L’ARTE DEL VENTENNIO CHE HA DATO ORIGINE AL NOSTRO PRESENTE
IL MODERNISMO
LIMITI DEL MODERNISMO
RAPPORTO FRA ARTE E INDUSTRIA
L’ARCHITETTURA NOUVEAU
LA SITUAZIONE NELLA SECONDA METÀ DELL’OTTOCENTO E L’ARCHITETTURA DEGLI INGEGNERI
PITTURA E SCULTURA DEL PERIODO MODERNISTA
LE AVANGUARDIE STORICHE
CONFIGURAZIONE VISIVA DELLE AVANGUARDIE
LINEE DISTINTIVE FRA LE PRINCIPALI CORRENTI D’AVANGUARDIA
LA NUOVA CONCEZIONE DELL’ARTE
I PRECURSORI DELL’ESPRESSIONISMO: ENSOR
MUNCH
SUDDIVISIONE CRONOLOGICA DEL NOVECENTO
L’ESPRESSIONISMO: SIGNIFICATO DEL TERMINE E CARATTERI GENERALI
CONTRIBUTO DELL’ESPRESSIONISMO AL PENSIERO ARTISTICO D’AVANGUARDIA
IMPORTANZA DELLA MANUALITÀ NELLA TECNICA ESPRESSIONISTA
ARTE COME ESPRESSIONE
IN CHE MANIERA, ATTRAVERSO QUALI ELEMENTI STILISTICI SI RITROVANO ESPRESSE LE PRINCIPALI INNOVAZIONI DELL’ARTE ESPRESSIONISTA: CONFRONTO FRA DERAIN E KIRCHNER
LA NASCITA DEI DUE MOVIMENTI: LES FAUVES
I PROTAGONISTI: MATISSE
DE VLAMINCK
ANCORA DERAIN
ROUAULT
DIE BRÜCKE
ANCORA KIRCHNER
GLI ALTRI PROTAGONISTI DEL BRÜCKE
OSKAR KOKOSCHKA
EGON SCHIELE


L’ARTE DEL VENTENNIO CHE HA DATO ORIGINE AL NOSTRO PRESENTE

Parigi, Grand Palais
ESTERNO (1900)

Mi sembra di aver letto da qualche parte o sentito dire da qualcuno, non ricordo bene, che le cose si apprezzano di più se si conoscono. Se è vera questa affermazione allora è ancor più vera nel caso dell’arte moderna. Infatti non si può apprezzare l’arte contemporanea senza conoscere le cause che l’hanno generata. E per conoscere le cause che hanno dato vita all’arte della nostra epoca occorre partire dalla situazione artistica del primo Novecento, e più precisamente dal confronto dialettico fiorito nei primi anni del secolo che si è concluso, poiché è proprio in questo ambito che nascono i principali elementi strutturali che andranno a costituire i vocaboli di tutte le espressioni attuali.
Storicamente il Novecento si apre così come si chiude l’Ottocento, all’insegna di una nuova rivoluzione industriale. Di fronte al mondo che cambia l’arte reagisce in due modi diametralmente opposti. Le correnti più avanzate che si fronteggiano sul finire del XIX secolo sono il Simbolismo e il Neoimpressionismo; quindi ci sono artisti “sciolti” come i postimpressionisti Cezanne (1839-1906), Van Gogh (1853-1890), Gauguin (1848-1903). I simbolisti si disinteressano delle cose di questo mondo perché lo ritengono ormai irrimediabilmente perduto a causa del suo carattere positivista, di conseguenza si chiamano fuori per occuparsi di cose attinenti esclusivamente allo spirito. Ai neoimpressionisti, al contrario, il mondo contemporaneo interessa molto, anzi vogliono che l’arte sia sua espressione e pertanto intendono adeguarla alla nuova realtà tecnologica e industriale sperimentando nuove possibilità, lasciandosi definitivamente alle spalle il passato. I simbolisti distaccandosi dal contingente non sentono il bisogno di rapportarsi al sistema, dunque viene meno il loro interesse per le tecniche moderne; i neoimpressionisti invece volendo essere del proprio tempo sperimentano tecniche meglio equipaggiate per stabilire un contatto con la realtà in continua trasformazione, dunque la loro tecnica è progressiva. In entrambi gli schieramenti si lavora pensando ad un contesto umano ideale, non reale: i seguaci del primo pensano di rivolgersi ad una élite; i seguaci del secondo danno come sfondo delle loro ricerche una società tutta da costruire. Tutte e due le tendenze criticano la contemporaneità, ma in nessuna delle due gli adepti si sognano minimamente di togliersi i panni dell’intellettuale per entrare nel processo produttivo al fine di cambiare il contesto socioculturale reale. Nessuno, tranne coloro che guardano invece fiduciosi ad una possibile, concreta partecipazione dell’arte alla società effettiva del tempo.

IL MODERNISMO

Al fenomeno che vede l’arte totalmente inserita nel processo produttivo della società tecnologica e industriale viene dato il nome di modernismo.
Tutti gli artefici che vengono inclusi nella categoria dei modernisti vedono nell’industria un modo per uscire definitivamente dal passato, ciononostante, al di là dei buoni propositi, i risultati concreti ai quali giungono sono per la maggior parte deludenti. Il motivo sta nel baratro fra premesse e prodotti finali. Sebbene l’arte venga concepita come un agente del cambiamento, poi alla resa conclusiva gli operatori progressisti non riescono ad andare oltre l’aggiornamento delle forme tradizionali. Ciò che impedisce loro il vero rinnovamento può essere condensato in tre fattori causali principali. uno è la mentalità, spesso influenzata da idee nate nell’ambito del Simbolismo per cui le forme industriali sono forme prive di anima, di conseguenza sono le potenzialità formali della macchina che devono adeguarsi a quelle dell’arte; un altro è che ci si rivolge ad un repertorio morfo-sintattico ispirato alle forme naturalistiche, non esiste un repertorio formale che si possa adattare al fare delle macchine; il terzo concerne l’applicazione al campo privato: utilizzare la capacità produttiva delle macchine per fare opere di alta qualità artigianale è un controsenso.
Tutti e tre questi fattori spiegano una delle più appariscenti contraddizioni che caratterizza il modernismo e cioè: chi è veramente moderno, ovvero chi adegua le forme dell’arte alle nuove tecnologie, non viene neanche considerato un artista. Infatti i modernisti hanno difficoltà a riconoscere le opere sperimentali dei cosiddetti ingegneri strutturalisti, Gustave Eiffel (1832-1923), Victor Contamin (1840-1893), Francois Hennebique (1843-1921), John Fowler (1817-1899) e il nostro Alessandro Antonelli (1798-1888), autentiche opere d’arte moderniste. Incredibilmente i lavori di questi effettivi pionieri dell’architettura tecnologica sono ritenuti mera applicazione di principi scientifici ai nuovi materiali da costruzione prodotti dall’industria.
A parte le contraddizioni c’è da rilevare che stanti le differenze fra le varie tendenze esiste tuttavia un punto di fondo comune: l’anti-accademismo. Tutte le correnti moderne e moderniste infatti vogliono tagliare i ponti con l’arte appresa attraverso le scuole: l’architettura vuole rompere con l’eclettismo, la pittura e la scultura con l’arte pompier. Cosicché in questo momento si assiste ad una vera e propria esplosione di movimenti che aspirano ad essere del proprio tempo. I nomi stessi che li distinguono fanno esplicito riferimento alla volontà comune di sbarazzarsi una volta per sempre degli stili tradizionali. Al di là dei risultati, comunque, il modernismo rappresenta un decisivo passo in avanti per il futuro dei rapporti fra arte e società. Mentre postimpressionisti, neoimpressionisti e simbolisti intendono sollecitare con la produzione di quadri e statue l’umanità a guardare in direzione di un mondo alternativo, i modernisti prospettano all’arte una nuova possibilità d’impiego: entrare nel processo produttivo dei beni socialmente utili per migliorare l’esistenza di tutti i giorni, rendere più gradevole l’ambiente di vita quotidiano. Ciò significa lavorare affinché il moderno sia una realtà concreta, non solo utopia. Questo porta l’arte modernista ad esprimersi non più soltanto attraverso i soliti manufatti, tipici del lavoro tradizionale, ma anche attraverso mobili, utensili, macchine e quant’altro necessario alla vita reale.

LIMITI DEL MODERNISMO

Parigi, Museo delle Arti Decorative
Alphonse Mucha
MEDEA (1898)
Litografia, altezza cm. 20,8 – larghezza cm. 77

Monaco, Museo Nazionale Bavarese
Raoul François Larche
LOÏE FULLER (1901)
Lampada da tavolo
Bronzo dorato, altezza cm. 45,5

Parigi
Hector Guimard
INGRESSO DELLA STAZIONE DELLA METROPOLITANA A PORTE DAUPHINE (1900/1903)

Vienna, Museo Austriaco di Arti Applicate
Henri van de Velde
SCRIVANIA E POLTRONA (1898/1899)
Legno di quercia intagliato, bronzo, rame, cuoio
Scrivania, altezza mt. 1,22 – larghezza mt. 2,67 – profondità mt. 1,28
Poltrona, altezza cm. 72

Da quanto è stato appena detto per i modernisti l’arte ha un ruolo sociale ben preciso: migliorare la qualità della vita. Ma questo è anche l’obiettivo, diretto o indiretto, di tutte le altre correnti d’avanguardia. La differenza sta nel sapere di quale uomo i modernisti intendono migliorare la vita, e in che modo l’arte dovrebbe intervenire per migliorarne la qualità. Da ciò si evince comunque in modo abbastanza chiaro che partecipare al divenire della società significa decidere del ruolo sociale dell’arte nella moderna compagine tecnologica e industriale.
Il problema si presenta in chiari termini critici. Durante la sua millenaria storia l’attività creativa ha da sempre costituito un indicatore fondamentale del grado di civiltà di un determinato contesto socioculturale, ora, con lo strapotere di scienza e tecnica, questa funzione sta venendo meno. Data la situazione critica cosa intende fare l’arte per riaffermare il suo ruolo?
Per i modernisti il contributo dell’arte non deve essere solo quello di aiutare la società a prendere coscienza dei problemi della nuova realtà socioeconomica, ma anche quello di aiutare la società a migliorare il proprio aspetto estetico.
Riguardo al primo assunto c’è da dire che quantunque gli artisti modernisti si riferiscano all’uomo in generale chi poi in effetti beneficia della loro opera è la borghesia benestante. Riguardo invece al secondo va precisato che quando parlano di migliorare la qualità della vita intendono parlare di migliorare innanzi tutto l’aspetto estetico dell’ambiente in cui l’uomo moderno vive, ovvero la città.
La città a cui gli artisti modernisti si riferiscono è la città borghese quale espressione del nuovo sistema socioeconomico capitalistico. Perciò il modernismo si qualifica come ricerca di una linea estetica indirizzata a soddisfare le esigenze spirituali e materiali di una società che si identifica in una determinata categoria di persone che frequentano una determinata tipologia di edifici in un determinato ambiente urbano. Quindi, di fatto, il fenomeno si traduce in un’attività d’élite per una élite sociale, un’attività votata ad abbellire gli edifici pubblici e le dimore dei ricchi privati, nonché a ritemprare lo spirito dei signori che se lo possono permettere, ovvero, in altri termini, in un’arte di classe.
In conclusione l’artista modernista rimane sostanzialmente un artigiano al servizio dei potenti di turno, solo con qualcosa in più rispetto al passato: la disponibilità di nuovi materiali, nuove possibilità formali, nonché, per quanto riguarda gli architetti in particolare, di un nuovo apparato produttivo e tecnologico quale quello delle fabbriche. Resta insomma un essere speciale, ben lungi dal trasformarsi in progettista o operatore estetico, come invece, ormai, di fatto egli si sta trasformando. Spetterà al razionalismo architettonico rivoluzionare la figura del maestro creativo; per il momento non c’è alcun bisogno che l’artista rinunci alla sua eccezionalità. Egli creerà i modelli, gli originali che andranno ad ornare la vita dei signori; il resto della comunità si dividerà le copie, i sottoprodotti che l’apparato socio industriale penserà a produrre in serie e immettere sul mercato per il godimento di tutti.

RAPPORTO FRA ARTE E INDUSTRIA

Sulla nota questione del rapporto fra arte e industria la posizione modernista è quanto mai chiara e diretta. I prodotti industriali, fatti dalle macchine, tutti uguali, sono privi di anima, non posseggono nessuna qualità estetica. Il loro destino è quello di rimanere dei bruti pezzi di fabbrica, a meno che non si faccia qualcosa per redimerli dal loro stato. Ecco dunque che l’arte viene in loro soccorso per migliorare la qualità estetica dei prodotti dozzinali, riscattarli dalla loro bruttezza utilitaristica, vitalizzarli: in ciò consiste l’intervento dell’arte nell’apparato socio-produttivo. Il modo per raggiungere tale risultato è aggiungere un che di estetico ad una forma dettata dalla mera funzionalità pratica, e questo “che” di estetico è l’ornamento.
Lavorare in tal senso è fuor di dubbio una maniera per contribuire a migliorare l’ambiente dove l’uomo vive; e non solo, rendere belle le cose ordinarie è meglio che renderle solo ordinarie: è un’interpretazione dell’arte come mezzo funzionale al sistema. Ad onta delle buone intenzioni però l’interpretazione modernista dell’arte come strumento funzionale al sistema ha un difetto: ridurre tutto il problema della sua ragion d’essere alla mera decorazione del nuovo ambiente urbano.
Sta di fatto che l’intervento modernista si limita alla sovrastruttura, al decoro e all’abbellimento della civiltà industriale, non entra nel merito della struttura, non la intacca. Realizzare quadri e statue, come disegnare suppellettili, mobili e carte da parati è parte integrante del grande disegno di fare dell’arte un mezzo finalizzato all’ornamentazione della vita cittadina. Cosicché, al di là degli enunciati, pittura e scultura si risolvono in una specie di manifattura d’ingegno confinata nell’ambito della committenza borghese aggiornata, una produzione destinata a spazi mondani pubblici o privati come i salotti delle case bene. Solo con l’avvento del funzionalismo architettonico e con la cancellazione della pregiudiziale ideologica dell’anti-positivismo si passerà dal livello sovrastrutturale a quello strutturale, di modo che, superata la funzione esclusiva dell’opera d’arte, l’oggetto prodotto in fabbrica, e non più soltanto quadri e statue, assurgerà a emblema del grado di cultura estetica e preparazione tecnologica, e non solamente tecnologica, di tutto il sistema produttivo.
Accantonati i limiti, comunque, il modernismo rappresenta uno dei momenti più importanti della storia dell’arte degli ultimi due secoli proprio perché il suo verificarsi dimostra in modo inequivocabile che l’intesa fra arte e apparato produttivo industriale, arte e civiltà delle macchine è possibile, e non solo, ma è anche un modo sicuro per ridare all’esperienza estetica un ruolo preminente nell’ambito della società moderna, nonché per aggiornare il linguaggio artistico.

L’ARCHITETTURA NOUVEAU

Glasgow
Charles Rennie Mackintosh
ESTERNO DELLA SCUOLA D’ARTE (1896/1909)
Veduta d’epoca

Bruxelles
Victor Horta
ATRIO DELL’HOTEL TASSEL (1892/1893)

Tony Garnier
PROGETTO DELLA CITÉ INDUSTRIELLE (1899/1904)
Particolare di un quartiere residenziale

Espressione tipica del modernismo fin de siècle è quel particolare indirizzo stilistico denominato Art Nouveau. L’Art Nouveau nasce in Belgio, ma i suoi antecedenti diretti sono i prodotti delle aziende arts and crafts fondate da Morris (1834-1896) e company in Inghilterra. Essendo uno stile che vuole interpretare lo spirito della società moderna l’Art Nouveau si diffonde uguale in tutta Europa; cambia solo il nome a seconda delle nazioni in cui fiorisce. In Inghilterra si chiama Modern Style, in Spagna Modernismo, in Germania Jugendstil, in Austria Sezession Stil, in Italia Liberty o Floreale. Le sue componenti culturali sono da ricercare sia nel Simbolismo, francese, che nel Preraffaellismo, inglese.
Fra tutte le discipline visive nouveau, l’architettura è quella che si presta meglio ad applicare i principi del modernismo, complice la sua stessa vocazione sociale, nonché il suo rapporto con l’industria. Infatti con la rivoluzione industriale e il positivismo molti dei materiali da costruzione tradizionali vengono sostituiti dai nuovi materiali prodotti in fabbrica. Questi hanno le loro caratteristiche peculiari, sono parti di strutture intere realizzate negli opifici e messe in opera sul posto. Il montaggio prevede nuovi modi d’assemblaggio dunque anche le tecniche costruttive cambiano. Punto centrale per tutti gli animatori del modernismo architettonico è la ricerca di una linea estetica capace di fornire una veste decorosa ai prodotti della nuova civiltà delle macchine. Il concetto dominante in questa prima fase è che spetta alla morfologia industriale, qualora desideri essere arte, adeguarsi ai modelli estetici dell’attività creativa (modelli ispirati ai valori artigianali), e non viceversa, alle forme dell’arte adeguarsi alle potenzialità estetiche delle macchine. Nascono alla luce di questo principio le opere di artisti come Guimard (1867-1942), Mackintosh (1868-1928), Horta (1861-1947), Van de Velde (1863-1957), Perret (1874-1954) e Gaudì (1852-1926).

LA SITUAZIONE NELLA SECONDA METÀ DELL’OTTOCENTO E L’ARCHITETTURA DEGLI INGEGNERI

Parigi, Opéra
Tony Garnier
ESTERNO (1863/1875)

Parigi
Gustave Alexandre Eiffel
TOUR EIFFEL (1887/1889)
Acciaio, altezza mt. 300

Essere moderni significa emanciparsi dalla situazione culturale che domina la seconda metà dell’Ottocento: l’accademismo eclettico, espressione della ricca borghesia finanziaria e imprenditoriale al potere. Sono di questo periodo costruzioni come l’Opéra e la Tour Eiffel, l’emblema stesso di Parigi. Il suo autore si chiama Alexandre Gustave Eiffel, un ingegnere. Si tratta dell’opera più nota fra quelle definite d’ingegneria. La Tour Eiffel non è considerata un monumento in quanto frutto esclusivo di tecnica e calcolo, cioè gli manca l’anima. Niente di più assurdo! Le più grandi realizzazioni di tutti i tempi sono quelle in cui la forma corrisponde alla struttura e alla funzione. E poi sono proprio gli ingegneri strutturalisti che rappresentano il fronte più avanzato in campo architettonico; è da loro che arriva la spinta più massiccia in direzione del rinnovamento.
La prima opera ad essere realizzata nello spirito dello strutturalismo ingegneristico è il Crystal Palace, costruito per l’Esposizione di Londra del 1851 da Joseph Paxton (1803-1865). Smontato e rimontato a Sydenham, a sud di Londra, viene distrutto da un incendio nel 1937. In Italia c’è la Mole Antonelliana, eretta a partire dal 1878 e portata a termine dopo il 1900, e la Galleria di Milano, di Giuseppe Mengoni (1829-1877), realizzata fra il 1865 e il 1877.

Barcellona, Sagrada Famiglia
Antoni Gaudí
ESTERNO (iniziata nel 1883)

Barcellona, Casa Milà
Antoni Gaudí
ESTERNO (1906/1912)

Barcellona, Casa Battló
Antoni Gaudí
ESTERNO (1904/1907)

Barcellona, Parco Güell
Antoni Gaudí
ESTERNO (1900/1914)

Modernista è considerata anche l’architettura di Antoni Gaudí. Antoni Gaudí nasce a Reus e muore a Barcellona 15 giorni prima di compiere 74 anni. Le sue opere si distinguono immediatamente per l’impronta personalissima. Sembrano creazioni nate per incanto, puro spirito solidificatosi improvvisamente in forme vagamente magmatiche, colate di lava virtuale fattesi realtà a contatto con l’aria. Come Dio dal fango, Gaudí dà vita alle sue creature plasmandole idealmente nella materia ancora calda: è il suo modo di intendere l’architettura, l’esatto opposto di quello che sarà poi il modo corrente di intenderla. Nella sua mente è una tecnica moderna sottoposta alle esigenze della genialità dell’artista creativo, il solo in grado di dominarla fino al punto da sfidarne la stessa logica costruttiva. Le sue fabbriche lasciano incantati, ma una volta che ci si è ripresi dallo stupore occorre considerare che l’apparente felicità inventiva è sostenuta da una grande padronanza dei mezzi tecnici, nonché da una fervente immaginazione, capace di trovare soluzioni ad ogni esigenza formale.
L’opera più celebre di Antoni Gaudí è la Sagrada Familia, iniziata nel 1883 e a tutt’oggi ancora in costruzione. La Sagrada Familia nasce nello spirito del Neogotico ottocentesco, ma supera ogni carattere eclettico grazie alla fantasia rielaborativa di Antoni che riesce a dare alla cattedrale gotica il senso di una immagine irreale, la materializzazione di un sogno.
Diverse e numerose sono le componenti culturali che entrano nella formazione del linguaggio gaudiano, tuttavia la sua originalità è dovuta solo in parte alla singolarissima realtà artistica spagnola, ricca di stimoli derivati dalla colorita tradizione culturale. Gli edifici di Gaudí nascono soprattutto dalla sua fantasia farneticante; sono come grandi sculture plasmate direttamente nello spazio urbano. Oltre la Sagrada Famiglia, più straordinarie ancora, ci sono le sue invenzioni in campo civile come le case Milà, Battló e il Parco Güell, tutte a Barcellona.

PITTURA E SCULTURA DEL PERIODO MODERNISTA

Parigi, Museo Rodin
Auguste Rodin
LES BOURGEOIS DE CALAIS (1884/1886)
Bronzo

Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna
Medardo Rosso
IMPRESSIONE DI BAMBINO DAVANTI ALLE CUCINE ECONOMICHE (1892)
Cera

L’assunto modernista trova applicazione anche in scultura e pittura. Artisti come Klimt (1862-1918) e Rodin (1840-1917) non rinunciano a fare quadri e statue ma non vogliono neanche farli per una società inesistente, ideale, come invece fanno i simbolisti e i postimpressionisti, li vogliono fare per la società reale, quella borghese, quella fatta di fabbriche e città. Naturalmente non rinunciano all’arte come modello ideale, solo che gli danno come sfondo la società reale, pensando di aiutarla a diventare più spirituale e meno materiale integrandosi al sistema e non chiamandosi fuori o correndo miglia più avanti (che poi è la stessa cosa che chiamarsi fuori). Ecco dunque Rodin fare statue per le piazze cittadine e Klimt decorare case borghesi.
Auguste Rodin è lo scultore più importante del periodo; è il “Michelangelo della Belle Époque”; lo scultore sublime; il maestro dai pensieri profondi. Eppure neanche un artista del suo calibro sa pensare ad un’arte nuova fondata su una nuova cultura. Di fatto Auguste si limita ad integrare la ricerca visiva al contesto socioculturale attingendo alle fonti più avanzate: molti dei suoi lavori vanno infatti considerati dei monumenti moderni. In effetti non ha capito che per essere moderni non occorre fare dei monumenti moderni, ma abolire il concetto di monumento, cosa questa che avevano fatto già artisti come Daumier (1808-1879), Degas (1839-1906) e Renoir (1841-1919).

Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna
Gustav Klimt
LE TRE ETÀ DELLA DONNA (1905)
Olio su tela, altezza mt. 1,80 – larghezza mt. 1,80

Gustav Klimt nasce a Baumgarten, presso Vienna, e muore a Vienna all’età di 56 anni. Le iniziative di rivolta contro l’arte tradizionale, ovvero contro l’eclettismo fin de siècle portano alla fioritura di varie secessioni; quella viennese è capeggiata da lui. Il movimento assume una connotazione particolare per via del semplice fatto che una tradizione Vienna e l’Austria non l’hanno mai avuta. La qual cosa porta la secessione ha prefiggersi come obiettivo quello di creare più che una nuova arte austriaca un’arte in Austria.
Con Gustav l’Art Nouveau esprime tutto il meglio di sé. L’eleganza lineare, il preziosismo cromatico, l’estrema raffinatezza, la bidimensionalità formale e l’allungamento delle figure non sono semplicemente uno stile, ma i sintomi di un mondo decadente, quello della Vienna ottocentesca, che va estinguendosi sotto l’incalzare della modernità, industriale e tecnologica. Come l’arte bizantina, la pittura di Klimt è la cantatrice di un’epoca in via di estinzione che riesce a sopravvivere solo grazie a sé stessa. Il suo capolavoro è la decorazione della casa Stoklet.

LE AVANGUARDIE STORICHE

Chi vede nel modernismo un modo per chiudere veramente col passato e propiziare il futuro sono le cosiddette avanguardie storiche. Per creare un linguaggio moderno per una civiltà moderna innanzi tutto non ci si deve limitare ad aggiornare vecchie forme a nuovi contenuti, ma si devono creare nuove forme per nuovi contenuti. Per fare ciò non c’è da inventarsi nulla, basta seguitare il lavoro intrapreso da postimpressionisti e neoimpressionisti. I primi a intraprendere questa strada sono gli espressionisti. La Belle Époque non è bella per tutti. Il progresso tecnico non porta assolutamente al miglioramento delle condizioni sociali dell’intera comunità, dunque non cancella i conflitti. In campo artistico le forze di segno negativo vengono inesorabilmente represse. Ci sono due maniere fondamentali: una segue vie dirette e consiste nell’operare un controllo sulla produzione artistica sia attraverso la committenza che attraverso le giurie delle esposizioni d’arte; l’altra segue vie indirette e consiste nel creare le condizioni concrete per cui l’arte che non ha una funzione “costruttiva” nel quadro della nuova compagine socioeconomica e culturale, cioè non si adatta agli uffici che la classe dirigente le riserva, non ha più ragione d’essere se non essere emarginata. Questo ostracismo però non fa altro che provocare la formazione di vere e proprie correnti di opposizione. La presenza di tali sacche eversive disturba l’ottimismo marcato Art Nouveau. Il loro obiettivo principale è quello di turbare, scandalizzare, inquietare. Perché? Perché si vuole, si cerca, si ottiene la reazione delle coscienze. Per questo motivo le si aggredisce con un linguaggio crudo, violento, provocatorio; per questo a volte le si confonde con un linguaggio ermetico ed estenuato.
Proprio perché gettano ombra sull’ordinata armonia di facciata della società borghese queste forze finiscono per screditare una poetica che riduce tutto il problema dell’arte alla sola questione estetico-decorativa, ovverosia induce l’attività figurativa ad occuparsi solo del bello sovrastrutturale. L’arte è qualcosa di più che un semplice mezzo di ornamentazione della bella vita cittadina; è qualcosa di più che mera estetica, decoro per non turbare con la bruttezza del mondo l’animo sensibile delle persone per bene. Per chi ha l’animo romantico il problema del rapporto fra arte e società non si può ridurre tutto ad un semplice intervento di abbellimento urbano. Il lavoro artistico è un lavoro che serve a rinnovare l’esperienza sensibile del mondo, oggettivo o soggettivo che sia, a svelare nuovi aspetti delle immagini delle cose senza annullare il valore dell’individuo, arricchire il nostro patrimonio visivo aiutandoci a vedere la realtà in modo sempre diverso e indipendente. L’arte romantica è l’ultima possibilità che ha l’uomo in quanto individuo, ma anche in quanto lavoratore, di stabilire un contatto diretto fra mondo esterno e interno, fra essere e sensibilità viscerale soggettiva, individuale, in modo immediatamente e empiricamente rilevabile, senza interferenza alcuna né da parte di una macchina, né da parte di una tecnica sociale, l’industria, che aliena il prodotto da questo contatto, né da parte di un principio superiore, astratto, universale, come l’oggettività scientifica. Nascono così, in questo clima di rovente polemica culturale, le avanguardie storiche, movimenti di denuncia e di contestazione.
Per le avanguardie storiche il grado di civiltà di una società si misura con la militanza critica; per loro l’arte non deve essere necessariamente ricerca del bello, bensì, in senso molto più generale, comunicazione. In seguito a ciò il loro operato così come il loro modo di vivere diventa paradigmatico del prezzo che l’arte deve pagare per non soggiacere alle esigenze della nuova realtà tecnologica e industriale pilotata dalla borghesia capitalista. In tal senso vanno lette non solo le opere ma anche le manifestazioni di vita corrente degli artefici dell’avanguardia storica. Definire i modi d’espletamento di questo impegno e i processi attraverso cui si attua diventa il compito principale delle varie correnti che si formano all’inizio del Novecento.

CONFIGURAZIONE VISIVA DELLE AVANGUARDIE

Gli artisti d’avanguardia non vogliono l’aggiornamento delle concezioni, i modi, le tecniche dell’arte, vogliono il loro rivoluzionamento. Per loro essere all’avanguardia significa ricusare ogni regola, rifiutare ogni censura, bandire ogni decoro. Se l’arte in cui si riconosce la borghesia capitalista si qualifica come “modernismo” ed è uno stile, dunque vuole le sue regole e le sue censure, un’arte che aspiri ad essere anti-borghese e che si definisce d’avanguardia non potrà che essere sregolata e incensurata, e men che mai identificarsi in uno stile. Se l’ipocrisia borghese si riconosce in una creatività decorosa, la creatività indecorosa non può che identificare la sincerità anti-borghese.
Così facendo le avanguardie si espongono al rischio dell’emarginazione sociale. L’arte delle avanguardie è poco gradita, suscita reazioni spesso violente, fino al punto da volerla bandita dalla società. Non tanto per il suo messaggio ideologico, un’arte che si rivolge all’individuo per fornirgli un modello di liberazione dai condizionamenti culturali è un’arte sediziosa, quanto piuttosto per il suo modo di presentarsi, così provocatorio e sovvertitore del gusto filisteo da essere intollerabile. Cionondimeno rimane il nodo critico riguardate la funzione sociale di un’attività che invece di rendere più gradevole la vita di tutti i giorni la turba. A cosa le serve alla comunità un’arte che dà forma a tutta quella parte di mondo umano, dell’interiorità personale, soggettiva del singolo individuo, del proprio io che non piace perché disorienta, perché ci fa sentire infelici e vulnerabili, quando invece ci si crede felici e onnipotenti grazie alle macchine? All’inizio la soluzione è quella di sbarrarle la strada, impedirle di mostrarsi, poi, attraverso il collezionismo, si cercherà di integrarla al sistema.
Se è vera la massima per cui tutti sono utili, nessuno è indispensabile, l’utilità di un’arte che invece di aiutare la società a progredire facendola sentire bella cerca di farla progredire denunciandone le incoerenze sarà quella di diventare l’alter ego, la coscienza della comunità civile, attraverso cui ognuno si prenderà la fetta di colpa nella determinazione della situazione di fatto, ma nessuno si sentirà poi in dovere di porvi rimedio.

LINEE DISTINTIVE FRA LE PRINCIPALI CORRENTI D’AVANGUARDIA

Il rifiuto della società borghese si manifesta in due modi distinti: c’è chi persegue poetiche di estraniazione dalla realtà scientistica, di volontaria alienazione, e c’è chi, al contrario, vuole operare nella realtà sociale per denunciarne l’altra faccia, il volto nascosto. Questi ultimi intendono inserirsi nella società del proprio tempo e partecipare al suo divenire, anche se su posizioni critiche (ché anche di critica si cresce). I primi vedono l’impossibilità di una convivenza fra arte e società industriale e pertanto non intendono prendere parte al suo sviluppo, non vogliono adoperarsi per migliorarla, ponendo l’arte come struttura destinata ad altri fini, assolutamente incompatibili con il mondo degli affari. Le correnti riconducibili al primo schieramento si sviluppano dal Simbolismo; le correnti riconducibili al secondo schieramento benché in antitesi con l’Impressionismo discendono da questa corrente. Tutte sono d’accordo su un punto: il lavoro industriale è alienante, quello artistico no. Comune resta dunque l’idea di un’attività definalizzata dalla funzionalità strumentale al sistema. Compito dell’artista d’avanguardia è definire in che cosa consista di fatto l’esercizio dell’arte capace di contrastare i danni dell’alienazione e del conformismo.
Rientrano nel primo schieramento poetiche come la Metafisica e il Surrealismo; rientrano nel secondo schieramento orientamenti quali il Cubismo, il Futurismo, il Suprematismo, il Costruttivismo e il Neoplasticismo, nonché movimenti come Der Blaue Reiter. Un discorso a parte va riservato al Dadaismo. Questo quadro nella seconda metà del Novecento cambia solo nella forma, ma non nella sostanza, e anche oggi, a terzo millennio appena iniziato, in piena era post-moderna rimane fondamentalmente lo stesso, anche se c’è da rilevare una netta prevalenza delle correnti riconducibili al Dadaismo su quelle riconducibili agli altri due fronti.
Fra i sostenitori della partecipazione si distinguono due ulteriori diversi schieramenti: quello che intende l’arte come conoscenza operativa strutturale dell’aspetto espressivo dell’immagine visiva della realtà e quello che intende l’arte come testimonianza esistenziale di chi affronta il mondo con i soli mezzi dell’arte. Il primo discende dagli impressionisti, da Cezanne, dai neoimpressionisti; il secondo da Van Gogh e Gauguin. Nel primo caso l’arte è intesa come pura ricerca strutturale, fine a sé stessa, nel secondo come pura espressione di forze reattive; la prima agisce nella sfera intellettiva, la seconda in quella emotiva. Due correnti si distinguono anche sul fronte della non partecipazione. Una vede l’arte come visualizzazione di mondi altrimenti invisibili, espressione di realtà psichiche; una vede l’attività estetica come sovvertimento totale delle regole seguite dall’arte fino a questo momento. La prima discende dal Simbolismo, la seconda nasce nell’ambito della critica radicale al positivismo scientifico. In particolare, in quest’ultima corrente non ci si accontenta più di contestare lo stato di fatto, ma si propende per una rigenerazione dell’arte in generale, cominciando dalla contestazione delle sue stesse radici storiche, inoltre non sarà più l’artista a indicare il modo in cui dovrà essere utilizzata l’opera, ma sarà la società a dover pensare a come utilizzarla.

LA NUOVA CONCEZIONE DELL’ARTE

In campo estetico l’avvenimento fondamentale che assume il significato di linea di demarcazione fra Ottocento e Novecento è il definitivo trapasso dell’arte da rappresentativa a funzionale. Vediamo che cosa s’intende precisamente per arte funzionale e a chi o a cosa deve essere funzionale.
In natura, così come avviene nella tecnologia, la forma dipende strettamente dalla funzione. Un oggetto scolpito o un quadro, non diversamente, dovrà avere forme che dipendono dalla funzione che i singoli elementi strutturali svolgono nel contesto dell’immagine, e non dalla proiezione dei raggi visivi su un piano sezionante. Il suo fine ultimo è quello di creare un insieme sempre nuovo di forme e colori, senza altro obiettivo che procurare sensazioni. Non è una novità: tutta l’arte, dagli albori della civiltà ad oggi, non è stata altro che un immenso spreco di energie erogate per creare oggetti il cui unico scopo è stato quello di suggestionare. La differenza sta nel fatto che questa volta non sarà più l’oggetto raffigurato a innescare emozioni, bensì gli elementi strutturali, il ritmo con cui si aggregano nell’opera, l’equilibrio dell’insieme. Quindi per essere arte funzionale un’opera deve essere dimostrativa dei propri processi strutturali, non rappresentativa di oggetti. L’arte, cioè, non ricostruisce più una realtà data, magari espressiva di uno stato d’animo, ma è il risultato di un processo creativo finalizzato alla produzione di fatti visivi inediti, ovvero di nuove immagini che abbiano in sé la consistenza concreta degli oggetti fisici, il cui obiettivo strumentale è quello di rinnovare la visione consuetudinaria delle cose, dunque del rapporto fra individuo e mondo, nella suggestività della comunicazione. Dalla concezione funzionalista in poi, dunque, di fronte ad un’opera d’arte non ci si deve più chiedere cosa rappresenti, al limite non ci si deve chiedere niente, la si deve guardare e basta. Ma se non si può proprio fare a meno di chiedersi qualcosa, allora ci si può domandare, ad esempio, quale sia la sua struttura, quali sono gli elementi che la determinano e come stanno insieme, quale funzione svolgono all’interno dell’opera. Cosicché il valore di un’opera d’arte nel Novecento non è più stabilito dal significato della raffigurazione, ma dalla raffigurazione in sé; ad un’arte di rappresentazione succede un’arte di azione, e il valore di un quadro, di una scultura non sta in quello che dice, ma in quello che mostra. L’opera d’arte non risulterà più un oggetto virtuale che fa da supporto ad altre realtà, bensì sarà un oggetto reale, una cosa fra le altre cose, l’impronta concreta lasciata dal soggetto durante il corso della sua esperienza creativa. Il processo dell’arte non è più, come in passato, un processo finalizzato alla descrizione della realtà visiva, bensì è un processo teso a estrarne l’aspetto espressivo, né è più un modello di processo tecnico che richiede un’elevata abilità artigianale, ma è un processo strutturale, che richiede poche ma decise manovre tecniche. L’opera d’arte nell’epoca del funzionalismo costituisce il modello attraverso cui l’individuo vede in che cosa consiste di fatto il processo rigenerativo della visione convenzionale delle cose; e in un mondo in cui l’apparato produttivo produce oggetti uguali per tutti, mostrare in quale risultato si configuri l’esperienza creativa del singolo non è un fatto da poco.

BATEAU-LAVOIR Foto d’epoca

LA RUCHE
Foto d’epoca

New York, Collezione privata
Maurice Utrillo
IL 14 LUGLIO IN PLACE DU TERTRE (1914)
Olio su tela, altezza cm. 46 – larghezza cm. 60

A questo punto della nostra navigazione nelle acque dell’inizio del Novecento è arrivato il momento di fare la conoscenza degli artisti che orbitano nei circuiti sfuggiti al controllo delle forze sociali, vedere come vivono e dove lavorano. Lo sfondo è lo stesso della rivoluzione impressionista: Parigi.
All’alba del nuovo secolo Parigi è senza alcun dubbio la città più moderna d’Europa, se non addirittura del mondo. È lei la capitale della moda; la capitale del divertimento; da lei si sperimentano le tecniche più avanzate in fatto di ingegneria edile e meccanica. Ma Parigi al principio del XX secolo è soprattutto la capitale dell’arte, e non solo di quella modernista. Si fa arte ovunque e a tutti i livelli. Non ci sono più soltanto i Salon ad ospitare dipinti e sculture; opere d’arte figurano anche in edifici pubblici come banche, borse, padiglioni fieristici ecc.; e si fa arte anche negli edifici privati come le case della ricca borghesia imprenditoriale. Si lavora anche per l’industria, cosicché viene meno la distinzione fra arti maggiori e arti minori: anche una stoviglia può essere un’opera d’arte se a disegnarla è un artista. L’importante è avere uno spirito costruttivo, non creare problemi, ma aiutare la società a crescere. Tutte belle parole, ma quello che si vuole in realtà è controllare la libertà d’espressione.
Ai margini della città, nella periferia più recondita, lontana dal centro degli affari e dal lusso, si trova un luogo destinato a diventare famoso perché ospita molti degli artisti che diverranno i più importanti di tutto il Novecento. Si tratta della collina di Montmartre. Qui vive e lavora tutto un esercito di artisti squattrinati in cerca di affermazione, provenienti da ogni parte del mondo. Questi artisti bohémien hanno l’abitudine di ritrovarsi, tra un quadro (o una scultura) e l’altro, nelle caffetterie e nelle osterie del quartiere, a Place du Tertre, ad esempio, all’ombra del Sacré-Cœur. Qui si sfottono, si sfidano, parlano d’arte, si ubriacano. Fanno loro da contorno poeti, scrittori, critici e mercanti d’arte. Questo fenomeno dal sapore folcloristico locale diventa della massima importanza per la storia dell’arte. Non è solo per il fatto che proprio da questo folclore prendono vita, una dietro l’altra, le più strepitose e stimolanti opere d’avanguardia del secolo, paragonabili per la loro influenza sulle generazioni future alle opere dei più grandi innovatori della storia dell’arte come Lisippo (370-300 a.C. c.), Brunelleschi (1377-1446), Caravaggio (1571-1610), ma anche e soprattutto perché col loro comportamento, col loro modo di fare, di vivere, di operare, questi artisti, da cui sorgeranno i vari movimenti d’avanguardia, compiono un’operazione di straordinaria importanza nel quadro di rinnovamento culturale proprio dell’epoca, e cioè quello di rimuovere le abitudini visive dell’intera società industriale avanzata.

I PRECURSORI DELL’ESPRESSIONISMO: ENSOR

Anversa, Museo Reale di Belle Arti
James Ensor
INGRESSO DI CRISTO A BRUXELLES (1888/1889)
Olio su tela, altezza mt. 2,54 – larghezza mt. 4,31

L’Espressionismo è il fenomeno con cui si apre il periodo più rivoluzionario della storia dell’arte dell’intera epoca romantica, ovvero il periodo di formazione delle correnti d’avanguardia. Nasce dalla volontà di superare la pittura d’impressione, lo spiritualismo simbolico e il decorativismo art nouveau. Precursori dell’Espressionismo sono James Ensor (1860-1949) e Edvard Munch (1863-1944).
James Ensor nasce ad Ostenda e ivi muore a 89 anni. È un artista della generazione di Van Gogh, e molto vicino a quello di Van Gogh è il suo modo di intendere la pittura: un modo di partecipare al divenire della società. Contrariamente al suo quasi conterraneo (il Belgio è confinante con l’Olanda) James non rinuncia al contenuto, non delega tutto alla sola pittura. Come Van Gogh tre anni prima nei mangiatori di patate coglie in un quadro particolare l’Ingresso di Cristo a Bruxelles l’occasione per sentenziare un duro atto di condanna nei confronti della società del suo tempo, ma non lo fa denunciando con violenza la miseria in cui versa una parte del consorzio umano, bensì mettendo in luce con sottile ironia la paradossalità della situazione.
Il titolo del quadro è la parafrasi di un tema trattato molto spesso in passato: l’entrata di Gesù in Gerusalemme. I Vangeli raccontano che Gesù allorché giunto alle porte di Gerusalemme a dorso di un asino si vede inaspettatamente accolto da una gran folla festante. Ensor traspone il fatto ai tempi della Belle Époque, in una capitale nordica. Non è un’operazione inedita: il Medioevo e il Rinascimento sono pieni di scene in cui l’evento storico è attualizzato. Ma nel Medioevo e nel Rinascimento la cosa sta a significare la continuità della verità cristiana; non così in Ensor. Cristo è accolto da un corteo con tanto di banda, personalità politiche e civili, come se si trattasse di un personaggio famoso di ritorno al suo paese d’origine. Guardando bene questa folla però ci si accorge che non è fatta di individui, ma di personaggi mascherati, come se stessero partecipando ad una grande processione di carnevale. Ogni maschera caratterizza una particolare personalità, ma non è l’antica, nobile maschera del teatro greco-romano o della commedia dell’arte, bensì una maschera grottesca.
Quella folla mascherata che accoglie Gesù Cristo è la società, massa anonima fatta di fantocci, esseri senz’anima pronti oggi a inneggiare al Redentore domani a condannarlo a morte né più né meno che come 2.000 anni fa; moltitudine informe che si lascia frastornare dagli slogan preparati per loro dal potere e dalla musica assordante della fanfara. Per Ensor la musica è un ingrediente indispensabile per stordire le masse e predisporle all’obbedienza. A conferma di questa supposizione c’è una scritta che ci avverte trattarsi di una «fanfara dottrinaria» con l’aggiunta di «sempre riuscito». In testa alla banda c’è un generale con la giubba ricolma di medaglie; al centro di questa moltitudine festaiola e vociferante c’è Gesù, l’unico uomo rimasto tale, incorniciato nel grande nimbo e il corpo perso nella folla.
James è un fiammingo; Bosch (1450 c. – 1516) e Bruegel (1525 c. – 1569) erano fiamminghi. Anche loro hanno dipinto i difetti e le superstizioni della società in cui vivevano arrivando a deformare grottescamente la realtà. Ma non basta. Ci sono critici che nei quadri di Ensor ci vedono anche Rubens (1577-1640), tanto da parlare di un certo barocchismo che sarebbe presente in alcune sue opere. Ma allora perché non Goya?
Il fatto vero è che Ensor è un artista che ha saputo esprimere oltre che vedere ciò che si cela dietro le apparenze. Solo che per lui le apparenze sono l’umanità fatta di uomini, mentre le maschere sono la sostanza.

MUNCH

Oslo, Museo Munch
Edvard Munch
IL GRIDO (1893 c.)
Tempera su cartone, altezza cm. 83 – larghezza cm. 66

Edvard Munch è l’altro pilastro della corrente espressionista. Nasce a Löten, vicino Oslo, muore a Ekely, sempre vicino Oslo, a 81 anni. Nel 1892 espone a Berlino un quadro intitolato Il fregio della vita. Quest’opera provoca un tale scandalo che le autorità chiudono la mostra dopo solo otto giorni. La misura censoria scatena la reazione di alcuni artisti locali impegnati sul fronte del rinnovamento, che in segno di protesta fondano la secessione di Berlino, un’associazione di artisti che decide di manifestare platealmente il proprio dissenso separandosi dalla cultura ufficiale.
Oggetto di interesse di Munch è l’uomo. Ma l’uomo che lui vede non è l’uomo degli umanisti, centro del mondo, personaggio che suscita rispetto e ammirazione, bensì è l’uomo dell’epoca moderna, un uomo che trasmette solitudine, angoscia, terrore. Le fonti culturali di Edvard sono note: da una parte la tradizione popolare e dall’altra letterati come Ibsen drammaturgo (1828-1906), Strimberg scrittore (1849 -1912), e Kierkegaard filosofo (1813-1855).
Data la sua ispirazione letteraria Munch viene considerato fra i pittori letterati o un uomo di pensiero che si esprime in immagini. Tuttavia Edvard è un artista e ciò che conta è vedere se le sue opere suscitano o no emozioni. A tal proposito si provi un po’ a guardare Il grido.
Di questo soggetto ce ne sono diverse versioni, anche in litografia, tuttavia il loro significato è sempre lo stesso. Il grido è un quadro angosciante; trasmette una sensazione di ansia, pena, sofferenza attraverso la reazione primordiale del gridare. Non rappresenta un uomo che grida, esprime la condizione esistenziale dell’uomo moderno, e questa condizione è l’angoscia. L’angoscia non è la paura. La paura è provocata da un pericolo concreto, che si vede, l’angoscia è provocata da un qualcosa che si sente. Il senso del quadro però, sebbene chiaramente espresso nell’essere deforme in primissimo piano che si prende la testa fra le mani e emette un urlo, non è dato solo da questo, è piuttosto suscitato dall’aspetto allucinato dell’intera composizione. La prospettiva di un ponte illimitato, il fluttuare delle figure che si ripercuote nell’acqua, nella terra e nel cielo, i colori accostati con violenza, la mancanza di un asse di equilibrio che ordini il moto ondeggiante che si disperde verso lontananze infinite. È tutto questo a infonderci inquietudine, angoscia. È come se l’urlo che deforma il viso dell’uomo si trasmettesse a tutta la realtà circostante così da superare la dimensione del singolo per diventare un grido universale, di tutto il Creato, come confermerà lo stesso Munch quando dirà che in questo quadro ha voluto raffigurare il grido che ha sentito provenire da tutta la natura.

Oslo, Galleria nazionale
Edvard Munch
PUBERTÀ (1895 c.)
Tela, altezza mt. 1,50 – larghezza mt. 1,10

Dal 1893 al 1895 Munch dipinge un paio di tele il cui tema è la pubertà. È la stessa epoca in cui Monet (1840-1926) dipinge le sue cattedrali, Maurice Denis (1870-1943) le sue muse, Ferdinand Hodler (1853- 1918) firma Euritmia e Victor Horta realizza l’androne dell’Hôtel Tassel. Il tema espressivo è lo stesso affrontato da Gauguin nelle sue indigene: la rivelazione della vita di futura donna; cambia però il modo di interpretare l’argomento. La differenza consiste nel fatto che mentre le indigene di Gauguin vivono il trapasso dall’adolescenza alla maturità con ingenua rassegnazione, la giovinetta di Munch lo vive con angoscia. Perché? Perché ai tropici la maturità sessuale è regolata da leggi naturali, mentre nel paese della ragazzetta di Munch è disciplinata da imposizioni sociali.
La tematica del quadro discende dalla letteratura scandinava, da Ibsen e Strimberg, in cui uno dei temi più frequenti è la condizione sociale della donna, ma il senso di ansia le arriva dall’esistenzialismo di Kierkegaard. Munch legge nel volto della ragazza il timore per il destino che l’attende quando adulta si dovrà muovere fra i divieti sociali che le impediranno di essere sé stessa e la costringeranno a vivere la sua sessualità come una colpa. Di qui il timore che si stampa sul volto della giovane per il trapasso dallo stadio di fanciulla a quello di donna. Munch coglie nel suo sguardo l’angoscia per il suo futuro di adulta condizionato dall’obbligo di amare e procreare, fino al tragico epilogo finale: la morte.
Il vero soggetto, il contenuto è dunque il fatalismo, l’idea della predestinazione e l’angoscia che da essa ne scaturisce. Munch esprime questo stato psicologico da pittore. Il quadro è scarno, ci sono solo la ragazza, il letto e l’ombra. Che la ragazza sia un’adolescente ce lo dicono le mani e i piedi, sproporzionati rispetto al resto del corpo, il petto ancora da sviluppare e le braccia gracili. Ma una parte di lei è già adulta: le anche e il bacino sono di donna. Il volto tradisce uno sguardo sperduto e impaurito, inquieto per il mutamento che sente compiersi nel proprio essere. Dalla figura esce e si espande sulla destra un’ombra che dovrebbe essere ma non è della ragazza. Questa si trasforma in una specie di fantasma che invade l’intera parte destra e incombe minacciosa su tutta la scena; infine c’è il letto ancora caldo del corpo della giovane. Il linguaggio è duale, realista e simbolico insieme. È realistico nell’immagine della fanciulla e del letto, è simbolico nell’ombra che vuole essere la prefigurazione della vita futura. Ma il simbolo si mischia con la realtà, è parte della stessa dimensione; il letto e l’ombra sono i due estremi dell’esistenza, la vita e la morte; il corpo, metà infante metà donna, è il passaggio, il trascorrere del tempo dell’esistenza.
Realtà e simbolo, due contenuti storici ricorrenti che si ritrovano insieme. Non è una novità. Il contributo di Munch alla storia dell’arte sta nel fatto che il simbolo è parte della realtà, si mischia al contingente; per lui il simbolismo non è un modo per evadere dalla realtà, è un modo per penetrarla più a fondo.
Le sue opere girano tutte intorno allo stesso argomento; i titoli dei suoi quadri sono abbastanza indicativi: il letto di morte, la madre morta, la bambina malata, odore di morte ecc. In genere le sue tele sono desolate e desolanti. Se qualche volta gli capita di ospitare più personaggi questi sono isolati tra loro, tutti con gli occhi sbarrati e spalancati a palla a fissare l’osservatore come degli zombi. Ecco cosa suscita in Munch il contatto con la realtà: senso di rassegnazione, disagio, resa incondizionata ad una forza negativa che satura l’ambiente della vita.

SUDDIVISIONE CRONOLOGICA DEL NOVECENTO

Parigi, Museo Nazionale d’Arte Moderna
Maurice Vlaminck
INTERNO DI CUCINA (1904)
Olio su tela, altezza cm. 56 – larghezza cm. 45

Veniamo ora all’Espressionismo vero e proprio. Ma prima di cominciare a parlare dell’argomento vediamo come si suddivide cronologicamente il Novecento.
La storia dell’arte del Novecento può essere suddivisa in due fasi: la prima metà, che va dagli inizi del secolo alla fine della seconda guerra mondiale, e la seconda metà, che va dal dopoguerra fino ai nostri giorni. A loro volta queste due fasi possono essere suddivise ulteriormente in altri due periodi caratterizzati dall’alternarsi di momenti di spinte avanguardiste a momenti di riflusso. Il periodo compreso fra l’inizio del secolo e la prima guerra mondiale è caratterizzato dalla fioritura di un gran numero di correnti, rivoluzionarie e non, ma tutte fortemente innovatrici. Fa seguito, fra le due guerre mondiali, un momento di generale riflusso, un “ritorno all’ordine”. Dopo la fine della seconda guerra mondiale, con la ricostruzione, si produce una nuova ondata rivoluzionaria, definita neoavanguardia, che si esaurisce intorno alla fine degli anni settanta. Da allora ad oggi si è instaurato un nuovo clima post-rivoluzionario, un clima di mobilitazione globale permanente, in cui però le spinte sovversive si sono stemperate in un moderno manierismo. Chiusa parentesi entriamo nel mondo espressionista.

L’ESPRESSIONISMO: SIGNIFICATO DEL TERMINE E CARATTERI GENERALI

Benché espressionisti vengano specificatamente chiamati gli artisti appartenenti al movimento tedesco “Die Brücke”, l’espressionismo come fenomeno origina da due sorgenti distinte che si formano quasi contemporaneamente nel 1905, a secolo XX appena iniziato. Infatti oltre al movimento tedesco de “Il Ponte” (questo vuol dire “Die Brücke”), c’è quello francese delle “Fauves”, che significa letteralmente “Belve”. Da Les Fauves discende il Cubismo, mentre da Die Brücke il movimento “Der Blaue Reiter” (“Il Cavaliere Azzurro”), le prime correnti d’avanguardia.
Il termine “espressionismo” sta ad indicare un movimento dall’interno verso l’esterno, il prevalere dell’interpretazione soggettiva su quella oggettiva. L’espressionismo come fenomeno è dunque l’esatto opposto dell’impressionismo, e infatti nasce in contrapposizione ad esso, benché lo presupponga. Più che altro questa poetica si qualifica come superamento del carattere sensorio dell’Impressionismo, ma non ripudia affatto le conquiste culturali ottenute dagli impressionisti. In modo particolare guarda all’intuizione cezanniana che trasforma la superficie pittorica da sezione prospettica in piano strutturale dell’immagine.
Con l’Espressionismo viene a maturare il concetto romantico di arte come espressione di una condizione esistenziale, dunque un qualcosa di interiore, che non ha forma ma prende forma attraverso un processo strutturale; un genere di processo che non si risolve necessariamente nella creazione di un’immagine di tipo proiettivo. Naturalmente lo stato interiore non deve essere necessariamente un pessimo stato, può essere anche un ottimo stato; non è detto che per essere espressionisti si debba essere per forza di cattivo umore, si può anche essere di buon umore.
La differenza di “umore” è alla base dei due movimenti: la maggior parte dei tedeschi aderenti a Die Brücke esprime la condizione di un individuo socialmente disagiato che reagisce con violenza alla realtà di fatto, mentre la maggior parte delle Fauves esprime la condizione di un individuo che reagisce vagheggiando un mondo più decente. Insomma i tedeschi vedono la realtà peggiore di quello che è, mentre i francesi la vedono migliore; i primi sono pessimisti, i secondi ottimisti, ma tutti e due i movimenti hanno un modo comune di esprimere le loro personali sensazioni: le comunicano in maniera brutale, senza mezze misure, senza reticenze. Per capirne il motivo occorre calarsi nel contesto socioculturale dell’epoca.
Siamo in un’epoca in cui domina il perbenismo ipocrita, il pudore oscurantista della borghesia dirigenziale. Ma siamo anche nel periodo in cui l’arte si auto-isola, si rende innocua con le sue fughe nell’esotismo reale o immaginario, non si schiera. Chi è pro, i modernisti, ha già dimostrato di che cosa è capace; mancano gli oppositori. Questo ruolo lo assumono gli espressionisti.
Tutto ciò si traduce nella rivolta contro il falso modernismo, ma anche e soprattutto contro la fede nello scientismo e di conseguenza contro tutti quegli indirizzi che dello scientismo positivista ne esprimono i valori in termini figurativi, come ad esempio il Neoimpressionismo, su su fino a comprendere l’Impressionismo, e ancor più in là contro ogni forma di naturalismo vecchio e nuovo, edulcorato o meno. Per non parlare poi del Simbolismo verso cui c’è un netto rifiuto, e della sua tendenza visionaria e della sua tendenza all’autoemarginazione volontaristica, anche se comune è il modo di giudicare la società moderna.

CONTRIBUTO DELL’ESPRESSIONISMO AL PENSIERO ARTISTICO D’AVANGUARDIA

Con gli espressionisti l’io si libera da tutti i filtri culturali e morali per diventare pura realtà visiva. Per gli impressionisti e i postimpressionisti la realtà, naturale o sociale che sia, è puro stimolo; non la si giudica; non è negativa né positiva, è quella che è; negli espressionisti suscita una reazione che può essere piacevole o spiacevole, di esaltazione o di condanna, ed è questa reazione che si vuole comunicare. L’Impressionismo è neutrale, l’Espressionismo no. Tuttavia sia nell’uno che nell’altro si è convinti di una cosa: neutralità e giudizio non si comunicano attraverso un linguaggio rappresentativo, ma attraverso il processo operativo stesso.
Con l’Espressionismo si completa il passaggio dalla concezione classica dell’arte come sistema di rappresentazione, alla concezione anticlassica dell’arte come organizzazione di forze. Cezanne e Van Gogh avevano rinunciato alla forma per mettere in evidenza la struttura dell’immagine, ma in questa operazione rimaneva fondamentale il ruolo della realtà oggetto con cui l’immagine artistica doveva sempre confrontarsi. L’Espressionismo (quello marchiato “Die Brücke” in particolare) si orienta invece verso un procedimento operativo in cui l’oggetto concreto rimane più soltanto come stimolo iniziale a cui l’artista reagisce compiendo dei movimenti col braccio e con la mano. Questi movimenti non seguono l’immagine ottica che si stampa nella retina dell’osservatore né seguono l’immagine che si forma nella sua mente per intercessione delle varie facoltà intellettive, seguono gli impulsi profondi che nascono dalla reazione psicologica a quel che si sente essere oltre la sensazione luminosa e che si manifestano nelle tracce lasciate dai gesti con cui il soggetto operante muove gli strumenti sul piano di supporto. L’arte non è più riunione di punti (le sensazioni) lasciati dall’intersezione dei raggi luminosi sulla superficie della retina, ma azione, gesto. Ciò significa che l’arte non è più intesa come strumento di rappresentazione della realtà fenomenica, bensì come strumento di fenomenizzazione delle pulsioni interiori provocate dal contatto del soggetto con quella parte di realtà che pur percependola non la si vede; significa che l’arte non deve più necessariamente rappresentare qualcosa di visibile, ma può scandagliare anche quelle realtà che non si traducono in immagini naturali, come ad esempio il pensiero astratto o l’esistenza interiore. L’attività creativa è dunque la testimonianza esistenziale di una coscienza in essere. Affermare che l’arte è un’azione che si compie significa che, con gli espressionisti, di fronte ad un’opera non ci si deve più chiedere cosa rappresenti, cioè quale fenomeno visivo si stia analizzando, ma quale sensazione ci procuri, poiché il fine di quella particolare serie di gesti coordinati che si traducono in fenomeno visivo non è nient’altro che suscitare emozioni; dunque la sfera di pertinenza dell’arte non riguarda più il piano gnoseologico, ma sensitivo. Per gli espressionisti l’opera d’arte non ha il compito di spiegare la realtà, ma quello di esprimere una reazione emotiva; non è importante ciò che rappresenta, ma le sensazioni che suscita; non deve informare, ma comunicare i risultati del libero sentire creativo di fronte al soggetto. Essendo impostata sul gesto, l’immagine artistica non deve necessariamente scaturire dalla traccia del profilo dell’oggetto osservato, ma può benissimo prodursi attraverso l’operazione di accostamento di oggetti prelevati dall’ambiente circostante. Se poi l’arte è un’operazione fatta di azioni, l’opera d’arte non sarà più la copia della realtà, ma una realtà distinta, autonoma, espressione delle forze che creano forme tracciando linee, stendendo colore, tirando via materia.

IMPORTANZA DELLA MANUALITÀ NELLA TECNICA ESPRESSIONISTA

L’Espressionismo riprende e approfondisce il problema del ruolo sociale dell’arte, rafforzando la posizione di contrasto che fu già di Courbet (1818-1877) fra la tecnica artistica e la tecnica industriale, caricando la prima di una forte valenza etica.
L’operazione industriale è per il lavoratore moderno, l’ex artigiano della società preindustriale, ripetitiva e alienante; non comporta né rinnova l’esperienza della realtà; il suo prodotto tende per necessità economiche a porsi come standard, di conseguenza induce i comportamenti sociali a conformarsi ad un unico modello. Al contrario, l’operazione artistica induce e rinnova l’esperienza della realtà, non produce mai due volte lo stesso oggetto, questo rivolgendosi poi alla collettività dimostra quale possa essere la risposta creativa dell’individuo privo di condizionamenti agli stimoli provenienti dall’ambiente, sia naturale che sociale.
Nella poetica espressionista il fatto che la tecnica espressiva non può che essere manuale risulta un punto fondamentale. Naturalmente l’assunto è legato all’ideologia dei due movimenti fondatori, ma la ragione non è dettata dall’idea che gli strumenti della tradizione artigiana siano più sensibili alle pulsioni interiori, quanto dall’idea che lega, sembra necessariamente, il lavoro manuale alla condizione operaia e il lavoro intellettuale alla condizione borghese. Infatti nell’ambito della produzione sociale dei beni di consumo il lavoro intellettuale, il lavoro di concetto, viene svolto, è storicamente provato, dalla classe dirigente, borghese (anche il progettista degli oggetti ordinari fa parte dello staff tecnico dirigenziale); il lavoro manuale, comunque materiale anche se si tratta di spingere bottoni, viene svolto invece dalla classe lavoratrice. Salta agli occhi in questa situazione il fatto che l’operaio eseguendo un lavoro alienato dall’immagine dell’obiettivo da raggiungere, che non ha scelto lui, rappresenta un lavoro esclusivamente manuale. Ma l’operaio non è altro che un artigiano a cui la società borghese ha tolto la libertà e la dignità del lavoro. Il pensiero espressionista che vede l’arte come relazione continua, flusso, scambio ininterrotto fra oggetto e soggetto non può dunque identificarsi né con l’operaio né col professionista. Però è certo che si sente più vicino alla classe operaia che non a quella borghese, poiché si sente di condividerne la condizione di degrado indotta nell’uomo dall’industria. Con l’Espressionismo si vuole contrapporre l’arte come fare isolato, ma integro e libero dell’individuo, al lavoro della fabbrica equivalente al fare collettivo ma condizionato dalla tecnologia e dai padroni. Ciò pone quello espressionista come primo movimento artistico del nuovo secolo, di aperta e cosciente contestazione della società capitalista.
La poetica espressionista rivoluziona i valori costituiti dimostrando in che cosa di fatto si possa sublimare il lavoro meccanico dell’operaio se liberato dai condizionamenti della fabbrica, quali la volontà della classe dirigenziale e le leggi razionali, impersonali dei congegni meccanici. Inoltre, in ultima analisi, l’attività creativa riscatta il lavoro dell’operaio conservando al lavoro produttivo la libertà che era propria dell’artigiano preindustriale e che le è stata sottratta dall’organizzazione della produzione fondata sulla logica della fabbrica industriale.

ARTE COME ESPRESSIONE

Copenaghen, Museo Statale d’Arte
André Derain
DONNA IN CAMICIA (1906)
Olio su tela, altezza cm. 100 – larghezza cm. 81

Stoccolma, Museo Nazionale, Stoccolma
Ernst Ludwig Kirchner
MARCELLA (1910)
Olio su tela, altezza cm. 71 – larghezza cm. 61

In quanto arte di contestazione della società borghese l’Espressionismo potrebbe sembrare alieno dallo sviluppo del contesto socioculturale moderno, ma così non è, anzi, intende operare per cambiare la società e partecipare al suo sviluppo civile.
La maniera e i mezzi espressivi con i quali gli espressionisti intendono partecipare allo sviluppo civile della società moderna discendono da Van Gogh. Come questi aveva insegnato le immagini percettive sono la materia entro cui prende forma la reazione di chi posto di fronte alla realtà cerca di difendersi per evitare di esserne sopraffatto, assoggettandola, cioè oggettivandosi in lei, ovvero facendola propria, comprendendola. Il quadro diventa così l’immagine della realtà oggettivata del soggetto, cioè un’immagine che reca i segni, le impronte, le tracce dell’essere individuo, alias la coscienza. E siccome queste tracce sono le pulsioni viscerali che accompagnano il soggetto durante tutta l’esperienza visiva, non sono altro che i segni dell’esistenza dell’artista.
Con gli espressionisti la reazione difensiva di Van Gogh si trasforma in azione offensiva, cosicché le immagini percettive sono la materia entro cui prende forma l’azione di chi posto nella realtà cerca di operare in seno ad essa per riaffermare i principi di libertà espressiva, propri della condizione dell’artista. In nome di questi principi di creatività assoluta, contro la società industriale e capitalista che invece li soffoca, gli espressionisti si spingono ad escludere dalla figurazione artistica qualsiasi schema, qualsiasi immagine culturale precostituita, cioè, in altre parole, a ripartire da zero. Cosa significhi ripartire da zero lo aveva dimostrato Henri Rousseau, il Doganiere (1844-1910), che all’epoca dell’esordio degli espressionisti aveva 61 anni, e pure un bel po’ di quadri alle spalle.

IN CHE MANIERA, ATTRAVERSO QUALI ELEMENTI STILISTICI SI RITROVANO ESPRESSE LE PRINCIPALI INNOVAZIONI DELL’ARTE ESPRESSIONISTA: CONFRONTO FRA DERAIN E KIRCHNER

Per sapere in che cosa consiste esattamente la concezione dell’arte come espressione analizziamo due oli, il primo di un artista fauve, André Derain (1880-1954), e il secondo di un artista del Brücke, Ernst Ludwig Kirchner (1880-1938).
Derain e Kirchner sono coetanei, ma uno è francese e l’altro è tedesco (cosa da tenere a mente). Le due tele donna in camicia e Marcella raffigurano, come è evidente, due donne, una giovane in sottoveste (probabilmente una prostituta) e un’adolescente. Il tema, il ritratto, si presta ad una interpretazione introspettiva, cosa alla quale i due artisti si mostrano sensibili, però ciò che appare poi nei due quadri non appartiene alla sfera psichica dei soggetti ritrattati, bensì alla sfera sentimentale degli autori. Ovvero l’oggetto, l’immagine delle due ragazze, è solo un mezzo, uno spunto, un pretesto per rendere visibile un’altra realtà, una realtà che non si vede ma che si fa sentire attraverso la pittura: l’interpretazione soggettiva dell’artista condotta alla luce della propria personalità. Insomma Derain e Kirchner non rappresentano quel che prova il soggetto ritratto ma esprimono quello che loro vi leggono. Ed è questa lettura il vero contenuto del quadro, è questa che dobbiamo vedere nel dipinto, non chiederci cosa rappresenta. Ciò che interessa loro non è rifare le cose come sono, ma fare le cose come le sentono, le emozioni che provano; e il loro sentire modifica il loro vedere. Obiettivo del nostro esame è capire cosa sentono e come le sentono le cose che sentono.
Il tema d’immagine è analogo: la condizione sociale della donna. Ma Derain preferisce la donna perduta, emarginata (un soggetto molto caro ai francesi); Kirchner preferisce invece la donna al momento del passaggio fra adolescenza e maturità. Come interpretano i due artisti i rispettivi soggetti?
La donna in camicia di Derain è una donna dalla bellezza un po’ stucchevole, ma non priva di una certa eleganza, carica di una buona dose di smaliziata sensualità. connotazioni che il pittore legge nel soggetto e che suscita in lui un senso di prorompente ma garbata vitalità. Che il senso di prorompente nonché garbata vitalità appartenga al ritrattato o lo percepisce il ritraente non importa, quello che conta è quello quello che prova Derain. Il suo sentire André lo esprime stilisticamente contornando il corpo con una linea morbida e flessuosa, intonando i colori sulle tinte calde e cercando l’equilibrio fra le singole componenti del quadro.
In Marcella Kirchner vede le stesse cose viste 15 anni prima da Munch in Pubertà, cioè il passaggio dal mondo adolescenziale al mondo adulto, un passaggio inondato da un oscuro senso d’inquietudine per l’approssimarsi di un futuro condizionato da tutta una serie di regole sociali. L’inquietudine, l’angoscia per questo ingresso nel mondo adulto provoca sgomento, lo stesso che l’autore prova quando si trova a contatto con la realtà sociale del suo tempo, dunque il contenuto non è tanto ciò che prova il soggetto, quanto ciò che prova l’autore. Questo viene espresso pittoricamente contornando il corpo della ragazza con linee spigolose, adoperando colori dissonanti e rendendo instabile la composizione.
Oltre alle suddette diversità dipendenti dal carattere delle due personalità, solare nel primo, cupo nel secondo, fra Derain e Kirchner si riscontra anche una diversa strutturazione dell’immagine pittorica. In André la costruzione s’imposta ancora sui modi impressionisti: parte dalla sensazione, quindi la carica di un supplemento di colore per renderla più incisiva dal punto di vista emotivo. Il dipinto è costruito con larghe zone di tinte piatte, accostate sulla base dei due criteri fondamentali della composizione cromatica: la variazione tonale chiaro-scuro e la sequenza caldo-freddo. Infatti si va dal punto più luminoso, il bianco della camicia, al punto più buio, il viola delle calze e della parete in basso a destra, passando per le mezzetinte rosa e celesti. Quindi ci si sposta dal punto più caldo, il rosso fiammeggiante dei capelli, al punto più freddo, di nuovo il viola delle calze, passando per i carnicini e i verdi. Onde impedire alle tinte di effondersi l’artista si serve della linea, ma questa, come si vede, non è un’entità astratta, bensì colore. Passando ai particolari della mano gigantesca e i capelli rosso fuoco, le distorsioni stanno ad indicare che a Derain non interessano le proporzioni anatomiche; gli servono semplicemente macchie calde per equilibrare le macchie fredde costituite dall’ombra celestina della sottoveste e dalle calze. L’Espressionismo per Derain non è altro, dunque, che un impressionismo amplificato e deformato dall’esigenza di comunicare uno stato d’animo.
Veniamo a Kirchner. Anche lui costruisce il quadro per larghe zone piatte, tuttavia il colore è il fattore principale che distingue il tedesco dal francese: Ludwig è molto più libero di André negli accostamenti. Le tinte non seguono alcun criterio tonale, e dove nella donna di Derain è equilibrio qui è instabilità. Il rosa dell’incarnato invece di essere spinto in avanti dall’accostamento con il complementare verde scuro sembra risucchiato sul fondo dal giallo della parete e dal color mattone del pavimento; i capelli sono al pari del cuscino a righe una macchia scura, un vuoto; le linee non sono elementi di contenimento, ma solchi che incidono il colore, sentito come materia compatta stesa sulla superficie della tela. C’è nell’impostazione di Kirchner un esplicito richiamo all’incisione, la xilografia in particolare; verrebbe quasi da dire che l’immagine sia stata ottenuta da una matrice lignea cosparsa d’olio e premuta sulla tela.
Altre differenze. L’immagine di Derain è ancora un’immagine dipinta col colore, quella di Kirchner è un’immagine incisa nel colore; a monte di Derain c’è Van Gogh e Toulouse Lautrec (1864-1901), a monte di Kirchner c’è Munch. Da ciò ne deriva che mentre in Derain agisce la cultura cromatica propria dell’esperienza impressionista in Kirchner agisce maggiormente l’induzione istintiva propria dell’approccio simbolista che associa il colore alla condizione psichica del soggetto operante.
Un’altra differenza ancora che ci permette di misurare la distanza fra la cultura dei due artisti consiste nel modo in cui rendono visivamente la profondità. Le due donne sono sedute con le gambe accavallate, e questa posizione costringe l’artista a “vivere” una realtà che si dà alla percezione in prospettiva, dunque distorta. Ora il problema è quello di dominare una situazione difficile da controllare senza il supporto delle conoscenze strumentali. Come lo risolvono i due artisti?
Esaminando il particolare delle gambe e del bacino si vede, in modo abbastanza chiaro, come Derain non sa rinunciare completamente alle sue conoscenze acquisite, mentre Kirchner sì. Infatti nel primo si avverte il senso della profondità prospettica, nel secondo questo senso viene meno e le gambe col bacino acquisiscono l’aspetto di un cuore, sospinto in avanti solo grazie al contrasto cromatico con il cuscino a strisce blu e nere, messo di traverso. Nel francese dunque c’è ancora un rilevamento dello spazio trattenuto all’interno di una definizione preordinata, per cui è vissuto come vuoto intorno alle figure; nel tedesco invece non c’è rilevamento, ma annullamento di ogni definizione preordinata.
La tecnica (se si può parlare ancora di tecnica) è rapida, le tinte sono distese senza sfumature, direttamente sulla tela grezza e senza ripensamenti; sono accostate in modo crudo e violento, in maniera tale da lasciar intravedere i segni delle pennellate: questo perché siano chiari i movimenti, i gesti della mano durante il corso dell’esperienza. La cosa non ha un valore simbolico, ma polemico. Si vuole esprimere visivamente il fare etico del lavoratore libero, del lavoratore il cui gesto è irripetibile, in quanto irripetibili sono le situazioni creative, in contrapposizione al fare della macchina i cui prodotti lisci e levigati portano i segni invisibili della necessità e della ripetitività consumistica e dunque del condizionamento umano.Giunti alla fine dell’esame critico ci si chiede in cosa consiste il contributo di Derain e Kirchner allo sviluppo civile della società moderna. Il quadro, ovvero il prodotto particolare di un lavoratore del tutto particolare, non è una “cosa” che si consuma, né un prodotto seriale, dunque non è destinato alla distruzione, né congela le esperienze di chi lo produce. Al contrario, il lavoro dell’artista è un lavoro che non si ripete mai, quindi è un lavoro i cui prodotti stanno a indicare un continuo rinnovamento delle esperienze, ma soprattutto non è un lavoro che produce oggetti che si distruggono: un quadro non si mangia, non si consuma, si guarda, si “legge”. In questo modo non fungerà più da modello di tecnica al servizio della produzione sociale dei beni di consumo, ma fungerà da modello etico per l’individuo che vuole mantenere la sua integrità di uomo libero, in una società che tende invece ad annullarne la personalità.

LA NASCITA DEI DUE MOVIMENTI: LES FAUVES

Derain fa parte delle Fauves, Kirchner de “Die Brücke”. I due movimenti fanno irruzione nella storia con una serie di mostre scandalo. Emblematico è il primo impatto delle Belve con il pubblico. Nel Salon d’Automne del 1905 esposte insieme ad opere di vario indirizzo figurano quelle di Henri Matisse (1869-1954), Albert Marquet (1875-1947), André Derain, Maurice de Vlaminck (1876-1958), Kees Van Dongen (1877-1967), Othon Friesz (1879-1949) e Raoul Dufy (1877-1953). Non ci sarebbe niente di strano se non fosse per il fatto che davanti ai loro quadri si scatenano le reazioni più smodate; e non solo nel pubblico. Lo scrittore Maurice Mauclair, nonché intenditore d’arte e amico di artisti, dopo essersi imbattuto nelle tele di questi pittori ha ad esclamare che «Un barattolo di vernice è stato buttato in faccia al pubblico»; quindi il critico Louis Vauxcelles (1870-1943) vedendoli accanto ad una statua di stampo tradizionalista pseudo-rinascimentale si mette a gridare: «Donatello chez les fauves», ovvero «Donatello in mezzo alle belve». Così nasce il nome con il quale il gruppo è universalmente noto, fauves, cioè belve. Come Louis Leroy con gli impressionisti così un altro Louis, Vauxcelles stavolta, battezza involontariamente (l’intento era quello di screditarli) un gruppo di artisti che nonostante il parere contrario di pubblico e critica passano alla storia.
Les Fauves ripartono da dove Van Gogh aveva lasciato, ma non trascurano Cezanne né Gauguin, che riconoscono come i pilastri della cultura moderna. Gli aderenti al gruppo vogliono operare una sintesi fra le istanze dei tre maestri, unendo la strutturalità sensitiva e la fantasia dell’uno e dell’altro francese, all’irruenza passionale dell’olandese. Il loro intervento tende precipuamente a sviluppare la ricerca avanzata dei due pittori in un discorso collettivo di inserimento provocatorio dell’arte nelle strutture della società industriale, precisando il rapporto fra le scelte di questi ultimi e le esigenze della società moderna.
Les Fauves non sono un gruppo organizzato come lo erano gli impressionisti e lo saranno quelli che daranno vita alle avanguardie storiche, non hanno un programma, né stendono un manifesto esplicativo. Li accomuna la polemica anti-impressionista e l’indirizzo anti-simbolista.
Detto ciò, passiamo a fare la conoscenza dei singoli artisti.

I PROTAGONISTI: MATISSE

Parigi, Museo d’Orsay
Henri Matisse
LUSSO, CALMA E VOLUTTÀ (1904)
Olio su tela, altezza cm. 98,5 – larghezza cm. 118,5

Copenaghen, Museo Statale d’Arte
Henri Matisse
RITRATTO CON LA RIGA VERDE (1905)
Olio su tela, altezza cm. 40 – larghezza cm. 32

Henri Matisse è il capo riconosciuto delle Fauves, ma è il meno espressionista del gruppo. Convergono in lui alcuni degli elementi che caratterizzano la poetica simbolista. Motivo? da giovane è stato allievo di Moreau (1826-1898). Henri Matisse nasce a Cateau Cambrésis nel nord della Francia. Impara dal suo maestro Moreau a disgiungere la sensazione dall’immagine ottica, ma al contrario di questi non lo sfiora neanche un po’ il pensiero di alienare la pittura dal presente per salvarla da una inevitabile quanto inesorabile decadenza. In un mondo dove le arti cedono il passo alle scienze, la pittura è l’unico strumento che ha l’uomo per conoscere sé stesso e per liberarsi dai condizionamenti sociali. Gli altri maestri sono Cezanne, dal quale impara a costruire le immagini con i soli colori, e Signac (1863-1935), che gli insegna a separare i colori per ottenere maggiore luminosità cromatica. Ma il tratto più singolare della sua personalità, così come quello di tutti gli altri espressionisti, è che per lui l’arte deve esprimere le emozioni soggettive. Chiaramente non è una novità: tutta l’arte romantica s’imposta su questo principio. La vera originalità sta nel fatto che per lui fra oggetto e soggetto non ci deve essere più nessun legame di tipo imitativo, bensì un legame di tipo associativo. Ad esempio per comunicare la sensazione di serenità che procura la vista di un prato fiorito non c’è alcuna necessità di riprodurre una distesa erbosa e colorarla di verde, ma si può ottenere un effetto equivalente con una macchia blu. Si tratta sicuramente di un arbitrio, tuttavia anche l’arbitrio ha le sue regole. Blu e non rossa poiché il blu evoca le distese d’acqua, e le distese d’acqua procurano sensazioni di pace e tranquillità, mentre il rosso ricorda il fuoco e il fuoco produce sensazioni di calore intenso e nello stesso tempo apprensione. Ma non è solo questo. L’altra novità introdotta da Matisse e compagni è la estrema semplificazione formale. Se scopo dell’arte è trasmettere emozioni e queste si trasmettono soprattutto con il colore allora non è assolutamente necessario riprodurre tutti i particolari. Per convertire in figura l’emozione indotta da un oggetto bastano pochi tratti, nonché pochi colori decisi e intensi.
Alla mostra del 1905 Henri espone due quadri: Lusso, calma e voluttà e Ritratto con la riga verde. Il primo è di una luminosità incandescente ma decisamente divisionista; il secondo è concettualmente nuovo. Benché il quadro riporti nel titolo la parola ritratto, non vuole essere un ritratto; non c’è nessuna volontà da parte dell’artista di fare la fotografia del soggetto; a Henri non interessano i sentimenti della persona ritratta. Dal suo volto non si evince alcun particolare stato d’animo, dai suoi occhi non si ravvisa alcuna espressione particolare; all’artista non interessa l’aspetto introspettivo del soggetto, non interessa esprimere la condizione psicologica del soggetto. Ciò che gli interessa non è rifare quello che vede, ma fare quello che sente, dipingere le sensazioni che prova, costruire una figura capace di suscitare le stesse emozioni che egli sperimenta davanti al soggetto; compito dell’arte per Matisse è produrre sensazioni, non riprodurle. Queste emozioni sono sintetizzabili in un incontenibile amore per il mondo che ci circonda, un amore che per essere espresso ha bisogno di una cassa di risonanza adeguata. E questa cassa di risonanza ad Henri gliela fornisce la pittura. La maniera per esprimerle è quella di semplificare al massimo il disegno e ricorrere alle capacità evocative dei colori.
Per quanto riguarda il primo punto c’è da notare come i contorni della figura siano ottenuti con una semplice linea che, correndo fluida senza interruzioni, si limita a separare le tinte senza soffermarsi a descrivere i particolari. Per quanto riguarda il secondo c’è da rilevare come nel dipinto figurino il rosso, il verde e il blu, cioè i colori principali che compongono la luce bianca, il cui calcolato dosaggio produce un senso di equilibrato cromatismo. Analizzando infatti la figura si vede bene come la signora indossi un vestito rosso ed abbia il viso spartito in due da una striscia verde. Il colore del vestito è ripreso nella parte sinistra del fondo, mentre nella parte destra è ripreso il colore verde. Occhi, sopracciglia e capelli sono di un blu profondo; l’incarnato è rosa dalla parte destra e giallo-verde dalla parte sinistra. Insomma Henri esprime tutta la sua joie de vivre accendendo il quadro con colori puri, luminosi, squillanti.

San Pietroburgo, Ermitage
Henri Matisse
LA DANZA (1910)
Olio su tela, altezza mt. 2,60 – larghezza mt. 3,90

Nel 1907 Les Fauves si sciolgono. Matisse imperterrito prosegue per la sua strada; le prime intuizioni si tramutano in convinzioni. La linea si fa più decisa e astratta così come il colore si appiattisce e si fa più innaturale. Imperturbabile, mentre nelle opere di tutti gli altri si riflette il problematico rapporto con la società, nelle sue si riesce a trovare ancora la gioia di vivere.
Uno dei lavori più noti di Henri è La danza del 1910. Come è nell’impostazione del suo pensiero l’immagine non descrive un fatto ma esprime le sensazioni che suscita nell’artista: il prorompere della vita, il continuo movimento, la creatività, l’armonia. Il tutto si esprime con il movimento delle linee continuamente spezzate, l’armonia con la triade dei colori primari: il carnicino dei corpi, il verde del prato, il blu del cielo.
C’è in questa grande tela quello slancio vitale che per il filosofo Bergson (1859–1941) rappresenta il fondamento stesso della realtà. Dunque i mezzi propri della pittura, linee e colori, hanno qui una ancor più spiccata tendenza a porsi come elementi costruttivi in sé; non hanno niente a che vedere con la realtà; all’immagine naturale li tiene ormai uniti più soltanto un ricordo. Nel Nudo rosa ad esempio la spropositata grandezza del bacino e del braccio sinistro di contra alla cortezza delle gambe e piccolezza della testa si può spiegare soltanto tenendo conto del fatto che le proporzioni obbediscono a leggi interne al quadro: braccia e busto devono equilibrare in ampiezza e intensità la banda rossa che si staglia orizzontalmente al limitare superiore della tela, così come l’intera opera non va considerata altro che una composizione di linee orizzontali e verticali in equilibrio.
In questo modo Matisse giunge a rivalutare la decorazione. Per lui la decorazione non è un effimero trastullo grafico, bensì il risultato di un modo di intendere l’arte stessa: aggregazione di forme e colori al solo fine di esprimere sensazioni di gioia. Famosi a tal proposito sono i suoi pannelli decorativi, nonché collage.
Matisse è stato ad un passo dall’astrattismo, eppure non ha mai voluto cedere alla pittura astratta. Ciò che lo ha trattenuto probabilmente è stata l’idea impressionista che nessuna sensazione può nascere se non al cospetto del vero. Henri Matisse muore a Cimiez, presso Nizza, alla veneranda età di 85 anni.

DE VLAMINCK

Parigi, Collezione privata
Maurice de Vlaminck
BALLERINA DEL RAT MORT (1906)

Maurice de Vlaminck è il più espressionista delle Fauves, nel senso del più tedesco. Parigino di origine belga, nasce nella capitale francese, muore a Reuil-La-Gadelière nei pressi di Parigi all’età di 82 anni.
La sua vita si decide tutta durante un viaggio in treno sul quale casualmente incontra André Derain.
Maurice ha 24 anni, André 20. Senza neanche presentarsi si mettono a parlare e vengono a sapere di avere molte idee in comune, compresa quella di voler fare i pittori: nasce così un sodalizio che dura tutta la vita. A Chatou, insieme, discutono e dipingono, ora in aperta campagna ora al chiuso dello studio. Nel 1901 fanno la loro conoscenza con l’opera di Van Gogh ed è la rivelazione. Benché fra i due ci sia un’affinità d’indirizzo estetico le loro personalità artistiche differiscono. De Vlaminck è un’autentica belva; istintivo, si esprime facendo uscire il colore puro dai tubetti, spremendoli direttamente sulla tela. Per lui la pittura è esistenza in atto, la pennellata perciò è larga, corposa, la materia pittorica è visibile, solida; il quadro sembra quasi un bassorilievo schiacciato, tirato in stucco colorato. Il suo stile è particolarmente apprezzabile in opere come la Ballerina del Rat Mort. Qui Maurice lavora ad un soggetto tipicamente impressionista: il riferimento diretto è Toulouse Lautrec. Ma la sua non è una rappresentazione fredda, esente da giudizi come nei lavori di Lautrec, non c’è semplicemente la presentazione della strutturalità del dipinto. Maurice vede la ballerina, ma ne ritrae la condizione di emarginazione sociale, la tristezza, la solitudine, la rassegnazione, il torpore e la volgarità che lui legge nel soggetto. C’è espresso qui il disfacimento, la degradazione, ma anche la rassegnata accettazione dell’altra faccia della Belle Époque, quella dei caffè chantant, delle ballerine e delle prostitute. E tutto questo non è raccontato, né descritto; è espresso con violenza, senza filtri né freni inibitori, attraverso il modo stesso di dipingere.
Finita la breve ma intensa esperienza delle Fauves Maurice si accosta al Cubismo, ma la sua carica espressiva non si spegne.

ANCORA DERAIN

Toronto, Museo d’Arte Moderna
André Derain
L’ESTAQUE, TRE ALBERI (1906)
Olio su tela, altezza cm. 100 – larghezza cm. 81

Il suo amico e collega Derain, che abbiamo già incontrato, invece è più misurato e sensibile alle influenze fisiche dell’ambiente esterno. Il suo modo di dipingere è più disteso, gli accostamenti più studiati; è il più impressionista degli espressionisti: con ciò non significa che è meno fauve degli altri; è solo che la sua personalità lo predispone a sentire il mondo esterno meno violentemente dei suoi colleghi.
André Derain nasce a Chatou e muore a Parigi all’età di 74 anni. Dopo lo scioglimento del gruppo anche lui si converte al Cubismo, quindi fra le due guerre riallaccia importanti rapporti con la tradizione figurativa, ciò che gli ha valso l’imputazione di traditore dell’avanguardia. In effetti Derain non ha tradito nulla e nessuno, ha semplicemente sentito il bisogno, come tanti altri, di rivisitare il passato dopo esserne stato per tanto tempo così lontano, per rivedere i valori di sempre alla luce delle nuove esperienze. D’altronde destino delle avanguardie è quello di tornare a confrontarsi col passato, altrimenti si rischia di riproporre sé stessi, cioè si rischia il manierismo. I momenti di rottura sono importanti in quanto rompono con la tradizione quando questa diviene ristagno culturale, ma se da questa azione viene esclusa l’eredità dei maestri precedenti allora la storia si ferma e si produce un nuovo ristagno.

ROUAULT

Hem, Collezione Philippe Leclercq
George Rouault
IL SIGNORE E LA SIGNORA POULOT (1905)

Londra, Galleria Marlborough of Fine Arts
George Rouault
CRISTO IN PERIFERIA (1918/1920)
Olio su tela, altezza cm. 62 – larghezza cm. 78

Nel 1905 accanto a Les Fauves espone George Rouault (1871-1958), parigino. A guardare le sue opere non si hanno dubbi: si tratta di un espressionista. E infatti è un espressionista, ma solo nei fatti. Lui è un isolato; non si riconosce in nessun gruppo; non entra a far parte di nessuna corrente, ciononostante è uno dei pittori che esprime con maggior forza il degrado di una società corrotta e violenta, ma che è pur sempre pervasa da una costante aspirazione al riscatto. C’è indubbiamente qualcosa di religioso in questa sua visione, ma si tratta di una religione che non si convoglia in un senso di pietà verso i peccatori, ma ricerca la solidarietà di chi soffre e nello stesso tempo lancia accuse contro chi queste sofferenze procura, quindi non è religiosità di questa o quella confessione, bensì è religiosità umana. Le violente deformazioni e i colori spenti lo avvicinano molto più ai tedeschi che non ai francesi, ma c’è un elemento che lo discosta da entrambi: il soggetto che per gli espressionisti inquina la purezza della pittura in Rouault è essenziale. Suo maestro d’arte è il solito Moreau che gli insegna il valore del simbolo unito a quello del mistero mistico; suo maestro spirituale è Léon Bloy (1846-1917), scrittore cattolico che silura la società contemporanea preannunciandone la fine apocalittica.
Il dipinto intitolato Il signore e la signora Poulot è ispirato al romanzo di Bloy La donna povera. L’opera non piace al Bloy in quanto nella coppia effigiata ci vede «due assassini di periferia», tuttavia coglie in pieno lo spirito del romanzo: la caduta morale dell’umanità. Questa caduta lui, pittore, la esprime, e non la descrive, con la linea che non costruisce ma distrugge, e col colore che non illumina ma spegne.
L’aspra polemica iniziale si allenta dopo il primo decennio del secolo. Aumentano in questo periodo i temi religiosi. È in tale seconda fase che George da inizio ad una serie di acqueforti, le quali nel loro insieme costituiscono una specie di poema grafico: Il miserere. In dette stampe la linea si ispessisce e il colore si tramuta in cupi effetti di chiaroscuro; in esse qualcuno ci vede il ricordo delle vetrate gotiche. Ma lì la luce discende dall’alto, qui la luce sale dal basso, si fa strada attraverso il buio di una vita derelitta. George Rouault muore a Parigi all’età di 87 anni.

DIE BRÜCKE

Parigi, Centre Georges Pompidou
Ernst Ludwig Kirchner
DONNA ALLO SPECCHIO (1912)
Olio su tela, altezza cm 100,5 – larghezza cm 75,5

Passiamo a Die Brücke. In Ensor e Munch è ancora troppo forte l’impronta simbolista per potersi chiamare espressionisti nel senso pieno del termine. L’Espressionismo, di nome e di fatto, è opera di quattro giovani studenti in architettura che fondano un gruppo a cui danno il nome de “Die Brücke”, “Il Ponte”. L’appellativo è casuale (anche se prevedibile dato il corso di studi dei quattro), ma con l’andar del tempo viene ad assumere un significato ben preciso: collegamento col futuro, o anche fra mondo esterno e mondo interiore. Anche Die Brücke come Les Fauves non hanno un programma. Li unisce la sola volontà di combattere il ristagno della pittura su posizioni obsolete in nome del rinnovamento. È un atteggiamento tipicamente romantico: superare la tradizione, andare contro il passato nella convinzione che il futuro è di per sé migliore, in quanto nuovo. Il nodo strutturale di base del Brücke è lo stesso delle Fauves. La differenza sta solo nel modo di vedere le cose: oscure e inquietanti nei tedeschi, solari e positive nei francesi. L’altra grossa differenza tra francesi e tedeschi è che i teutoni danno alla loro azione una valenza ideologica chiara e forte, dimostrando che l’arte contemporanea per sua stessa natura non può che essere di sinistra dal momento che è un’arte oppressa dal costante tentativo di repressione operato negli ambienti culturali ufficiali, cioè borghesi di destra, in cui si caldeggiano le spinte decadentiste, nostalgiche verso un’arte che fu, e che invita alla fuga nel mito, nella metafisica.
Nel 1913 il movimento da Dresda si trasferisce a Berlino. Passano due anni e il gruppo si scioglie, siamo alle soglie della prima guerra mondiale, tuttavia le basi sono ormai gettate. Finita la guerra i fondatori si rimettono all’opera. Alle prime esperienze si aggiungono le nuove, ma la loro carica eversiva è sempre massiccia e contagia altri artisti. Nel 1933 quando Hitler (1934-1945) va al potere i pittori espressionisti, vecchi e nuovi, tedeschi e non, vengono messi al bando, la loro arte viene definita degenere e le loro opere bruciate.
I più significativi di questi artisti degeneri sono Ernst Ludwig Kirchner, Eric Heckel (1883-1970), Karl Schmidt Rottluff (1884-1996), tre dei fondatori del Brücke, quindi Max Pechstein (1881-1955), Emil Nolde (1867-1956) e Otto Müller (1874-1930), aggiuntisi dopo le prime mostre.

ANCORA KIRCHNER

Ernst Ludwig Kirchner (anche lui come Derain lo abbiamo già incontrato) è la personalità più complessa e inquieta del gruppo. Nasce a Aschaffenburg, esordisce a Dresda con opere dai colori forti e contrastati, forme ridotte all’essenziale contornate da linee spesse e bistrate. Anche lui al pari di Munch preferisce come soggetto l’uomo, o meglio la donna. Più in particolare lo interessa l’adolescenza per via del senso di acerbità, inquietudine, inanità attraverso cui si esprimere il disagio giovanile, cioè per via di una tematica espressiva più stimolante dal punto di vista pittorico rispetto a quella offerta dalla maturità. Quando nel 1912 dipinge donna allo specchio sceglie una donna berlinese, ed è una donna diversa da quelle di Dresda delle prime tele, perché diversa è la realtà di Berlino, corrotta e corruttrice. A Berlino è diverso anche il suo stile: si sono aggiunte esperienze cubiste. Le cose sono scomposte e ricomposte sinteticamente, le forme sono geometrizzate, la forza dirompente dei colori è diminuita, il punto di vista rialzato e decentrato, l’immagine è diventata fortemente instabile così come instabile e inquieta è la realtà.
La guerra interrompe la sua attività. La malattia lo costringe alla degenza in ospedale ma non gli impedisce di dipingere. Non potendosi portare le modelle in corsia si rivolge al paesaggio. Ma neanche di fronte ai santuari di montagna la sua anima si acquieta e gli abeti diventano lance infilzate nel cielo malachite. Muore suicida a Davos all’età di 58 anni.

GLI ALTRI PROTAGONISTI DEL BRÜCKE

Essen, Museo Folkwang
Eric Heckel
PASSEGGIATA SUL GRUNEWALDSEE (1911)
Olio su tela, altezza cm. 71 – larghezza cm. 80

Amburgo, Kunsthalle
Karl Schmidt Rottluff
DONNA CHE FA TOILETTE (1915)
Olio su tela, altezza cm. 130 – larghezza cm. 95

Il paesaggio è il tema preferito di Eric Heckel. Eric Heckel nasce a Döbeln e muore a Radolfzell a 87 anni. Valgono per lui le stesse considerazioni stilistiche generali che valgono per Kirchner, tranne quando si mette a fare scorci di città. Infatti in questi soggetti c’è da rilevare un maggior senso dell’equilibrio ed un maggior respiro spaziale.
Il terzo cofondatore, Rottluff Karl Schmidt, nasce a Rottluff e muore a Berlino a 92 anni. Si distingue da Kirchner e da Heckel per i colori infuocati, rossi, gialli, verdi, e per le forme, monumentali e ancora più essenzializzate.

Amburgo, Kunsthalle
Emil Nolde
LA LEGGENDA DI SANTA MARIA EGIZIACA (1912)
Pannello di sinistra
Olio su tela, altezza cm. 86 – larghezza cm. 100

Karlsruhe, Staatliche Kunsthalle
Max Pechstein
NATURA MORTA (1913)
Olio su tela

Colonia, Collezione privata
Otto Müller
COPPIA SULLA SPIAGGIA (1914)
Colori a colla, altezza cm. 87 – larghezza cm. 120

Max Pechstein è il più francese degli espressionisti tedeschi. Nasce a Zwickau e muore a Berlino all’età di 78 anni. Lo accostano ai transalpini una minor carica drammatica e il gusto per l’esotico. Come Gauguin gira l’Oriente e i mari del sud in cerca di un mondo primordiale che possa fornire ancora motivi di contemplazione.
Sulla stessa lunghezza d’onda si muove Otto Müller, tedesco di Liebau, mentre Emil Nolde parte come paesaggista ma finisce per fare quadri caratterizzati da una forte componente mistica e drammatica insieme.

OSKAR KOKOSCHKA

Basilea, Museo d’Arte
Oskar Kokoschka
LA SPOSA DEL VENTO (1914)
Olio su tela, altezza mt. 1,81 – larghezza mt. 2,20

Mannheim, Kunsthalle
Oskar Kokoschka
RITRATTO DEL PROFESSOR FOREL (1910)
Olio su tela, altezza cm. 70 – larghezza cm. 58

Amburgo, Collezione privata
Oskar Kokoschka
PAESAGGIO DOLOMITICO DELLE TRE CROCI (1913)
Olio su tela, altezza cm. 82 – larghezza cm. 119

Sono espressionisti di fatto gli austriaci Oskar Kokoschka (1886-1980) e Egon Schiele (1890-1918).
Oskar Kokoschka nasce a Pöchlarn e muore a Villeneuve alla invidiabile età di 94 anni. Molti espressionisti vivono a lungo: segno evidente che dar libero sfogo alle proprie sensazioni allunga la vita. Oskar si comporta da espressionista nel modo che ha di esporre senza filtri le proprie emozioni, ma le sue immagini sono morbide, non dure, fluttuanti, non spigolose: ciò che denota un modo di vedere il mondo non già come luogo che suscita angosce ma che stimola sentimenti positivi.
Ancor giovin pittore Oskar è preda di una travolgente cotta per Alma (1879–1964), la vedova di Gustav Mahler (1860–1911). A questo evento, che segna per sempre la sua vita, dedica nel 1914 un quadro che intitola La sposa del vento, dove raffigura due amanti presi in un vortice marino. I colori non sono violenti ma armonizzati su un’intonazione rosa-blu, le forme sono smussate, il tono è ribassato, estatico; non c’è niente della violenza del Brücke. Inoltre in questo dipinto non c’è l’affronto diretto del vero quanto piuttosto il ricordo di un momento trascorso.
Oskar Kokoschka vive l’epoca dell’astrattismo come molti, e come molti non è affatto d’accordo con le tesi astrattiste perché vede in esse il pericolo di perdere il contatto con l’umanità. Ma il suo pronunciamento in favore del mantenimento di un residuo legame con l’immagine naturale non fa di lui un tradizionalista. Condivide con le avanguardie l’idea di una visione pura, incontaminata dalle sovrastrutture culturali, l’idea che l’artista deve mettersi nella stessa condizione del fanciullo.
La sua pittura tendenzialmente visionaria all’inizio si fa introspettiva col passare degli anni. Preludio ne è il Ritratto del Professor Forel, in cui lo sguardo vuole essere una porta per penetrare nell’anima del ritrattato, per scorgerci un uomo volto ad indagare verità lontane.

EGON SCHIELE

Torino, Galleria Galatea
Egon Schiele
DONNA SDRAIATA (1914)
Matita e tempera, altezza cm. 31 – larghezza cm. 48

Egon Schiele è l’altro grande espressionista austriaco. Nasce a Tulln e muore a Vienna appena tre giorni dopo la moglie, stroncato dalla “spagnola” la terribile epidemia influenzale, alla giovanissima età di 28 anni. Già la morte prematura lo pone in una posizione a parte, ma Egon è a tutti gli effetti un artista speciale. Innanzi tutto la sua pittura è molto più vicina alla grafica: per esprimersi si serve essenzialmente della linea; ma il colore benché ridotto non è comunque solo riempimento, assume significato espressivo così come la linea di contorno tormentata, emotiva. Egon non è il primo né l’ultimo ad affidare la maggior parte della propria carica espressiva alla linea: si pensi a pittori come Pollaiolo (1431c. -1498) e Botticelli (1445-1510), i bizantini, i greci primitivi, Giacometti (1901-1966), Dubuffet (1901 -1985). Le sue immagini danno l’idea di qualcosa di decaduto, proprio sul punto di morire. È la sua visione dell’uomo inteso nel senso umanistico, padrone e signore di sé stesso, entità psicofisica che esiste più soltanto come larva disfatta e macerata, così come sono larvacei e disfatti i momenti umani della sua esistenza.