tanto importante da meritare un approfondimento.
Un principio importantissimo sancito da Courbet è quello relativo all’incompatibilità fra arte e industria. Non sono le macchine in sé che distruggono la libertà dell’artista, ma l’organizzazione industriale del lavoro, volta dalla borghesia capitalista a rendere l’uomo artefice schiavo del profitto e alieno dal processo produttivo. L’artista come lavoratore è un produttore di oggetti “speciali”. L’opera d’arte, infatti, è un oggetto che non si mangia, non si ripone in un cassetto né si raccoglie in un album. Non lo si incornicia perché evoca momenti o persone particolari, ma lo si conserva perché è il prodotto di un’esperienza umana, in cui è contenuto un qualcosa che è assente in qualsiasi altro prodotto, e cioè un pezzetto di vita concreta dell’artefice, non virtuale, sottoforma di lavoro manuale. Questa considerazione porta Courbet a rilevare un altro punto fondamentale che va ad aumentare la differenza di peso fra le tecniche manualistiche e quelle meccaniche. La manualità non porta ad una diversità solo di tipo quantitativa; non è solo una questione legata ad una sua presenza più massiccia nelle opere artigianali, meno in quelle ottenute mediante mezzi di riproduzione meccanica; la differenza non sta solo nel peso, di più nel primo caso rispetto al secondo. C’è anche una differenza di tipo qualitativo che riguarda l’unicità dell’opera fatta a mano, segno inequivocabile di un momento irripetibile dell’esistenza individuale, contro la riproducibilità dell’opera fatta con i mezzi meccanici, ripetitiva e soppressiva della singolarità e della variabilità dell’essere, pertanto è impensabile che un oggetto fatto a macchina possa effigiarsi del titolo di opera d’arte.
Quando si passa a considerare le cose fatte in fabbrica Courbet ricorda che le macchine obbediscono di fatto, perché per tale scopo sono state inventate, alle necessità commerciali dell’imprenditoria capitalistica, dunque, sono condizionanti per la completa libertà espressiva dell’artista. È sempre il grande tema dell’era moderna, che vede il contrapporsi di due etiche, quella borghese meccanicista, del fare finalizzato al maggior profitto e alla minima fruizione, a quella artistica del fare finalizzato alla maggior fruizione e minor profitto. Non solo, ma il lavoro dell’artista è il lavoro dell’uomo integro, non dell’uomo alienato della società industriale, dell’uomo libero dai condizionamenti della produzione sociale, impostata sulle macchine. Infatti nella fabbrica il lavoro è organizzato secondo il principio della suddivisione dei compiti, per cui l’operaio interpreta solo una parte di quello che è l’impegno collettivo necessario alla realizzazione del prodotto finale; così come pure il progettista delle operazioni meccaniche, il programmatore, come pure il progettista degli oggetti da produrre. L’alienazione non risparmia neanche il padrone, apparentemente libero, ma anch’esso schiavo delle leggi di mercato. Ricapitolando, dunque le risoluzioni di Courbet alle principali problematiche moderne sono:

  1. A parità di soggetto ritratto, nell’immagine fatta a mano c’è molto più lavoro che nell’immagine ottenuta con i mezzi meccanici.
  2. Il quadro è sempre e comunque un pezzo unico, e anche se è possibile riprodurlo la copia non potrà mai essere uguale all’originale, non tanto perché di minor valore in quanto copia, ma perché in essa vi è investita nuova forza lavoro.
  3. L’artista è un lavoratore speciale poiché non obbedisce né alle leggi del mercato, né a quelle dell’organizzazione sociale del lavoro, né a quelle della tecnologia.
  4. La pittura è l’unico processo in cui il lavoro dell’operatore è inalienabile dal prodotto finito. Esso permette di tradurre in modo immediato, senza filtri di alcun genere, l’esperienza diretta della realtà, che poi altro non è che l’esistenza stessa del soggetto operante.

Tutte risoluzioni che danno un senso alla pittura, le danno una ragione d’esistere, ma non la salvano dalla sua sorte, e cioè quella di essere destinata ad estinguersi. Il motivo sta nella criticità dei punti sostenuti. Dei primi due abbiamo già detto, riguardo al terzo si potrebbe obiettare che si è tanto più artisti quanto più si riesce ad essere creativi nelle condizioni peggiori. Anche il quarto è opinabile: non è detto che l’alienazione debba essere interpretata in senso negativo; può essere anche un modo per trascendere il reale e proporsi come pura idea. Comunque sia, fare pittura da Courbet in poi significa essere presenti in modo concreto nella realtà contingente al di là di ogni tentativo di soppressione dell’individuo e della sua coscienza. In senso opposto non fare pittura significa la stessa cosa anche se in una forma meno materiale, più virtuale. Scegliere fra l’una e l’altra condizione significa dunque scegliere il modo di stare al mondo.
Dopo quelle di Courbet il problema della differenza fra opera d’arte, fotografia e lavoro meccanico dell’industria avrà altre proposte di soluzione, anzi saranno proprio queste a costituire materiale d’approfondimento per le future generazioni di artisti. Rimane tuttavia comune a tutte le posizioni una condizione che dovrà essere assolutamente rispettata, cioè che l’arte non potrà comunque in nessun caso dare origine ad oggetti di consumo, o, più precisamente, ad oggetti che serviranno a schiavizzare l’uomo, ingannarlo, impedirgli di far parte di un circuito informativo moralmente corretto, cioè obiettivo. Ecco perché Courbet, estremista di sinistra, ha scelto di essere realista, e non ha messo l’arte neanche al servizio delle sue convinzioni politiche, come, invece, ha fatto il compagno Daumier.

ANALISI DELL’OPERA DEMOISELLES SUR LA RIVE DE LA SEINE

Per vedere nel concreto cosa intende Courbet quando parla di “arte vista come possibile via all’esperienza del mondo reale” analizziamo una delle sue opere più conosciute, o meglio una di quelle più chiacchierate, Demoiselles sur la rive de la Seine.
Prima di passare all’esame dell’opera, va detto per inciso che molti lavori di Courbet suscitano violente reazioni da parte della critica ufficiale e del pubblico; reazioni dovute certamente ai soggetti, ma al di là di essi dal modo in cui vengono proposti, diretto e privo di “tatto”, nonché dovute alla loro dirompente novità, la quale troppo spesso viene scambiata per sfrontatezza, se non addirittura per volgarità gratuita.
L’olio rappresenta due ragazze, probabilmente due prostitute, che sonnecchiano sulla riva della Senna, all’ombra di un albero, in un caldo giorno d’estate. Apparentemente il dipinto sembra il frutto di una scelta casuale, invece ogni elemento è selezionato a ragion veduta. Scopo? Eliminare tutte le componenti strutturali precostituite, quali cultura, sentimenti, ideologia. Già la scelta del soggetto, due mademoiselles sorprese in un momento di relax, mette in rilievo l’intenzione dell’autore di eliminare l’idealizzazione della figura umana: non più donne eroine come in Delacroix, né Giunoni o Veneri in abiti ottocenteschi come in Ingres, ma donne comuni che hanno ceduto al torpore dell’immancabile siesta che accompagna le ore dei meriggi estivi. La ragazza in primo piano si sta ormai arrendendo al sonno; l’altra sembra resistere ancora, ma tutto lascia pensare che di li a poco anch’essa si appisolerà. Il loro atteggiamento non ha niente di sublime: il corpo è abbandonato, le membra sono distese, le vesti scomposte; forse è proprio la posa delle due signorine che irrita maggiormente il pubblico che non il saperle (cosa per altro affatto ipotetica) due mondane.
Passando all’inquadratura c’è da notare il taglio assolutamente inedito. La cornice del dipinto recide gran parte degli elementi che lo costituiscono: l’albero è per metà fuori dalla composizione, il cielo con la riva opposta del fiume sono ridotti a un puro accenno relegato all’angolo in alto a sinistra, i due corpi distesi arrivano a sfiorare i limiti della tela. Il punto d’osservazione risulta rialzato rispetto al piano del suolo, tanto che la linea d’orizzonte sfiora il bordo superiore del dipinto; ne deriva che lo spazio appare come ribaltato, schiacciato sul piano verticale. Le signorine non sono inserite prospetticamente nella porzione di riva messa a fuoco, ma occupano semplicemente la parte centrale della tela. Tuttavia non si può dire che la prospettiva sia assente, ce n’è ancora un ultimo sprazzo nella fuga costituita dalla riva opposta.
Dal punto di vista strutturale si vede che il quadro nel suo insieme è costituito da tre grandi chiazze: quella chiara, nel mezzo, formata dal vestito della dormiente; quella bruna, formata dal prato, dall’albero e dal vestito della seconda signorina; quella azzurra, in alto a sinistra, formata dal fiume e dall’accenno di cielo e di riva opposta. Quest’ultima chiazza forma un’area triangolare azzurra che si incunea nella grande area quadrangolare di tonalità bruna del fondo, a equilibrare con una nota chiara la grande area bianca costituita dalle vesti della ragazza assopita. I colori non sono in ordine casuale, hanno una sequenza ben definita: bianco-bruno-azzurro, cioè chiaro-scuro-chiaro, ma anche freddo-caldo-freddo; una struttura che conosciamo bene: infatti si tratta di una struttura tonale, inventata dai veneti nel Rinascimento.
Benché l’immagine ci dia il senso della realtà concreta in ogni suo dettaglio, portando più a fondo l’esame dei particolari ci si accorge che molti elementi sono solo accennati, e che le linee che li definiscono non rivelano affatto la struttura intelligibile, universale ed eterna dello spazio. Si osservino a tal proposito le fronde degli alberi. Si tratta di macchie verdi fusiformi, orientate in tante direzioni diverse che spiccano su una lunga fascia di colore verde scuro, informe, che corre parallela ai corpi delle due donne e che sta ad indicare l’ombra propria della chioma. L’ombra non è un velo trasparente che si stende sulle foglie oscurandone il tono ma lasciandone intravedere la sagoma (il fenomeno non rivela la causa), al contrario è un’area di colore denso che si contrappone a due aree di colore più chiaro; è un elemento che si offre come effetto poiché l’artista sta a quel che si vede e non a quel che si sa. Anche nel panneggio della ragazza in primo piano l’artista non ci mostra lo svolgimento logico delle pieghe nello spazio tridimensionale, ma, come se il vestito fosse schiacciato su una lastra di vetro verticale, ci mostra il gioco scomposto dei risvolti formato dalle vesti in un momento di abbandono. In questa immagine dunque non c’è una realtà contemplata, né giudicata; l’immagine visiva è solo l’input per la costruzione di un oggetto: il quadro, fatto di materia colorata. Quest’ultima si dispone nello spazio senza seguire criteri proiettivi, ma a seconda delle zone di tela che ogni singolo colore va ad impressionare.
Courbet non nega che il suo procedimento ricorda quello fotografico, ma aggiunge altresì che l’immagine dipinta non è costituita da microcristalli che reagiscono alla luce, ma da sostanza di una certa consistenza materiale plasmata dalla mano dell’uomo.

FUNZIONE SOCIALE DEL REALISMO: DAUMIER

Essen, Folkwang Museum
Honoré Daumier
NOUS VOULONS BARABBA (1850)
Tela, altezza mt. 1,60 – larghezza mt. 1,27

Con l’Illuminismo si era affermata l’autonomia dell’arte, con l’autonomia dell’arte si era posto il problema della sua funzione all’interno della società. Nel periodo neoclassico l’attività creativa è una delle forze che concorrono ad adeguare la società reale al modello ideale descritto dai filosofi; nel periodo romantico è una delle forze che concorrono ad adeguare la società allo stato, alla religione e alle tradizioni nazionali. Col realismo di Daumier l’arte cessa di essere una forza di adeguamento della società ai valori ideali per diventare uno strumento della lotta di classe. Ciò che sospinge Daumier a propendere per questa scelta è la coscienza che non può esservi nessun ideale comunitario se non c’è uguaglianza e giustizia sociale.
Abbiamo appena visto che obiettivo fondamentale dei realisti è il vero. Ma per Courbet il vero è mancanza di giudizio, per Daumier invece è giudizio. Il Realismo nell’interpretazione dell’artista marsigliese è cosa ben diversa dal realismo di Courbet. Per lui un’opera per chiamarsi realista deve mostrare quel che sta oltre l’apparenza; deve aprire gli occhi agli oppressi; deve essere un mezzo per prendere coscienza. Per portare questo nome la sua funzione deve essere quella di denunciare ciò che si cela dietro il fenomeno visivo, dietro gli effetti, ovvero l’insieme delle cause. Ma le cause per Daumier non hanno niente di trascendentale, sono brutalmente, meschinamente terrene; non sono da ricercare in cielo, bensì in terra. In altri termini per Daumier l’arte realista deve essere uno strumento di lotta politica; lotta degli oppressi contro gli oppressori: di qui la somiglianza della sua pittura con la satira. Per Honoré stare dalla parte degli oppressi non significa come per Millet condividerne il dolore, nonché il destino, significa stimolarli a reagire, fomentare il dissidio. Men che mai per lui Realismo significa arte per l’arte come per Courbet. Daumier non è convinto che l’arte al di sopra dell’ideologia possa essere neutrale veramente, o almeno non in un momento in cui c’è differenza di classi. Per il graffiante Victorin (secondo nome) infatti l’arte neutrale addormenta la rivolta, acquieta gli animi, abbassa la guardia favorendo le forze repressive. Non condivide l’idea di Courbet per cui non è il contenuto di un’opera che fa di essa un’opera rivoluzionaria ma la forma. Sebbene anche per Honoré sia sostanzialmente vero che la realtà così com’è basta a provocare la reazione delle coscienze, conviene sia altrettanto vero che nella lotta politica è di fondamentale importanza la scelta del soggetto, il quale nella fattispecie deve avere un valore politico. Tuttavia ammette che un linguaggio visivo non deve essere semplicemente un mezzo di denuncia, non si deve limitare a descrivere le situazioni, bensì deve costituire una realtà a sé stante che rompe con la semplice presenza l’ordine costituito; deve essere cioè un qualcosa che scandalizzi per il modo in cui pone le questioni e non solo per il messaggio che intende comunicare. Dunque per Daumier la realtà deve essere deformata per esprimere più obiettivamente l’interpretazione soggettiva.
Ma qual è questa realtà che c’è ma non si vede? Proviamo a capirlo analizzando un’opera come Nous voulons Barabba! (Vogliamo Barabba!)
La tela ci presenta uno dei più noti episodi della passione di Cristo: l’Ecce Homo. I Romani dopo aver catturato Gesù, prima lo torturano poi lo portano davanti a Ponzio Pilato, governatore romano in Palestina all’epoca di Cristo. Interrogatolo, Ponzio Pilato non rileva alcuna colpa in lui, ma invece di rimetterlo in libertà lascia che a decidere se condannarlo o meno sia il popolo stesso, lavandosene le mani. Nel dipinto Daumier punta l’attenzione sul gesto di Ponzio Pilato che chiede alla massa: «volete lui?» E la massa risponde: «Si, lui!». L’autore non ci narra l’episodio, ci presenta due momenti della vicenda collegati tra loro da un motivo morale. Nella parte superiore si vede Pilato (pelato) che addita Gesù, tenuto al “guinzaglio” come un animale da uno sgherro; nella parte inferiore è la folla accalcata intorno alla tribuna che con le braccia alzate punta anch’essa l’indice verso il nazareno. Honoré non ci vuole raccontare un fatto, ce lo vuole commentare, non si mette ad illustrarcelo, a descriverci i personaggi nelle loro singole personalità, a cogliere gli effetti della luce sulle cose, cioè non ci mostra quel che si vede, ci vuol far respirare il clima torvo che grava sull’intera scena. La realtà vera non è Ponzio Pilato, Gesù, la folla, ma la moltitudine informe che plagiata dal potere condanna l’innocente e salva il bandito. In conclusione la realtà per Daumier è il giudizio morale dei fatti. La scelleratezza di quella condanna si esprime attraverso la composizione, la quale non segue un ordine narrativo, ma presenta contemporaneamente due situazioni su un unico sfondo. Le figure sono deformate non già in conseguenza al fatto che sottostanno a particolari condizioni spaziali e temporali, ma per dare il senso della cedevolezza della massa, della sua mancanza di nerbo, della sua manovrabilità. Il quadro è privo di colore, il tono è basso, i segni che delineano le figure grassi. Più che un dipinto sembra una stampa litografica, eppure l’opera è ad olio. Come nelle litografie dell’epoca, adoperate soprattutto per le vignette satiriche sui quotidiani (Daumier è stato il primo artista a valersi di un mezzo di comunicazione di massa, la stampa, per influire con l’arte sul comportamento sociale), le cose sono ridotte alla loro sagoma e la comunicazione del contenuto è tutta demandata ad un’immagine che si presenta contratta in forma di sollecitazione visiva; le figure sono appena accennate, i protagonisti sono senza volto. Ponzio Pilato non presenta caratteri particolari; la folla è massa anonima; Gesù Cristo, profilato scuro su fondo chiaro, è riconoscibile dagli attributi col quale è universalmente noto, barba, capelli lunghi, corona di spine. Le figure sono prive di volto perché la folla non è fatta di persone, individui con una propria personalità distinta; non c’è colore perché il colore è vita, la giustizia fa parte della vita, dove si condanna un innocente non ci può essere vita, ma solo esistenza fisica, dunque neanche colore.
Spicca in primo piano una sagoma larvale con un bambino in braccio. Con la mano fa cenno al bambino di guardare il condannato, quasi esortandolo ad unirsi a lui nel chiederne la pena; la faccia è una maschera grottesca, insensibile alla luce. Questa più che dare la sensazione di riflettersi sulle cose, si appiccica sulla tela mischiandosi al colore biaccoso del fondo: incombe sull’intera scena un’atmosfera fosca, stagnante, entro la quale indistinte presenze umane si muovono come larve nella melma. Attraverso le linee bistrate e verrebbe da dire il colore, ma qui il colore non c’è, l’ha portato via quella scelta scellerata, Honoré esprime sinteticamente il senso di bieca ingiustizia che presiede all’umana civiltà; e lo fa anche con la scelta tecnica. Il quadro sembra una litografia poiché per lui l’immagine artistica non è la rappresentazione di una realtà ma è una realtà essa stessa, un oggetto concreto, come un bassorilievo fatto di materia colorata invece che di marmo.
Dunque in conclusione per Daumier Realismo non vuol dire rappresentare i fatti, ma esprimerne visivamente il significato morale, e l’immagine appare tanto più distorta, al limite del grottesco, quanto più il giudizio stimola una reazione morale: è la prefigurazione dell’Espressionismo.

MILLET

Parigi, Musée d’Orsay
François Millet
L’ANGELUS (1858/1859)
Tela, altezza cm. 55 – larghezza cm. 66

Daumier e Courbet; due modi di intendere il Realismo ottocentesco; due modi di intendere l’arte. Per entrambi l’arte è un mezzo per influire sul modo di agire della gente; solo che per Honoré è il giudizio, l’interpretazione dei fatti a provocare la reazione della singola coscienza, mentre per Gustave è la presentazione dei fatti, la nuda e cruda testimonianza visiva, e il commento è lasciato alla coscienza del singolo.
Millet è un contadino che dipinge contadini. Con lui per la prima volta un lavoratore dei campi assurge a protagonista della raffigurazione d’arte. Nel 1848 espone un quadro che ha come soggetto un contadino al lavoro (l’anno dopo Courbet eseguirà Lo spaccapietre). Dieci anni dopo dà alla luce L’Angelus. Il quadro raffigura due contadini, un uomo e una donna che, impegnati nel quotidiano lavoro dei campi, sospendono per un attimo il loro da fare per pregare. È l’ora dell’Angelus e probabilmente odono i rintocchi della campana della chiesa che si intravede sullo sfondo e che noi non udiamo. Il dipinto esposto nove anni dopo ha un successo enorme fra i borghesi per bene, tanto da finire su riviste e cartoline. Questo improvviso amore per Millet si spiega col fatto che François dipinge coloni, che sono lavoratori buoni, che sgobbano in silenzio senza provare mai a ribellarsi e a rivendicare migliori condizioni di vita, come fanno invece i loro cugini stretti, gli operai. Ma probabilmente non è solo questo. I quadri di Millet sono quadri discreti, educati, si danno all’osservatore con garbo, ma soprattutto non lo aggrediscono, anzi lo rassicurano.
Il contenuto dell’opera è il legame indissolubile fra il contadino e la terra, il contadino e i modi di vita e lavoro tradizionali, il contadino la morale e la religione dei padri. Questi valori Millet li esprime da pittore quale è: lega figure e paesaggio con una penombra avvolgente; coglie suggestivi effetti di luce; sceglie soggetti patetici. Insomma per lui realismo vuol dire ancora romanticismo. Rientra nei motivi romantici la scelta dei contadini, l’operaio è un lavoratore strappato all’ambiente naturale e perduto ormai negli ingranaggi del sistema borghese.
A guardare le opere di Millet sorge spontanea una domanda: avrebbe avuto lo stesso successo se avesse dipinto operai? Courbet e Daumier lo hanno fatto e non hanno avuto successo; ma la cosa è dovuta anche in larga parte al loro modo di dipingerli.

LA SCUOLA DI BARBIZON

Parigi, Museo del Louvre
Théodore Rousseau
TEMPORALE: VEDUTA DELLA PIANA DI MONTMARTRE (1850 c.)
Olio su tela, altezza cm. 23 – larghezza cm. 36

La scuola di Barbizon rappresenta il momento di svolta nel processo di trasformazione storica che muove dall’antagonismo fra Neoclassicismo e Romanticismo al contrasto fra realismo e idealismo. Come se fossimo diventati per incanto inviati speciali del tempo facciamo finta di trovarci agli inizi del XIX secolo, a Barbizon, un villaggio ubicato ai margini della foresta di Fontainebleau, vicino Parigi. Qui incontriamo alcuni giovani pittori che quotidianamente se ne vanno in giro per campi a dipingere dal vero. Scopo? Rinnovare la pittura di paesaggio. Tra loro si distinguono Théodore Rousseau (1812-1867), Diaz de la Peña (1808-1876), Charles François Daubigny (1817-1878), Jules Dupré (1811-1889), Constant Troyon (1810-1865); sono tutti pittori che hanno visto la mostra dei romantici inglesi del 1824; tutti sono stati impressionati dalla magia di Constable (1776-1837), che attraverso la sua pittura fatta di macchie riesce a dire tutto senza descrivere niente.
La macchia evoca un’esperienza non definisce una forma; questo significa mettere in moto un meccanismo che conduce alla conoscenza dell’oggetto; questa conoscenza non è di tipo scientifico, ma di tipo sensitivo.
I pittori di Barbizon sono fra i pochi ad afferrare subito il valore dell’arte di Constable: arrivare a definire il giusto tono, non il dato morfologico. Di qui muovono per arrivare a definire il tipo di conoscenza che si ottiene con l’operazione pittorica. Compito del pittore è definire la personalità di ogni singola cosa. Ad esempio di un albero specifico il suo portamento, come si muove al vento, come reagisce ai toni e ai colori della luce, ecc. Naturalmente non si può acquisire questo tipo di conoscenza se non in presenza dell’oggetto e facendo piazza pulita di tutto il nozionismo acquisito. Ma non solo. Essendo poi la cosa soggettiva, ognuno dovrà sperimentarla per sé: ecco il perché del ritiro, ed ecco il perché del gruppo. È un punto di estrema importanza questo: si tratta della spiegazione teorica che renderà possibile l’avvio della ricerca moderna.
Resta però da spiegare perché ritrovarsi in campagna. In città la conoscenza sensitiva non funziona? Forse il contatto con l’ambiente urbano non suscita emozioni?
Qui sta il limite della scuola di Barbizon, ciò che la colloca ancora nell’ambito romantico e gli impedisce di fare un passo decisamente in avanti nel tempo. È chiaro che alla base della scelta c’è una ragione ideologica: il rifiuto della dimensione urbana come realtà artefatta a favore della dimensione rurale come realtà più vicina alla condizione naturale. Ma questo significa dunque che alla base della scelta della scuola c’è un interesse sociale più che un interesse per la natura naturata. In realtà quello che si propongono di dimostrare Rousseau e compagni col loro studio sulla psicologia del paesaggio è il valore del sentimento della natura nel nuovo mondo tecnologico e industriale. Mettendo sullo stesso piano natura e società stabiliscono che così come non si può rinunciare all’affettività umana per conoscere la società non si può rinunciare all’affetto per la natura per conoscere la realtà umana più vera e socialmente desiderabile.

COROT

Parigi, Museo del Louvre
Camille Corot
IL COLOSSEO VISTO ATTRAVERSO GLI ARCHI DELLA BASILICA DI COSTANTINO (1825)
Olio su tela, altezza cm. 23 – larghezza cm. 35

Camille Corot è ritenuto il maggior paesaggista dell’Ottocento. Non fa parte della scuola di Barbizon, né di altri movimenti, tuttavia si muove nell’orbita delle nuove tendenze, distinguendosi per via del fatto che più di ogni altro guarda anzitempo all’arte come ad un’operazione puramente strutturale. Questo suo sentimento si esplicita, più che nei paesaggi, nei ritratti e nella figura. Senza dubbio una contraddizione, ma solo apparente: nel ritrarre persone si sente meno coinvolto emotivamente che nel ritrarre paesaggi.
I primi lavori, quelli eseguiti in Italia fra il 1825 e il 1828, sono i migliori. Sono nitidissime costruzioni realizzate unicamente con la giustapposizione di tinte: dal punto di vista teorico la sua ricerca non differisce sostanzialmente da quella di Ingres. Con l’avvento del Romanticismo la sua vena realistica cede a suggestioni chiaroscurali, velature cromatiche e cadenze melodiche. Tuttavia il sentimento di Corot è diverso da quello di un Delacroix e degli stessi paesaggisti della scuola di Barbizon; non è impeto, né impatto che deforma la realtà, ma identificazione del soggetto con l’oggetto, la natura. La natura di Corot non è il Creato; non è mondo esterno contrapposto a mondo interiore, ma stimolo a cui reagire, cioè esistenza in atto. E siccome questa reazione avviene tramite gli strumenti della pittura, quindi se ne deduce che l’operazione pittorica non è altro che espressione di una coscienza. Ci sono dunque in Corot, nel modesto, grandissimo Corot i motivi fondamentali che ispireranno le esperienze a venire degli impressionisti fino a Cezanne (1839-1906).
Se la natura è stimolo, la pittura è reazione; se la reazione non trasforma ma rispetta la natura, la reazione ha una doppia valenza, conoscitiva e morale; se questa reazione si chiama sentimento allora il sentimento non è sopraffazione ma conoscenza pragmatica.