ARTE E POLITICA
ROMA SISTINA
PIAZZA BARBERINI, IL LUOGO DEL PRIMO INCONTRO FRA BERNINI E BORROMINI
BERNINI E BORROMINI: DUE PENSIERI ARTISTICI A CONFRONTO
ANALOGIE FRA IL BORROMINI E IL CARAVAGGIO
PALAZZO BARBERINI, IL PALAZZO DELLA DISCORDIA
BERNINI E LE FONTANE DI ROMA
SAN CARLO ALLE QUATTRO FONTANE, LA CHIESA DOVE INIZIA E FINISCE LA CARRIERA DEL BORROMINI
IL MOMENTANEO TRIONFO DEL BORROMINI E L’ECLISSAMENTO DEL BERNINI
IL RITORNO DEL BERNINI ALL’ARCHITETTURA
L’ULTIMA OPERA DEL BORROMINI
BERNINI INCONTRASTATO ARTEFICE DEL BAROCCO
BERNINI: OPERE GIOVANILI
PIETRO DA CORTONA, ARTEFICE DEL BAROCCO IN PITTURA


ARTE E POLITICA

Roma, Biblioteca Apostolica Vaticana, salone Sistino
Domenico Fontana
ROMA SISTINA (fine XVI secolo)
Affresco

Benché incentrato sulla fantasia dell’artista il Barocco non è una fantasia ma una concreta realtà. Il nuovo indirizzo estetico si qualifica come un riproporsi in chiave innovativa del tradizionale rapporto d’identità fra classicismo e cattolicesimo. Il suo aspetto più importante è costituito dalla stretta relazione che si ristabilisce fra arte e potere ecclesiastico. Il controllo dell’espressione artistica attraverso la promozione di una determinata corrente o di un determinato artista tramite la committenza, è antico quanto l’arte stessa. Dalla storia dell’arte sappiamo che l’attività estetica è stata sovente strumento nelle mani del potere, il quale l’ha utilizzata per esercitare un controllo indiretto sulla sudditanza; basti pensare all’arte bizantina, un’arte di stato, un’arte diretta dal potere, per non parlare dei Romani, che facevano dell’arte un instrumentum regni. Per raggiungere tale proposito il potere non si limita ad agire solo sui contenuti, ma spesso interviene anche sull’espressione, favorendo quelle opere che rispondono meglio ai suoi intenti. Nel Barocco ciò si esplica promuovendo le opere di quegli artisti che presentano l’ascesa al cielo di un santo come un avvenimento festoso, una specie di giubilo popolare, a cui partecipa tutta la comunità dei fedeli. Lo scopo vero di questa messa in scena è riproporre l’immagine di una Chiesa trionfante. Ribadire il ruolo della Chiesa di intermediazione nell’opera di salvezza dell’anima è ora una questione urgente dal momento che viene messa in discussione dalle correnti protestanti. Favorendo il nuovo indirizzo la Chiesa intende far piazza pulita di quelle tendenze e di quegli autori che avevano diffuso durante l’epoca manierista un’arte legata all’idea di una via personale, individuale alla salvezza eterna, una via spesso incontrollabile razionalmente, cosa che metteva in crisi la funzione sociale stessa della struttura ecclesiastica. Il Barocco, con la sua combinazione di vocaboli classici e libertà compositiva, dunque linguaggio universale sintatticamente libero, si pone come soluzione delle istanze curiali, riaffermazione evidente dei valori universali fondata sulla partecipazione emotiva, irrazionale del pubblico.
L’ingerenza del potere in campo espressivo comunque non significa agire apertamente sulla libertà espressiva, né che l’artista operante condivida in modo cosciente la sua politica. Bernini (1598-1680) non è un cattolico reazionario perché la sua arte rilancia su nuove basi l’identità fra spiritualità antica e spiritualità cristiana, fra cultura classica e trascendenza mistica, contro i dubbi e gli eccessi avanzati in epoca manierista; non è lo strumento nelle mani della restaurazione, è un talento straordinario che piace alle masse perché interpreta il loro desiderio di salvezza ultraterrena. La Chiesa d’inizio Seicento dal canto suo vede bene che per riaffermare il proprio potere temporale, contro le dottrine eretiche, più che sui dotti può far leva sul sentimento semplice e devoto degli umili. Al clero non sfugge il potere coinvolgente del nuovo indirizzo a cui sta volgendo la ricerca artistica berniniana, favorevole ad una riaffermazione della continuità classico cristiana, e di conseguenza non esita a promuoverne la diffusione. Dunque l’arte barocca non nasce come strumento del potere, ma è utilizzata dal potere per i suoi scopi di dominio.
Gli inventori di questa nuova realtà sono due artisti dal carattere diametralmente opposto, tanto da fornire due visioni diverse della stessa poetica: il Bernini e il Borromini (1599-1667). Non si sa quanto sia stata profonda la loro rivalità, certo è che i due operano nello stesso periodo, nella stessa città, Roma, uno accanto all’altro; quando l’uno è al massimo della gloria l’altro sprofonda nella crisi più cupa. Sarà proprio in un momento di crisi che il Borromini, psicologicamente più fragile del Bernini, si suiciderà, infilzandosi con la propria spada. Oggi è possibile rivivere questo scontro fatto a suon di “costruzioni”, sacre e profane, percorrendo a bordo della Nuova Argo la Roma papalina del Seicento. Punto di partenza il palazzo che il cardinale Barberini (1568-1644), membro di spicco della più potente famiglia romana del momento, si fa costruire dal Maderno (1556-1629), ai piedi del colle Quirinale, sede del prestigioso casato dei Chigi. Prima di addentrarci nel racconto della epocale sfida però occorre, come di consueto, dare un’occhiata al contesto storico culturale entro cui si svolge.

ROMA SISTINA

Appena eletto papa, Sisto V (1585-1590) dà subito mandato a Domenico Fontana (1543–1607) di completare la sistemazione urbanistica di Roma, con il preciso ordine di donare alla città eterna il volto di una capitale moderna. È il 1585. Non termina l’anno che il progetto è già pronto; a questa data Domenico ha 42 anni. In tale periodo Roma è una città divisa in rioni isolati, chiusa nelle sue ultime mura storiche, quelle Aureliane. Tutti gli interventi che c’erano stati fino a questo momento non avevano mai preso in considerazione l’aspetto urbano nella sua globalità. Il Fontana sopperisce a tale mancanza e redige il primo piano organico della città dell’epoca moderna. Il progetto prevede grandi assi viari che collegano le principali porte d’accesso alla capitale con le sue maggiori basiliche per agevolare il flusso di pellegrini che sempre più numerosi giungono nell’Urbe da ogni parte del mondo. Per realizzare questi grandi assi viari il Fontana rompe la cinta muraria in più punti, crea snodi, apre piazze, regolamenta il traffico di carrozze, organizza l’approvvigionamento idrico, prevede sviluppi economici, sociali, edilizi, cioè elabora un vero e proprio piano regolatore: e in questo modo prepara il terreno per la sfida a suon di edifici fra il Bernini e Borromini.
Una delle spine del nuovo impianto urbanistico è il tridente costituito da via Ripetta – via del Corso – via del Babbuino. Tutte e tre le vie si diramano dalla porta del Popolo, dove confluisce la via Flaminia, una delle più importanti strade consolari. via Ripetta unisce la porta con la Basilica Madre, San Pietro; via del Babbuino la unisce con la cattedrale di Roma, San Giovanni, e con Santa Maria Maggiore; via del Corso la unisce con la basilica di San Paolo fuori le mura. A questo asse se ne oppone un altro, quello costituito dalla via Nomentana, che collega porta Pia con via del Corso, passando per il Quirinale, quindi con il corso Vittorio, passando per piazza Venezia, tanto per fare alcuni esempi ragguardevoli.
Il Fontana è definito architetto, in realtà con lui nasce una nuova figura di professionista che riunisce tre specializzazioni distinte e separate quali l’urbanista, l’ingegnere e il decoratore: non si tratta più della versatilità umanistica, ma della moderna plurispecializzazione. Come urbanista diventa il primo interprete organico delle funzioni politiche, economiche e sociali di una città; come ingegnere usa la tecnologia per innalzare obelischi, trasportare monumenti, innalzare nuovi edifici; come decoratore si preoccupa dell’estetica di vie e piazze, e non solo dei singoli edifici.

PIAZZA BARBERINI, IL LUOGO DEL PRIMO INCONTRO FRA BERNINI E BORROMINI

Roma, piazza Barberini
Bernini e Borromini
VEDUTA DI PALAZZO BERBERINI CON LA PIAZZA

Il Bernini e il Borromini sono quasi coetanei; Gian Lorenzo, così si chiama il Bernini, è più grande di un anno. Nasce a Napoli, ma non è napoletano, è toscano. Francesco Castelli (questo è il vero nome del Borromini) nasce a Bissone, in provincia di Lugano, dunque è svizzero. Gian Lorenzo è un tipo spiritoso, sociale, frequenta la bella gente, è il pupillo dei pontefici; tutti lo amano, tranne uno, Innocenzo X (1644-1655). Francesco è un tipo ombroso, umorale, solitario; non ha fortuna con i papi: entra nelle grazie solo di Innocenzo X, nel periodo del suo pontificato, per intercessione della cognata di questi, donna Olimpia Pamphili (1591–1657). Bernini muore a 82 anni nel suo letto, attorniato dai familiari e con tutti gli onori che si tributano ad un grande protagonista; Francesco muore a 68 anni, suicida, durante un attacco di depressione. La loro parabola professionale si svolge interamente a Roma. Lavorano, si potrebbe quasi dire, a stretto contatto di gomito, le loro opere sparse per la Roma Sistina sorgono incredibilmente (e non del tutto casualmente) le une vicine alle altre. Il Bernini è in qualche occasione anche datore di lavoro del Borromini (in quest’epoca gira anche la voce che gli ha rubato parecchie idee). Sul piano della concezione artistica sono uno l’opposto dell’altro.

BERNINI E BORROMINI: DUE PENSIERI ARTISTICI A CONFRONTO

Con il Bernini il contrasto fra immaginazione e realismo che vedeva divisi il Carracci (1560-1609) e il Caravaggio (1571-1610) viene superato attraverso la concezione di un’arte come immaginazione che si realizza, diventa realtà, si fa immanente. L’immaginazione per il Bernini non è realtà che prosegue nell’immaginato, ma al contrario è l’immaginato che si fa realtà. Però, come al solito, trovata la sintesi ecco una nuova antitesi, e l’antitesi a Bernini è Borromini, per cui l’immaginazione berniniana è solo eccitazione fantastica, arbitrio gratuito, privo di qualsiasi fondamento nella storia. Tuttavia il problema dell’immaginazione è nel Seicento il problema dell’arte: l’arte è il prodotto dell’immaginazione. Rimane dunque da stabilire se l’esercizio dell’immaginazione è un modo per conoscere la realtà che sfugge all’esperienza, o è un modo per trascendere l’esperienza e arrivare all’idea. Si ripete così l’interrogativo posto alle soglie del Cinquecento, ma l’oggetto non è più la natura è l’immaginazione: l’immaginazione è rivelazione o ricerca?
Bernini ama il mondo in cui vive. Mancando in questo mondo la reale possibilità di vedere il divino, l’artista rimedia a tale limitazione con l’arte che nelle sue mani si fa docile strumento rivelatore. Borromini rifiuta il mondo in cui vive proprio perché Dio sfugge, si nega, occorre cercarlo, ma non nell’al di qua, bensì nell’al di là. I due pensieri antitetici si esprimono naturalmente in due stili completamente diversi. Il Bernini preferisce i discorsi allegorici e plateali, con gran movimento di masse luminose in vasti apparati prospettici; il Borromini è ermetico, parla per simboli, non muove masse ma profili che prendono rilievo grazie alla luce radente. Anche lui si serve della prospettiva, ma per ridurre lo spazio anziché amplificarlo, cosicché la sua architettura risulta contratta anziché espansa come quella del Bernini.
Il Bernini è l’erede della grande tradizione classica, per cui le tecniche discendono dalle idee, la prassi dalla teoria; Borromini è l’erede della grande tradizione anticlassica per cui la tecnica è mera prassi e l’idea è il limite a cui tendere. La tecnica del Bernini sa sempre cosa fare, quella del Borromini rivela l’ansia della sperimentazione; il Bernini guida una squadra di aiuti motivata e ben organizzata, il Borromini controlla una squadra di operai mal pagati e sempre sul punto di scioperare. Il Bernini è l’ultima espressione dell’artista versatile rinascimentale, è infatti architetto, scultore, pittore, scenografo e commediografo; il Borromini è l’espressione del nuovo professionismo, specializzato in un settore particolare: infatti è esclusivamente architetto.

ANALOGIE FRA IL BORROMINI E IL CARAVAGGIO

Non possiamo finire di tracciare il ritratto del Borromini senza parlare delle strane coincidenze che ci sono fra lui e il Caravaggio. Tutti e due sono lombardi; tutti e due si sono formati nel clima religioso instaurato dal Borromeo (1538-1584) col suo nuovo modo di vedere la pratica cristiana, ovvero come ascetismo operante; tutti e due, a Roma, si fanno sostenitori di una cultura del Nord da contrapporre ad una cultura romana divenuta ormai sterile formalismo; tutti e due hanno un caratterino niente male, aspro, spigoloso, intransigente e violento; per tutti e due l’arte è prassi che vale per se stessa e non perché applicazione di una teoria particolare; tanto per l’uno quanto per l’altro l’arte è impegno, è un modo d’essere. L’unica differenza è che il Borromini non è un realista, e ciò non dipende dal fatto che sia esclusivamente un architetto. Al contrario del suo conterraneo mira alla trascendenza. Egli pensa, come il suo rivale Bernini, che compito dell’arte sia rendere al vivo quel che si immagina essere. Solo che per lui l’essere non è, come per il Bernini, l’interpretazione della realtà fornita dalla cultura classica, bensì è oggetto di ricerca personale.
Riguardo a quest’ultimo punto dunque le idee del Borromini sono molto vicine a quelle di Michelangelo (1475-1564) e dei manieristi, ed è forse per questo, più che per il suo carattere, che non gode delle simpatie della committenza curiale.

PALAZZO BARBERINI, IL PALAZZO DELLA DISCORDIA

Roma, palazzo Barberini
Bernini e Borromini
VEDUTA D’INSIEME E PIANTA (1629/1632)

Il 1629 è un anno molto triste per il Borromini: muore suo zio adottivo Carlo Maderno. Al momento del trapasso il Maderno sta lavorando al palazzo che Maffeo Barberini si fa costruire sulla via Sistina. Maffeo Barberini sale al soglio pontificio nel 1623 col nome di Urbano VIII. Invece di nominare come successore alla direzione dei lavori il nipote Francesco affida l’incarico al Bernini: a questa data Gian Lorenzo ha 31 anni, Francesco 30. La scelta di papa Urbano è obbligata: Bernini ha già dato prova del suo eccezionale talento. Per il collezionista Scipione Borghese (1577–1633) ha eseguito quattro opere con le quali sale in vetta alla classifica dei massimi scultori dell’epoca. Non solo, ma ha già avuto il prestigiosissimo incarico di costruire il baldacchino da collocare sulla tomba di san Pietro, nella basilica omonima. Il Borromini è solo un anonimo collaboratore, anche se corrono voci sullo sfruttamento del ticinese da parte del napoletano.
Assunto l’incarico di architetto capo per la fabbrica di palazzo Barberini, il Bernini conferma il Borromini fra i suoi collaboratori. Sue sono le finestre timpanate che ornano i due corpi di raccordo della facciata con le ali laterali. Ma all’epoca della collaborazione nel palazzo i dissapori fra i due sono già ad uno stadio di avanzata radicalizzazione. Sicuramente ci sono alla base conflitti legati al rapporto di dipendenza, nonché ad una non improbabile invidia da parte di Francesco per la fortuna, certo aiutata da una politica fatta di eccessivi ossequi, di Gian Lorenzo. Ma soprattutto c’è un problema di offuscamento e avvilimento delle grandi capacità del subordinato da parte del datore di lavoro.
Dei saggi giovanili del Bernini parleremo in seguito, per il momento seguiamolo nel suo lungo confronto dialettico col Borromini, aprendo il discorso su di lui col palazzo, la prima e l’ultima opera in cui gli è accanto Francesco.
Al momento del subentro al Maderno sono già state realizzate le due ali laterali. Il suo intervento si concentra sul corpo trasversale che raccorda i due corpi paralleli protesi verso il giardino antistante per chiudere a mo’ di quinta teatrale il complesso. La disposizione a “C” della pianta e l’aspetto complessivo rammenta la Farnesina del Peruzzi (1481-1536), ma la monumentalità che emana dalla sua poderosa stazza è bramantesca. E a Bramante (1444-1514) e al suo cortile di San Damaso in Vaticano si ispira per la facciata del corpo centrale; ma c’è una novità. La facciata pur avendo di mira l’ariosità dei porticati bramanteschi è ancora più leggera, quasi fosse un’immagine priva di materia. Non c’è dubbio che a dare questa sensazione di leggerezza contribuisce l’ampiezza delle arcate del portico e dei loggiati. Ma non ci sarebbe il respiro che c’è se Gian Lorenzo non avesse pensato a creare delle strombature prospettiche nell’ultimo ordine, accorgimento che da alla struttura un particolare senso di ariosità. Con ciò il Bernini chiarisce subito la sua volontà di creare un dialogo fra spazio esterno, naturale, e spazio interno, antropico, dialogo che però non è imbastito su un rapporto proiettivo, bensì su una compenetrazione di immagini.

BERNINI E LE FONTANE DI ROMA

Roma, piazza Barberini
Bernini
FONTANA DEL TRITONE (1642/1643)
Travertino

Mentre lavora al palazzo Barberini il Bernini porta avanti la costruzione del Baldacchino di San Pietro e contemporaneamente si occupa del monumento funebre del suo pontefice estimatore, Urbano VIII.
Sul problema del rapporto fra spazio di natura e spazio artificiale o civico Gian Lorenzo torna approfondendone i termini nelle fontane. La sua prima fontana è la famosa “Barcaccia” di piazza di Spagna, opera alla quale ha lavorato ancorché molto giovane, quando con ogni probabilità si trovava alle dipendenze del padre Pietro (1562–1629). Presso i giardini del palazzo Barberini, lungo il percorso che dalla porta del Popolo, passando per Trinità de’ Monti e via Sistina, conduce alla basilica di Santa Maria Maggiore, apre, come se fosse un fulmine a ciel sereno, la piazza del Tritone, dove al centro mette la Fontana del Tritone.
La data di realizzazione di questa fontana è incerta. Per alcuni risale al 1631, per altri al 1642/1643. A parte ciò va detto che il tritone pur essendo notoriamente un essere mitico non da affatto l’idea di appartenere al mondo mitologico, ma sembra appartenere alla realtà naturale così come l’acqua vera che zampilla dalla grande conchiglia, sospinta dal suo poderoso soffio. Ma la sua concretezza reale deriva soprattutto dal fatto che l’immagine si da in modo così immediato e organico da apparire persino superfluo chiedersi cosa significhi. Non si può rimanere indifferenti al senso di vita che sprigionano questi marmi per via del moto sciolto che ne anima la simulazione delle membra, né si può rimanere indifferenti al senso di entusiasmo che comunicano.

SAN CARLO ALLE QUATTRO FONTANE, LA CHIESA DOVE INIZIA E FINISCE LA CARRIERA DEL BORROMINI

Roma, chiesa di San Carlo alle Quattro Fontane
Borromini
CHIOSTRO (1634/1637)

Per quanto riguarda il Borromini nel 1634, finito di lavorare a palazzo Barberini, riceve un incarico tutto suo; piccola cosa, ma quanto basta per permettergli di sganciarsi dalle dipendenze del Bernini.
Si tratta del chiostrino della chiesa di San Carlino alle Quattro Fontane: è l’inizio di una brillante carriera da solista. Anche se le sue opere non hanno la grandezza fisica di quelle del suo rivale hanno certamente ugual importanza per la storia dell’arte.
In questo chiostro lo spazio a disposizione è davvero poco, ma il Borromini lo rende ancora più piccolo, costruendo un colonnato che invece di definire intervalli tutti uguali crea varchi alternatamene più larghi e più stretti, quindi, come se non bastasse, al di sopra erige una loggia architravata di dimensioni assai minori rispetto all’usuale. Esito? Un peristilio niente affatto angusto. Il risultato scaturisce dal fatto che l’artista lo movimenta col ritmo delle colonne e con l’arrotondamento degli spigoli. Ne nasce un vuoto pulsante che deriva dalla sensazione che danno gli elementi architettonici di voler reagire alla pressione esterna. Così facendo il Borromini inventa una formula che avrà molto successo nell’architettura a venire.

Roma, chiesa di San Carlo alle Quattro Fontane
Borromini
INTERNO (1638/1641)

Ai committenti, i padri trinitari, sorpresi, lo stile non dispiace e pertanto appena terminato il chiostrino incaricano il Borromini di costruire la chiesa accanto. Anche questa volta Francesco è costretto a lavorare in uno spazio risicato, e anche in questo caso invece di espandere l’esiguo vuoto con artifizi prospettici lo riduce e contrae con l’inserimento di colonne assolutamente sproporzionate in grandezza e numero al carico da sopportare. Ma lui se ne infischia della statica, le colonne gli servono per dare maggiore forza plastica alle pareti, dare il senso di contrattura dello spazio interno; per lo stesso motivo pone l’asse maggiore dell’ellisse di base perpendicolare alla strada invece che parallelo. Questa pressione diventa tangibile quando si alzano gli occhi verso la cupola: la calotta infatti è bensì ellittica ma schiacciata lungo le curve tangenti agli archi maggiori. Per apprezzare meglio il dinamismo delle superfici interne apre gli spazi di servizio ai quattro angoli, che diventano così punti d’osservazione privilegiati per una visione dello spazio interno più ricca di movimento.

Roma, oratorio dei Filippini
Borromini
FACCIATA (1637/1643)

Le invenzioni di Francesco nel chiostrino iniziano a fare il giro della committenza e arrivano agli occhi dei Filippini ancor prima che sia terminato l’interno di San Carlino. Questi senza perder tempo lo incaricano di sistemargli l’oratorio adiacente alla chiesa di Santa Maria della Vallicella.
Portando avanti contemporaneamente il San Carlino e l’Oratorio Francesco mutua nelle due fabbriche l’esperienza acquisita sui due cantieri.
Nell’Oratorio inflette la facciata di modo che la luce crei effetti di ombra leggermente variabili sui risalti plastici, costituiti da cornici e lesene. Anche qui le membrature appaiono esagerate rispetto al lavoro statico che devono assolvere, addirittura il cornicione del primo ordine rischia di essere spezzato dai timpani a pagoda che incorniciano le finestre sottostanti. Al centro della facciata apre nell’ordine superiore un’esedra la cui lieve profondità viene ancor più sminuita dalla prospettiva delle calotte, la quale invece che aumentare il senso di vuoto schiaccia ulteriormente lo spazio sul piano del fronte. Sotto l’esedra, per ridare equilibrio al movimento dell’intero prospetto, estroflette, con effetto opposto a quello dell’intero alzato, la porzione di superficie dove insiste l’ingresso.
Il Borromini cerca nei prospetti esterni lo stesso movimento che cerca in quelli interni poiché per lui il vuoto urbano si comporta come quello dei cortili e dei chiostri, comprime gli edifici, i quali a loro volta reagiscono contraendosi. Lo spazio del Borromini è fatto di forze, non di forme; per contrastarle occorre un materiale adattabile, plasmabile, che si pieghi docilmente alla volontà dell’artefice. Ecco dunque spiegato perché, contrariamente al Bernini, il Borromini usa soprattutto il mattone, l’intonaco, lo stucco. Contrariamente al Bernini egli non si preoccupa affatto dell’aspetto monumentale da dare alla città attraverso le singole opere, affronta invece il problema da ingegnere e si concentra sulle questioni funzionali.

Roma, Sant’Ivo alla Sapienza
Borromini
ESTERNO DELLA CHIESA (1642/1660)

È il 1642, Bernini è impegnato in grandi opere di scultura: il San Longino, il Monumento Funebre a Urbano VIII e, forse, il Tritone per piazza Barberini. Al Borromini viene affidato il completamento della “Sapienza”, l’antica università di Roma, e qui la sua fantasia non conosce limiti, ogni elemento strutturale è frutto di invenzione.
Con ciò il Borromini dichiara apertamente che l’arte è frutto della pura ispirazione e che l’ispirazione può cogliere l’artefice in un qualsiasi momento, non necessariamente quando lavora. Questo significa che l’arte si confonde con l’esistenza e come tale un edificio religioso non è solo uno spazio per la pratica ascetica, è l’espressione stessa della pratica ascetica.
Tale assunto è messo in chiare forme nella chiesa che chiude il quarto lato della Sapienza, Sant’Ivo.
La chiesa di Sant’Ivo alla Sapienza è tutta una creazione ispirata; non c’è niente di scontato. La pianta è mistilinea, la cupola prosegue la struttura della pianta cosicché non si pone come chiusura del vano interno ma come il suo proseguimento. Essendo stata cancellata la croce greca la cupola non imposta più sui pennacchi, ma si alza direttamente dall’architrave. All’esterno non se ne vede se non una piccola parte, sotto i contrafforti piegati in senso inverso. Al suo posto si erge imponente un candido tamburone ellittico, movimentato da lesene appena affioranti che ne spezzano la continuità: l’unico richiamo alla forma interna. Dal tamburo si prosegue con il lanternone, delimitato da una cornice ricavata dalla lettura del tempio rotondo di Baalbek; sopra al lanternone si stacca il lanternino, che come un cavatappi avvita e protende la costruzione verso il cielo.

IL MOMENTANEO TRIONFO DEL BORROMINI E L’ECLISSAMENTO DEL BERNINI

Roma, basilica di San Giovanni in Laterano
Borromini
INTERNO (1646/1649)

Nel 1644 sale al soglio pontificio Alessandro Pamphili col nome di Innocenzo X, e la ruota della fortuna si mette improvvisamente a girare dalla parte di Francesco; al contrario il Bernini entra in crisi. A lui il nuovo papa affida il lavoro più prestigioso del momento: il restauro della cattedrale di Roma, San Giovanni in Laterano. Il Bernini invece va ad occuparsi delle fontane in piazza Navona e della cappella Cornaro in Santa Maria della Vittoria.
Per ammodernare la vecchia basilica di San Giovanni c’è pochissimo tempo; occorre che sia pronta per il Giubileo del 1650. Il problema che si trova di fronte Francesco è quello di allestire un grande spazio senza poter toccare dimensioni ne planimetria: in sostanza si tratta di rifarle il trucco. La soluzione escogitata è quella di inviscerare nell’antica basilica una sorta di gigantesca teca addobbata a festa. Il vano centrale risulta immerso nella luce, le pareti sembrano diaframmi d’avorio, gli ornamenti ricami preziosi. Per la prima volta il Borromini può lasciare libero lo spazio curandosi di agitarlo senza comprimerlo. È un Borromini nuovo quello di San Giovanni, un Borromini che sa di poter disporre di mezzi commisurati alla sua fantasia; con i grandi lavori Francesco può dimostrare di non essere solo un architetto da chiesette e chiostrini.

Roma, collegio di Propaganda Fide
Borromini
Disegno per il collegio di Propaganda Fide tratto dall’Opus architectonicum del 1725

Contemporaneamente al San Giovanni Francesco porta avanti un’altra fabbrica abbastanza prestigiosa, il collegio per la propaganda della fede: il collegio di Propaganda fide. Anche in questo caso si tratta di un intervento di adeguamento della facciata alle nuove condizioni urbane.
La veduta d’infilata condiziona le scelte dell’architetto, così Francesco accentua il rilievo delle lesene e del cornicione conferendogli maggiore forza e slancio. L’effetto è quello di uno sconvolgimento visivo nella resa della classica proporzione fra strutture statiche e peso. La facciata risulta percorsa da enormi, altissimi sostegni che non reggono praticamente nulla, solo un piano interlocutorio: è come se l’edificio mancasse di un secondo ordine. Ma anche qui è chiaro che il Borromini pensa alle strutture statiche come mezzo di regolazione della luce e non come elementi di equilibrio dei pesi. Lesene e trabeazione sono apparati per illuminare le ornatissime cornici a edicola concave e convesse delle finestre: autentiche cesellature. La facciata non è una quinta scenografica, è un congegno per trasformare la luce naturale in luce soprannaturale, divina, allusiva come nei mosaici bizantini rispetto al contenuto dell’edificio.

Roma, chiesa di Santa Maria della Vittoria
Bernini
ESTASI DI SANTA TERESA (1647/1652)
Marmo e bronzo dorato, altezza mt. 3,50

Benché caduto in crisi nel periodo giubilare il Bernini non resta senza far niente. Anzi, lontano dai grandi e onerosi impegni pubblici si può dedicare a curare l’aspetto più prettamente lirico della sua poetica. Ed è proprio nelle opere del periodo che va dal 1644 al 1655 che Gian Lorenzo precisa quello che sarà l’indirizzo prevalente della sua maturità, ovvero il dissolvimento della struttura classica in luce. Il saggio col quale apre il nuovo ciclo è l’Estasi di santa Teresa, opera di pittura, scultura e architettura insieme, che si trova nella cappella Cornaro in Santa Maria della Vittoria, chiesa situata sull’asse porta Pia-Quirinale. La cappella si presenta come lo spaccato di una sala teatrale dove personaggi appartenenti alla famiglia Cornaro assistono, comodamente seduti in un palco, alla rappresentazione dell’estasi della santa. Il trasalimento estatico è evidente nell’espressione di Teresa, ma anche nella compiaciuta partecipazione dell’angioletto (che sa molto di Eros pagano), il quale è colto nel gesto di infilare (o sfilare) la freccia dell’amore nel cuore (o dal cuore) della santa. Il tutto è bagnato da una luce dorata che ricade sulle superfici mobilissime del marmo come l’acqua di una cascata, ma l’effetto che produce è quello dei riflettori di scena. Questa luce, naturale, proviene dalla lanterna della cupoletta che copre la cappella.
Molti critici di fronte a tale superba prova di virtuosismo tecnico si chiedono se siamo di fronte a un tripudio dei sensi. Può essere! Ma al di là delle insinuazioni, lecite e illecite, il vero significato della rappresentazione non è nel giubilo, ma nel trasalimento dei sentimenti, trasalimento espresso dalla forma materiale che attraverso il prodigioso modellato si trasforma in palpitante vibrazione luminosa.
L’opera, nonostante le riserve, ha un discreto successo, e il Bernini si ripete 24 anni dopo nella statua della Beata Ludovica Albertoni, in San Francesco a Ripa.

Roma, piazza Navona
Bernini
FONTANA DEI FIUMI (1648/1651)
Marmo e travertino

Roma, piazza Navona
Borromini
SANT’AGNESE IN AGONE (1652/1657)

Pronta la cattedrale di Roma nel 1649, il Borromini passa, dopo il Giubileo, alla chiesa di Sant’Agnese in Agone, in piazza Navona. Ormai è un architetto lanciatissimo, pensa proprio di aver “sfondato”, ma presto si accorgerà che così non è. A piazza Navona rincontra il suo vecchio rivale Bernini, il quale ha appena finito di montare la fontana dei Fiumi.
La storia che vorrebbe uno dei quattro fiumi, il Gange (o secondo altri il Rio della Plata), scolpito con una mano davanti al volto per proteggersi dall’imminente cedimento della chiesa che gli si para di fronte, Sant’Agnese per l’appunto, dunque risulterebbe falsa.
La fontana, come tutte le fontane del Bernini del resto, non è pensata come un semplice oggetto d’arredo urbano, né il piedistallo dell’obelisco egizio che si erge al centro della piazza. Il suo significato è esplicito: la storia s’innalza sopra la natura, ma in essa affonda le proprie radici.
Come nella Galleria del Carracci anche qui tutto è finto, tutto è immagine: esseri umani, rocce, piante e animali. Tutto è di marmo, tranne l’acqua: l’unico brandello di natura vera in una natura fatta di gelida pietra metamorfica. Eppure nelle mani del Bernini anche la materia inanimata prende vita e, complice l’immaginazione, l’artificio diventa parte integrante della realtà. Insomma nelle fontane è esplicito più che mai il principio correggesco che vuole l’arte come quel particolare tipo di procedimento che permette la prosecuzione della natura nella simulazione.
In Sant’Agnese il Borromini ritorna sulle vecchie esperienze sperimentate nel San Carlino e nei Filippini. La chiesa con la sua fronte cava sembra cedere alla pressione della piazza, ma la facciata reagisce con l’avanzamento delle due estremità laterali. Lo stesso equilibrio dinamico cercato in larghezza è cercato in altezza. Al lungo filo orizzontale dell’agone la chiesa risponde con l’innalzamento della cupola e delle due torri campanarie. Ergendosi verso il cielo cupola e campanili si trovano presi fra due pressioni di verso opposto, una che tende a schiacciarli sullo sfondo e l’altra che tende a comprimerli verso la piazza. L’effetto di questa doppia pressione forgia la loro forma, che appare così ellittica invece che tonda com’è nella realtà.

IL RITORNO DEL BERNINI ALL’ARCHITETTURA

Roma, chiesa di Sant’Andrea al Quirinale
Bernini
FACCIATA (1658/1660)

Nel 1655 muore Innocenzo X. Il suo successore Alessandro VII (1655-1667) torna a preferire il Bernini al Borromini, così Francesco è costretto a riscendere dal podio dove era salito. È un colpo davvero duro per lui assistere impotente alla propria disfatta e alla ripresa trionfale del suo avversario. Il rovescio di fortuna lo getta in uno stato depressivo talmente profondo che non ne uscirà mai più fuori, se non con il gesto estremo del suicidio.
Siamo oltre la metà del secolo, il tormento di Francesco è ormai vicino all’epilogo; la tensione interna cresce e insieme anche l’eleganza estenuata e la purezza ritmica delle sue costruzioni. Nel 1664 il Borromini torna là dove aveva iniziato la sua carriera; torna per finire l’opera che lo aveva liberato dalle dipendenze del Bernini. Ma erano solo dipendenze economiche; la presenza del suo rivale lo ha perseguitato per tutta la vita e continua a perseguitarlo. C’è un unico modo per liberarsi da questa persecuzione: farla finita. E la morte arriva puntuale, dopo tre anni, quando non potendo più sopportare la condizione di perdente si toglie la vita. La facciata del San Carlino è l’ultima pagina della sua lunga polemica contro il Bernini. L’ultimo oggetto della sua contesa è li accanto: è la chiesetta di Sant’Andrea al Quirinale, che Bernini costruisce nel 1658.
Il ritorno all’architettura del Bernini è contrassegnato da un’attività frenetica che si concretizza in parecchi progetti, molti dei quali rimasti sulla carta. Tutti questi lavori hanno una giustificazione: Bernini architetto e scultore vuole rimodellare Roma ad immagine e somiglianza di una città moderna. La chiesetta di Sant’Andrea al Quirinale è un intervento fatto in applicazione a questa sua strategia, pienamente appoggiata dalla curia. L’intera opera si ispira al Pantheon, e non è un caso. In quegli stessi anni Gian Lorenzo sta progettando i due campanili che devono “rifinire” la facciata dell’antico monumento adrianeo, trasformatosi durante il VII secolo in chiesa cristiana. Sant’Andrea sorge lungo l’asse viario che collega la porta Pia con le quattro principali basiliche di Roma. Dritti per dritti si arriva a San Paolo se ci si dirige a sinistra, a San Pietro se si prende a destra, se si svolta a sinistra all’altezza del San Carlino si giunge a Santa Maria Maggiore e quindi a San Giovanni in Laterano attraverso la via Sistina.
La facciata è un poderoso apparato classicheggiante che preannuncia allo spettacolo interno. Con un occhio ben fisso su quello che va sperimentando contemporaneamente Pietro da Cortona in Santa Maria della Pace, Gian Lorenzo opera su tre parti distinte, ognuna delle quali in possesso di un ruolo ben preciso. La prima parte è costituita da due ali murarie curve che suonano come invito ad entrare nella chiesa. La seconda parte è costituita dall’ingresso monumentale, ovvero un protiro semicircolare proteso verso l’esterno, con andamento opposto a quello dei due setti murari, impiantato su una poderosa scalinata, anch’essa semicircolare, che le fa da podio. Il protiro getta un’ombra profonda sul prospetto timpanato, il terzo elemento: un diaframma corrugato, increspato da potenti risalti plastici generati da forti membrature architettoniche.
Superato l’ingresso ci si trova immediatamente a contatto con un’altra dimensione, uno spazio privilegiato, lo spazio di dentro, dove l’azzurro del cielo si trasforma nell’oro dell’Empireo. L’interno della chiesa è costituito da un grande vano ellittico chiuso da una cupola che si innesta direttamente sull’architrave curva. Così facendo spariscono insieme alla tradizionale pianta a croce i classicissimi pennacchi: un’idea questa che gli è stata sicuramente suggerita dal Pantheon, ma non si può escludere che abbia guardato a Sant’Ivo. La pianta ha dunque una conformazione ellittica. L’ellisse di base è posta con l’asse maggiore parallelo alla strada, mentre alle due estremità dell’asse minore sono collocati l’ingresso e l’altare maggiore. La scelta dell’asse minore dell’ellisse come asse di penetrazione ha una motivazione precisa: dare la sensazione di uno spazio che si espande, uno spazio fatto di luce dorata come si compete ad una realtà divina.
La scelta della pianta ellittica invece che circolare risiede nel fatto che in quegli stessi anni Gian Lorenzo sta lavorando alla sistemazione della piazza antistante la Basilica Madre e si è fatta strada in lui l’idea di uno spazio mobile, orbitale, da vivere, non statico da contemplare. Di qui la scelta di una forma che permetta più punti di vista, come un’ellisse ad esempio con i suoi fuochi.
Affacciate all’interno di questo spazio a due cuori c’è una doppia serie di quattro cappellette, disposte radialmente a coppia su quattro diversi centri, a svolgere un ruolo fondamentale nella distribuzione dell’illuminazione. La parete ad anello che racchiude lo spazio ellittico interno improvvisamente si apre quando passa dalle parti dell’altare. Allora le lesene diventano colonne, le nicchie buie si trasformano in un’abside irradiante luce propria, la trabeazione si arricchisce del timpano, curvo sia in pianta che nel profilo frontale; dentro, la materia si spiritualizza e diventa luce dorata: si passa così dallo spazio di natura, esterno, allo spazio divino, interno.
A guardar bene il tutto, qualcuno potrebbe essere indotto a pensare che si tratta principalmente di scenografia. E infatti lo è. L’abside più che un elemento liturgico, con le sue luci misteriose, provenienti da sorgenti interne nascoste, è un palcoscenico dove si recita il rito sacrificale della santa messa, e il vano assembleare è la sala dove il pubblico assiste, seduto, allo spettacolo.
In questa operetta c’è tutto il Bernini lirico, un Bernini che partendo da modelli classici si è perso per strada la coerenza strutturale del linguaggio canonico, smembrandolo e dissolvendolo nella ricerca di un momento cosmico intessuto sui rapporti analogici con la musica: segno evidente dell’influenza anticlassica borrominiana.
Della forma del volume interno, all’esterno non c’è traccia. Fuori, la chiesa risulta costituita da tre cilindri di misura decrescente man mano che ci si spinge verso il cielo, contenuti uno nell’altro. Il primo corrisponde alla parete e ai relativi vuoti delle cappellette; il secondo alla cupola; il terzo è la lanterna. Come nel Pantheon dunque la calotta esterna si vede solo in parte, ma la presenza della lanterna che sembra ergersi direttamente dal tamburo dipende da un’idea borrominiana.

L’ULTIMA OPERA DEL BORROMINI

Roma, chiesa di San Carlo alle Quattro Fontane
Borromini
FACCIATA (1664/1667)

La facciata di San Carlino è il testo con cui si conclude lo scontro perpetratosi per un’intera vita fra il Borromini e il Bernini. Vista nell’insieme architettonico di chiesa e chiostro il complesso religioso rappresenta l’antitesi al Sant’Andrea al Quirinale, ma al di là dell’antonimia l’edificio è il testamento poetico di una visione diametralmente opposta a quella che si va affermando con la costruzione del colonnato di San Pietro. Alla forma più unitaria e universalistica di tutta l’epoca barocca il Borromini oppone la forma più frammentaria, discontinua e antimonumentale che si possa mai concepire in questo momento. A un livello ancora più profondo il volto del San Carlino è l’espressione di una concezione poetica che vede nell’architettura, intesa come tecnica, lo strumento del riscatto della vita umana dalla condizione di materialità a cui Iddio l’ha condannata.
La facciata più che una proiezione dello spazio interno è concepita come un reliquario esposto all’ammirazione dei passanti, utilizzato per tamponare la parete d’ingresso alla chiesa. Le condizioni ambientali non possono suggerire di meglio, però si sarebbe potuto almeno tentare un accordo fra la chiesa e la strada. E invece il Borromini, disattendendo tutte le aspettative, fa spiccare una parete lavorata a ridosso della carreggiata, così, senza inviti, senza mediazioni, esattamente il contrario di quello che ha fatto il Bernini poco più avanti nel Sant’Andrea.
L’analogia con i reliquari non è casuale, e dell’intera struttura sfugge la ragion statica. Ci si chiede a cosa serva tutta questa montatura di colonne e cornici, cosa sorregge. La parete, a due ordini, finisce con una balaustra, questa tra l’altro non è neanche continua, è interrotta dall’inserimento di una cornice ovale che inquadra la figura dell’Assunta (ma il soggetto non è certo). È mai possibile che tutto quest’apparato architettonico serva solo a sorreggere una cornice?
È evidentemente un assurdo in termini di logica architettonica. La sottigliezza dello spessore sommata al triplice movimento concavo, convesso, e poi ancora concavo contribuisce ad aumentare l’effetto di instabilità dell’intera facciata, cosicché l’effetto mobile aumenta il senso di inadeguatezza della parte al tutto. Allo sbalzo delle colonne risponde l’incavo profondo delle nicchie; l’ingresso invece di dare il senso di accoglimento sommesso sembra voler fagocitare il pellegrino o il viandante di passaggio. Il Borromini non ha trascurato proprio niente, la sua opera nasce dalla ribattitura punto su punto delle intenzioni berniniane: ormai la polemica è estesa su tutti i livelli d’intervento, non più soltanto sul piano architettonico. L’arte nel Borromini non è più concepita come rappresentazione dello spazio, bensì come parte dell’esistenza che accade nello spazio; non dunque contemplazione, ma lavoro, azione, attività sul campo. Tradotti in termini urbanistici: non città come visualizzazione universalista di eterni poteri, ma città come luogo di vita, luogo dove l’esperienza religiosa e l’esperienza del lavoro quotidiano si compenetrano. Si capisce allora perché sconfitto in vita il Borromini abbia trionfato nella morte. La sua arte non esprime l’autorità spirituale della Chiesa ma l’aspirazione dell’individuo e della comunità alla spiritualità cristiana. Quindi un pensiero che incontra l’indubbio favore di chi vede nell’uomo e solo nell’uomo la fonte prima e la giustificazione di ogni potere, ovvero di tutti quei personaggi che condurranno l’umanità verso una nuova stagione, la stagione illuminista.

BERNINI INCONTRASTATO ARTEFICE DEL BAROCCO

Roma, Città del Vaticano, basilica di San Pietro
Bernini
LA CATTEDRA DI SAN PIETRO (1657/1666)
Marmo policromo, bronzo e stucco dorato

Morto il Borromini, il Bernini resta l’unico, incontrastato dominatore della scena artistica. C’è anche Pietro da Cortona (1596–1669), ma ancora per poco, e poi non ha lo spessore morale del Borromini. Gian Lorenzo è impegnatissimo; ha appena terminato la sua opera più importante, quella per cui valicherà la soglia dell’eternità: il colonnato di San Pietro. Nel frattempo ha portato a termine anche due altri lavori di notevole rilevanza, sempre per la Basilica Madre: la cattedra e la Scala Regia.
La cattedra di San Pietro iniziata nel 1657 e terminata nel 1666 è un’immensa macchina architettata per stupire. Situata all’estremità opposta dell’ingresso alla basilica suggerisce l’esito celeste del lungo cammino dell’uomo: dalla natura, l’esterno, alla trascendenza nell’Empireo che scende nella chiesa, la cattedra appunto, passando attraverso il corpo della basilica, l’esperienza terrena guidata dalla Chiesa. Il valore artistico di questa smisurata scenografia permanente sta tutto nella trasformazione della struttura prospettica in una struttura fatta di pura luce.

Roma, Città del Vaticano
Bernini
SCALA REGIA (1663/1666)

Nella Scala Regia, il Bernini dimostra di essere un virtuoso dell’architettura oltre che della scultura. Il riferimento al Borromini e alla sua prospettiva di palazzo Spada, di dieci anni prima, qui si fa esplicito. Ma nella scala vaticana Gian Lorenzo si serve dell’artificio prospettico non per allungare illusionisticamente lo spazio, ma per abbreviarlo e sfruttare in senso monumentalistico il fenomeno ottico del rimpicciolimento delle figure in rapporto alla profondità. In palazzo Spada la prospettiva è concepita come immagine virtuale, qui, nella scala regia invece, la prospettiva è uno spazio concreto, percorribile.

Roma, Città del Vaticano
Bernini
COLONNATO DI SAN PIETRO (1656/1667)

Tornando al colonnato, occorre premettere che l’antica basilica paleocristiana era preceduta da un quadriportico, il quale fungeva da luogo d’attesa per i catecumeni. Al Bernini spetta il compito di adeguare il vecchio disegno alla nuova immagine della San Pietro moderna.
Da architetto imposta il problema sul dato ritenuto senz’altro più importante: la cupola. Gian Lorenzo ripensa all’idea di Michelangelo, per cui la struttura doveva imporsi su tutto il resto. Di conseguenza rivede la soluzione del Maderno, il cui intervento aveva finito per relegarla a sfondo con la costruzione di una facciata troppo larga. A tal fine il Bernini escogita una serie di interventi volti a restituirle il ruolo di protagonista. Eccolo dunque inventare il colonnato che riprende la forma tondeggiante dell’ogiva e dilata in larghezza ciò che nella cupola si va concentrando in altezza. Per accorciare la facciata progetta due campanili alle due estremità opposte, ma questi non verranno mai costruiti. L’antico quadriportico non solo si trasforma nella più famosa piazza del mondo cristiano, ma riscatta e valorizza l’intera basilica. Da atrio si trasforma in luogo di raccolta e d’attesa dei pellegrini provenienti da ogni dove (ne può arrivare a contenere 150.000). Ha un suo significato allegorico: le braccia che accolgono l’intera comunità di Cristo; ma ha anche un inestimabile valore storico: è la prima architettura urbanistica, cioè la prima “urbatettura” moderna.
Nell’idea del Bernini la piazza deve essere una sorpresa che si dispiega fra l’intrigo di vie e viuzze che la circondano; la basilica deve essere vista a brani e secondo prospettive sempre variabili. Anche all’interno del colonnato i punti di vista si dividono: sono i due centri dell’emiciclo che si trovano nei pressi delle fontane. Ne risulta che la Basilica Madre è più un’immagine da ricostruire mentalmente e non un’apparizione che si dà all’occhio tutta in una volta. L’effetto architettato dal Bernini verrà cancellato dall’apertura della via della Conciliazione, un intervento effettuato durante l’epoca fascista, che insieme alla perdita di una delle più originali trovate dell’artista ha distrutto anche una parte di storia: la cosiddetta Spina di Borgo.
Nel 1680, all’età di 82 anni il Bernini muore; non è possibile sapere quanto sereno. Certo la sua vita non ha conosciuto crisi, tranne che in un brevissimo periodo. I contemporanei lo hanno celebrato come il genio del secolo; egli è stato il fattore essenziale della restaurazione cattolica. Il suo assunto è semplice ed efficace: l’arte è la tecnica capace di trasformare l’immaginario in realtà concreta. E questo, in un momento in cui si mette in dubbio che l’immaginazione possa venire in soccorso della fede, rappresenta una bella risposta della Chiesa cattolica alla Chiesa protestante. Trasposta ai nostri giorni l’idea berniniana è ancora pienamente condivisibile, anzi operante.
Naturalmente l’immaginazione non è la realtà. Ma se la realtà, come dice Caravaggio, è senza speranza allora solo immaginando si può sperare. L’arte è la tecnica che realizza dunque i sogni: oggi questo compito è passato nelle mani della scienza. Rimane tuttavia davanti a tale postulato l’obiezione di fondo che così si rischia di creare un mondo di illusi. Ma se l’illusione aiuta ad essere più sereni e non ci sono controindicazioni cosa c’è di male ricorrere ad essa. Borromini come Caravaggio avverte: l’immaginazione è inganno! Ma Gian Lorenzo muore nel suo letto; Caravaggio di malaria fra atroci sofferenze e Borromini suicida.
Comunque la sorte più strana toccherà al Bernini, costretto a rimanere in eterno col busto eretto in una nicchia fra la chiesa di Santa Maria delle Fratte, che non si degna di guardare, e il palazzo di Propaganda Fide, entrambe opere del Borromini. Per quanto riguarda lui, Francesco, giace accanto al suo stimato maestro Maderno in San Giovanni dei Fiorentini.

BERNINI: OPERE GIOVANILI

Roma, Galleria Borghese
Bernini
GIOVE BAMBINO ALLATTATO DALLA CAPRA AMALTEA INSIEME AD UN FAUNO (1615 c.)
Marmo, altezza cm. 45

Prima di diventare il più glorificato artista di tutto il Barocco, il Bernini è uno splendido scultore. Gian Lorenzo come Michelangelo è un genio precoce. A 17 anni circa scolpisce un Giove bambino che insieme ad un fauno viene allattato dalla capra Amaltea. Un’operetta alta soli 45 cm. ma che fu creduta un autentico reperto ellenistico fino a non molto tempo fa. Questo aneddoto ci fa capire come il giovane Bernini non miri tanto a imitare la natura quanto piuttosto l’Antichità. Ma non quella classica, bensì quella ellenistica, il cui obiettivo non era di rappresentare la realtà così com’è, ma la realtà come appare, dunque l’immagine del vero e non già il vero in sé.
Ed è proprio la cultura ellenistica una delle componenti culturali che concorrono alla sua formazione, le altre sono il virtuosismo del tardo manierismo, l’opera dei grandi maestri del Cinquecento e il classicismo carraccesco.
La tecnica, come pensavano i manieristi, deve manifestare sé stessa, la sua artificialità, ma, e qui sta la novità del Bernini, non deve distorcere la natura, la deve imitare, senza per questo rinunciare ad essere quello che è, artificio: insomma se lo scultore riesce a dare la lucentezza della seta ad un drappo fatto di marmo lo deve fare senza nascondere all’occhio che il drappo non è seta ma marmo. Se Gian Lorenzo imita la natura è per dimostrare che nulla è nel Creato che la tecnica non sia in grado di rifare. Sin dall’inizio ciò che interessa al Bernini è proprio questo valore magico della tecnica, che può rendere al vivo una qualsiasi immagine, e l’immagine, a sua volta, come mera apparenza può caricarsi di volta in volta di diversi significati.

Roma, Galleria Borghese
Bernini
DAVID (1623/1624)
Marmo, altezza mt. 1,70

Per il cardinale Scipione Borghese, collezionista d’arte, scolpisce tre gruppi marmorei e una statua isolata. Nell’ordine: Enea e Anchise, il Ratto di Proserpina, il David e l’Apollo e Dafne. Le quattro opere vengono realizzate in un arco di tempo che va dal 1619 al 1625. Sono estremamente importanti oltre che incredibilmente belle, perché ci permettono di vedere chiaramente il processo formativo del giovane Gian Lorenzo.
Nel David il Bernini prende posizione contro tutta una tradizione. Lo coglie nel momento in cui sta per armare il colpo, dunque in movimento; non un attimo prima, mentre pensa a cosa fare, né un attimo dopo, in stasi, quando il dramma si è consumato. Nulla ci dice il Bernini sull’esito dell’azione dell’eroe: e qui è il punto d’incontro col Caravaggio. Lo spazio che isolava e trasponeva l’eroe rinascimentale in una dimensione ideale qui è aggredito con violenza e rotto; il diaframma che nel Rinascimento separava l’immagine virtuale dell’arte dalla realtà dell’osservatore è qui annullato. Il quadro come piano di proiezione è sparito; la statua vive nello stesso spazio reale dell’osservatore. Ma non si vuole far passare la finzione marmorea per quello che non è, ovvero carne, bensì se ne vuole rendere la sua esplicita natura di roccia metamorfica.

Roma, Galleria Borghese
Bernini
APOLLO E DAFNE (1622/1625)
Marmo, altezza mt. 2,43

Nell’Apollo e Dafne la mitologia si fa vita vera, concreta; la scultura come la pittura ha il potere di render immagine la materia. Apollo e Dafne sono fatti di marmo, e si vede, eppure sembrano perdere gravità e librarsi nell’aria: è un miracolo! Si, ma della prodigiosa tecnica dell’artista. Omai il Bernini ha scelto la sua strada: dimostrare che l’antitesi fra realtà e immaginazione non ha più ragione d’essere; l’immaginazione sostituisce la realtà, la realtà dipende dall’immaginazione.

Roma, Città del Vaticano, basilica di San Pietro
Bernini
BALDACCHINO DI SAN PIETRO (1624/1633)
Bronzo, legno e marmo, altezza mt. 28,5

Appena ventiseienne, Gian Lorenzo non ha ancora finito di scolpire Apollo e Dafne che Urbano VIII lo incarica, quasi per scommessa, di riempire il vuoto lasciato sotto la cupola dalla mancata realizzazione del monumento funebre di Giulio II (1503-1513). Molti artisti si erano cimentati nell’impresa, ci sono state molte proposte di soluzione, ma dopo un secolo le cose sono rimaste tali e quali: il vuoto è sempre vuoto. Nel frattempo però la situazione è cambiata: infatti l’intervento del Maderno ha profondamente modificato il progetto originale di Michelangelo. Con l’aggiunta della navata centrale, laddove il genio aveva visto il fulcro del più importante tempio cristiano, si è formata una strozzatura. Posto così davanti al problema, Gian Lorenzo capisce subito che bisogna cercare nella direzione opposta a quella dei suoi predecessori. Il sacello non va più bene: interromperebbe la prospettiva; ma neanche un tabernacolo: diminuirebbe la monumentalità dell’interno. E allora il Bernini con un colpo di genio capovolge i termini della questione e s’inventa niente di meno che un baldacchino, di quelli che si portano in processione durante le feste religiose. Lo ingigantisce e lo piazza proprio nel bel mezzo della crociera. Il Baldacchino di San Pietro non è solo una strepitosa invenzione, è anche un’opera d’arte. Con le sue quattro colonne tortili di bronzo l’intera struttura si mette in movimento creando un nucleo che irradia luce vibrante all’intorno. Non si tratta di un nocciolo statico, ma dinamico; alla centralità immobile di Michelangelo il Bernini sostituisce la circolarità in crescendo della sua macchina scenica di bronzo.
La luce che s’irradia dal baldacchino produce delle eco luminose nelle strutture d’intorno. Tali sono da considerarsi le logge delle reliquie, in alto, e le statue nelle nicchie ricavate nei quattro piloni di sostegno della cupola. E in una di queste lo stesso Gian Lorenzo si premura di realizzare e collocare il San Longino. Dentro San Piretro l’intervento del Bernini non si limita alla crociera. L’artista si occupa anche delle navate laterali. Qui trasforma la prospettiva del Maderno in ondate di moto luminoso, dando ad ogni campata una sorgente propria. In questo modo il corpo basilicale diventa il congegno prospettico-luministico attraverso cui lo spazio-luce esterno, naturale, si congiunge allo spazio-luce metafisico della cupola.

PIETRO DA CORTONA, ARTEFICE DEL BAROCCO IN PITTURA

Pietro da Cortona
VILLA SACCHETTI AL PIGNETO (1625/1630)
Da un’incisione di Pier Leone Ghezzi

Roma, palazzo Barberini
Pietro da Cortona
TRIONFO DELLA DIVINA PROVVIDENZA (1633/1639)
Decorazione della volta del salone

Sono passati appena vent’anni dalla morte del Carracci e del Caravaggio e a tenere banco sulla scena artistica romana, come abbiamo appena visto, è un nuovo confronto, quello fra il Bernini e il Borromini. Il contrasto fra i due avviene soprattutto in campo architettonico, ma Bernini è soprattutto scultore, e sarebbe stato anche un eccellente pittore se avesse continuato per questa strada. Con la loro opera la contrapposizione fra classicismo e realismo, fra Carracci e Caravaggio, si traduce in contrapposizione fra classicismo e anticlassicismo.
Presi dallo scontro titanico fra questi due personaggi ci si dimentica spesso di Pietro da Cortona, artista di pari levatura del Bernini e del Borromini. Insieme a loro è stato il fondatore del nuovo stile che di li a breve invaderà tutte le maggiori corti europee: il Barocco.
Pietro Berrettini (questo è il suo vero nome) è architetto, scultore e pittore. Nasce a Cortona, nota cittadina toscana in provincia di Arezzo, culla del Signorelli (1445 c. – 1523), nel 1596. La sua è una famiglia di muratori e scalpellini. Pietro giunge a Roma ancora giovinetto, al seguito del suo maestro fiorentino Andrea Comodi (1560–1638). Qui passa nella bottega di Baccio Ciarpi (1574-1654), anche lui toscano. L’incontro che gli cambia la vita però è quello con i marchesi Sacchetti per i quali costruisce il casino della villa di Monte Mario, detta “il Pigneto”. Questo edificio, oggi perduto, è il primo esempio conosciuto di Barocco architettonico; ne fa fede l’analisi delle stampe che lo ritraggono. In queste immagini è possibile notare come nel palazzotto siano già messe in chiaro le strutture della nuova poetica barocca: una concezione degli elementi costruttivi dinamico prospettica, nonché una contrapposizione fra contrattura dello spazio artificiale, architettonico, e distensione dello spazio ambiente, naturale. Tramite Marcello Sacchetti (1586-1629) il Cortona entra nel giro delle commissioni di rilievo, per gran parte costituito a quell’epoca dai Barberini. Da questo momento in poi per Pietro è tutto un crescendo che culminerà con l’affresco del salone Barberini.
Il tema che lo attende è quanto mai complesso. Si tratta di rappresentare il trionfo della divina provvidenza e il compimento dei suoi fini attraverso il primato spirituale e temporale del papato al tempo di Urbano VIII. Il Berrettini lo piglia di petto senza lasciarsi intimorire e compie il miracolo. Nasce così la prima opera pittorica barocca. Se il realismo caravaggesco può essere interpretato come una rivoluzionaria esperienza conoscitiva dell’uomo sull’uomo, se il classicismo post-carraccesco un’arte razionalistica e teorizzante, espressione della nuova borghesia imprenditoriale in via di sviluppo, il Barocco va inteso come l’arte delle corti, dell’aristocrazia terriera e conservatrice. Lo scopo dell’arte barocca è quello di confondere il vero con l’immaginario. Ne approfitta la Chiesa per inserirsi col suo programma di recupero della fede e del corpo dei credenti: un’arte illusiva può ben convincere l’osservatore del legame tra Dio e istituzioni terrene.
I lavori hanno inizio nel 1633 e terminano sei anni dopo, fra ripetute interruzioni. In questa impresa Pietro estende il principio dell’arte come enfasi retorica, sperimentato nella galleria Farnese dal Carracci, alle rappresentazioni sacre.
Lo schema dell’affresco muove da quello carraccesco, ma lo semplifica. Riduce ad un unico grande telaio le strutture architettoniche, aumenta in proporzione il numero delle figure così come aumenta il senso di frammistione fra corpi in carne e ossa e corpi in stucco. La volta invece che chiudere apre in modo illusorio su un cielo empireo dove volano le gigantesche api Barberini e gli altri simboli della religione cattolica trionfante.
Pietro da Cortona muore nel 1669 all’età di 73 anni, dopo essersi visto respinto il progetto per la realizzazione del Louvre di Parigi.