LE CONQUISTE CHE CAMBIANO PER SEMPRE IL VOLTO DI ROMA
LE PRIME TRASFORMAZIONI
TEMPIO DELLA FORTUNA VIRILE E TEMPIO DI VESTA
LE CITTÀ, LE DOMUS E LE INSULAE
SCULTURA ROMANA: IL RITRATTO VIRILE
PER LE STRADE DI ROMA
PITTURA ROMANA
LA SVOLTA IMPERIALE
ARA PACIS AUGUSTÆ
DESCRIZIONE DELL’ARA PACIS
IMPORTANZA STORICO ARTISTICA DELL’ARA PACIS AUGUSTÆ
IL COLOSSEO: L’OLIMPICO DEGLI ANTICHI ROMANI
DESCRIZIONE DEL COLOSSEO


LE CONQUISTE CHE CAMBIANO PER SEMPRE IL VOLTO DI ROMA

Roma, foro Boario
TEMPIO DELLA FORTUNA VIRILE (II/I sec. a.C. periodo repubblicano)

È il 146 a.C., i Romani conquistano la Grecia e la Macedonia; da questo momento in poi l’arte capitolina non sarà mai più la stessa; cessa di dipendere da quella etrusca e passa sotto l’influenza greca. Nasce così il linguaggio greco-romano, ovvero quel modo espressivo particolare che, facendo un parallelo con la letteratura, potremmo definire con il termine di latino figurativo classico, che è poi quel repertorio formale specifico che si identifica per noi col linguaggio occidentale propriamente detto.
Il latino figurativo è il primo linguaggio neoclassico della storia; è inconfondibile nella sua solenne compostezza. Scaturisce dalla fusione di due componenti culturali fondamentali: quella idealistica e quella realistica. Il matrimonio fra idealismo e realismo costituirà, da Ottaviano a Napoleone, il più importante elemento stilistico d’identificazione della ricorrente categoria del classicismo, latino e non greco, la quale riaffiorerà più volte nel corso della storia a contrassegnare i passaggi più importanti della costruzione della cultura occidentale.
Stante la discendenza del classicismo romano da quello greco, di fatto i due classicismi differiscono tra loro. Per i Romani, divenuti ormai un popolo di conquistatori, l’arte è un mezzo di propaganda; a loro non interessa l’aspetto speculativo, ma quello pratico. Ai “figli della lupa” non piacciono i problemi strutturali della forma artistica, quello che gli preme è propagandare in termini di universalità un’immagine di forza e virtù eterne nelle persone dell’imperatore e delle più alte cariche dello stato. Utilizzano le forme classiche come si utilizzano le parole di una lingua, pensando bene che se il linguaggio greco è stato utile in patria per raccontare leggende sarà altrettanto utile a Roma per raccontare storie vere di battaglie e trionfi. Il problema principale che si trova ad affrontare l’arte romana a partire dalla fine del II secolo a.C. è dunque quello di determinare i modi più efficaci per propagandare l’immagine di Roma e della sua civiltà. Il perseguimento di questo obiettivo, non troppo dissimile da quello ricercato dall’arte ellenistica, induce gli artisti dell’epoca ad apportare solo lievi cambiamenti al linguaggio figurativo ellenico. Da ciò ne risulta che l’arte romana della prima fase espansionistica non interviene pesantemente sulle strutture lessicali argive, ma si limita a modificare alcuni canoni in rapporto ai nuovi contenuti. L’originalità dell’arte romana di questo periodo non sta tanto nella forma quanto piuttosto nelle tematiche e nelle nuove argomentazioni.
Col passare del tempo, però, e con le mutate esigenze comunicative della committenza capitolina del periodo imperiale, si inizia a dissaldare la struttura stessa dei singoli vocaboli che costituiscono il linguaggio greco, e con la disgregazione della forma classica si inizia a perdere tutto il carico di conoscenza accumulatasi nell’arte in secoli di esperienza. Così il processo di disfacimento del linguaggio occidentale, iniziatosi in epoca ellenistica, continua con la storia di Roma imperiale, fino a concludersi con il suo totale dissolvimento ad opera delle cosiddette correnti provinciali.

LE PRIME TRASFORMAZIONI

Le prime manifestazioni del nuovo indirizzo greco-romano si hanno a partire dai massicci interventi di ristrutturazione operati nel cuore di Roma durante l’ultimo secolo di vita della repubblica.
Le trasformazioni iniziano con Lucio Cornelio Silla (138-78 a.C.) e Giulio Cesare (100 a.C. c. – 44 a.C.), i quali mettono mano ai fori di Roma con vari interventi di edificazione e ricostruzione. Al primo si devono la realizzazione del Tabularium, nonché il completo rifacimento del tempio di Giove Ottimo Massimo; al secondo si devono la creazione della Nuova curia, della basilica Giulia, che prende il posto della Sempronia, e di un intero foro, il foro di Cesare.
È con loro che si inizia a sostituire allo stile di stampo tradizionale, etrusco, quello di stampo ellenico; è con loro che ci si pone il problema di dare un nuovo volto a Roma, più consono al suo nuovo ruolo di capitale del Mediterraneo. Ma nella trasformazione, dell’originaria cultura tuscanica non tutto va perduto, per cui si assiste ad una fusione fra componenti dell’uno e dell’altro patrimonio figurativo. Questa fusione la si vede bene nei templi in marmo che vanno rimpiazzando quelli in legno e terracotta delle origini.

TEMPIO DELLA FORTUNA VIRILE E TEMPIO DI VESTA

Dei numerosi templi definiti tecnicamente a schema longitudinale che costellavano i vari fori e la sommità dei colli romani di completo a Roma ce ne è rimasto solo uno, il tempio dedicato a Portunus, divinità portuale, comunemente conosciuto come tempio della Fortuna Virile. Questo tempio costituisce il punto d’inizio di una profonda metamorfosi tipologica nell’architettura sacra romana. Infatti prima i templi romani ricalcano sostanzialmente quelli etruschi, sia nelle forme che nei materiali da costruzione. Con l’arrivo degli “schiavi” greci si volta pagina, e il tempio della Fortuna Virile di questo voltar pagina ne costituisce una delle prime e più significative testimonianze.
L’impianto originario risale a Servio Tullio (578-534 a.C.) il promotore dell’ampliamento delle mura di Roma, misura resasi necessaria per adeguare la cinta difensiva ad una popolazione arrivata ormai a 30-40.000 abitanti: siamo negli anni del suo regno, corrispondente all’epoca di Pisistrato, in Grecia. Del tempietto serviano ovviamente non è rimasto più nulla, se non, forse, le fondazioni che fanno da sostegno alla struttura che ancora oggi è possibile osservare sul posto. Più in particolare il tempio in origine era dedicato ad una divinità che aveva a che fare con le porte in genere, diventata poi custode del porto, in quanto ingresso fluviale-marino alla città. Questa divinità si identificava con Melicerte-Palemone, figlio di Ino-Leucotea, entrambe greche.
La leggenda racconta che Ino, zia di Dioniso (Bacco), per salvare il figlio Melicerte dal marito, impazzito, si gettò in mare trasformandosi in una divinità marina; madre e figlio sarebbero stati poi accolti da Ercole (Eracle) nel foro Boario. I Latini appropriandosi del mito greco hanno associato Ino alla loro Mater Matuta, protettrice della maternità, della navigazione e dei commerci. In conclusione, dunque, il tempio risulta dedicato alla Mater Matuta, tuttavia è conosciuto come tempio della Fortuna Virile, e ciò esige una spiegazione.
Si sa che Servio Tullio fu un re baciato in più di una occasione dalla buona sorte. Sua madre colpita da una scintilla invece di bruciarsi restò incinta; Servio stesso, da bambino, fu assalito dalle fiamme nel sonno, ma non ne riportò la ben che minima scottatura. Fu l’unico re di Roma imposto, non eletto; fu anche il primo schiavo ad assurgere ai massimi poteri dello stato. È certo che Servio Tullio dedica diversi templi alla dèa Fortuna, e la tradizione ricorda in particolare un tempio eretto a lei nel foro Boario, accanto a quello della Mater Matuta.
Tornando alle questioni linguistiche c’è da dire che, nonostante l’influenza culturale ellenistica, il tempio romano, come quello etrusco, non arriva mai ad esprimersi nelle tipologie complesse che caratterizzano il tempio greco, e, come per gli Etruschi, anche per i Romani le ragioni vanno ricercate nella particolarità della loro religione.
In linea con quanto avviene presso gli altri popoli dell’antichità anche presso i Romani i riti sacrificali si svolgono all’aperto. Il tempio vero e proprio sorge alle spalle dell’area sacrificale e serve soltanto ad accogliere il simulacro della divinità. Questo, contrariamente a quanto avviene in Grecia, non è costituito da una statua gigantesca, ma da oggetti sacri o tutto al più da immagini votive di dimensioni contenute, per cui le celle dei templi romani servono più che altro a custodire cose, non statue, e, naturalmente, l’immancabile fuoco purificatore.
Dal punto di vista stilistico, il tempio greco-romano si può definire come il risultato della fusione di due tipologie sacre, quella greca e quella etrusca, con l’aggiunta di elementi romani. Nel tempio della Fortuna Virile, alla tipologia etrusca si ispira il poderoso podio su cui poggia l’intero edificio e la scalea d’accesso al pronao, proiettata all’innanzi ad assolvere la funzione di unico collegamento fra il nudo suolo e lo stilobate. Il pronao si presenta profondo come quello etrusco e costituito da una doppia fila di colonne parallele. Ma la seconda fila non ha lo stesso numero di colonne della prima, bensì la metà (mancano le due di mezzo), e questa è un’invenzione romana. Tale disposizione crea un largo vuoto centrale davanti all’ingresso della cella, inesistente nelle altre tipologie. Pure romano è Il naos, formato da un unico ambiente che occupa l’intero peristilio della porzione di colonnato che fa seguito a quello del pronao. Un simile accorgimento determina la formazione di una doppia sensazione: da un lato sembra che le colonne siano immerse nella muratura, dall’altro le stesse sembrano emergere per metà al semplice scopo di decorare le pareti esterne del naos. Questa particolare tipologia planimetrica viene definita pseudo-periptera, cioè quasi periptera; non è d’invenzione romana, ma a Roma non è un’eccezione, bensì la regola.
L’alzato, se si eccettua il basamento fatto a podio con la scalinata anteriore, ricalca quello greco prostilo in stile ionico. Rispetto alla tipologia prostila ionica però il tempio della Fortuna Virile differisce per alcuni importanti particolari. Ad esempio le colonne sono estremamente rigide, legnose; la dimensione delle basi, di tipo asiatico, non sembra armonizzarsi con il resto del tempio; i capitelli hanno un abaco troppo sottile rispetto agli altri elementi della colonna, tanto che l’intera articolazione da l’impressione di rimanere schiacciata sotto la pressione del fusto. Questo effetto priva di fluenza lineare il passaggio dal colonnato alla trabeazione. La trabeazione, anch’essa piccola, schiacciata, non appartiene allo stile ionico, come il colonnato, ma a quello corinzio. Infatti è costituita dal solo fregio, visto che l’architrave, tripartito, premuto addosso ai capitelli, è ridotto ad una grossa cornice. La copertura sembra rispettare le proporzioni, anche se nell’insieme risulta piuttosto massiccia.
Non si sa con certezza se, come in tutti i templi, sia greci che etruschi, a coronamento della copertura ci fossero acroteri e antefisse, così come non si è certi sul tipo di bassorilievi che dovevano decorare il fregio continuo e se il timpano fosse ravvivato dalla presenza di elementi plastici. Nel caso del fregio si è avanzata l’ipotesi di una decorazione che si richiamava a quella destinata ad ornare i recinti sacri, fatta di festoni di foglie di quercia e bucrani.

Roma, foro Boario
TEMPIO DI VESTA (O DI ERCOLE) (II/I sec. a.C. periodo repubblicano)

Accanto al tempio della Fortuna Virile c’è un altro tempio che come questo ci è pervenuto quasi per intero, si tratta del cosiddetto tempio di Vesta.
Il tempio di Vesta in realtà con Vesta non ha nulla a che fare. Il ritrovamento dei resti di una iscrizione e di una statua di culto non lasciano alcun dubbio: si tratta di un santuario dedicato ad Ercole «Olivario», protettore degli oleari, i commercianti d’olio. E infatti è proprio un mercante romano di olio, Marco Ottavio Erreno, arricchitosi con il commercio del prezioso alimento, a finanziare la sua costruzione. Forse l’autore dell’edificio è Ermogene (o Ermodoro di Salamina?), lo stesso architetto che ristrutturerà il tanto famigerato quanto misterioso tempio di Giove Statore, il primo tempio a passare dal coccio al marmo. Al suo interno non c’è custodito il fuoco sacro, ma una statua di Ercole. Autore della statua si ritiene il cosiddetto Skopas minore.
Vicino a questo tempio ne sorgeva un altro in tutto e per tutto simile, sempre dedicato ad Ercole, vincitore stavolta, voluto da Scipione Emiliano (185-129 a.C.) nel 142 a.C., di cui però non è rimasta traccia architettonica. Unico avanzo la pietra di copertura del tombino di raccolta delle acque di dilavamento dei resti liquidi dei sacrifici, ovvero la cosiddetta “Bocca della verità”.
Dal punto di vista tecnico il tempio di Vesta è chiaramente ispirato alla tipologia a tholos, il periptero circolare. Decisamente meno originale del precedente, ricalca fedelmente il tipo greco, anche se, come ovvio, con qualche differenza riferibile più che altro alle proporzioni.
Anche per questo tempio, come per quello della Fortuna Virile, si deve parlare di colonne troppo rigide, benché la rigidità, nel caso specifico, sia largamente mitigata dai capitelli in stile corinzio. Dalle ricostruzioni ipotetiche che ne sono state tentate il colonnato risulta più proporzionato rispetto all’altezza dell’intera struttura, così come l’altezza dei gradini della base, gradonata, risulta in linea con lo stile del resto della costruzione. Non è pertanto imputabile alla sproporzionalità della struttura originaria l’effetto di schiacciamento che si produce allorquando ci si sofferma a guardare l’intera struttura da lontano.
Il vero tempio di Vesta, sempre rotondo, si trovava sul lato orientale del Foro Romano. Oggi restano le spoglie appartenenti alla ricostruzione curata dalla moglie dell’imperatore Settimio Severo (145-211), Giulia Domna (160-217), in seguito all’incendio del 191. Era direttamente collegato con la Casa delle vestali da un lato e con la Regia dall’altro.
Le vestali erano speciali sacerdotesse che avevano l’importantissimo compito di mantenere sempre acceso il fuoco sacro, simbolo della continuità della vita di Roma. Lo spegnimento della fiamma perenne era interpretato dall’intera comunità come presagio di gravi eventi calamitosi. La loro era una carica che comportava il voto di verginità. Il voto doveva essere osservato per trent’anni. In caso di violazione le sventurate incorrevano in una punizione atroce: venivano sepolte vive con un pane e un lume, nel campus sceleratus, presso la porta Collina, sul Quirinale. Gli antichi attribuiscono a Numa Pompilio (753-673 a.C.) la creazione del corpo sacerdotale, ma il culto di Vesta è molto più antico: declama l’importanza della conservazione del fuoco per la vita degli uomini. All’epoca di Numa il fuoco ardeva nella Regia, ma in seguito all’avvento della repubblica il fuoco della casa del re diventò fuoco della casa comune, di qui la necessità di un tempio tutto per lui. Le vestali erano scelte dal pontefice massimo fra le giovani rampolle delle famiglie patrizie, da cui venivano allontanate a partire da un’età minima di sei anni ad una massima di dieci. Erano in numero di sei; la loro casa era costituita da quattro lunghi bracci che si affacciavano su un grande cortile interno porticato: il primo “convento” della storia.

LE CITTÀ, LE DOMUS E LE INSULAE

Pompei, casa dei Vettii
INTERNO VISTO DALL’ATRIUM (I sec.)

Il tempio della Fortuna Virile e il tempio di Vesta sono tutto quel che resta di intero, come architettura, dell’epoca di Cesare e Silla.
In campo scultoreo, dopo la conquista dei regni ellenistici, succede una cosa analoga a quella che succede in campo architettonico, cioè si fonde il ritratto virile romano con la statuaria classica. Un fenomeno stravolgente, di eccezionale portata storica, tanto da meritare un discorso più approfondito. Ma per far questo occorre immergersi nell’intricato dedalo di viuzze che irrorano le città romane, entrare nelle domus e andar a vedere cosa avveniva per strada durante i funerali di un cittadino importante.
Delle statue commemorative che popolavano numerose il Foro Romano già dai primi tempi della repubblica non rimane più nulla. In compenso se ne sono conservate altre, che non figuravano fra quelle esposte nel Foro, ma fra quelle esposte negli atri delle domus private. Grazie ad esse oggi possiamo capire quali siano stati i modelli a cui si ispirerà la particolarissima ritrattistica augustea.
Roma antica non vuol dire solo templi e basiliche; a Roma ci si abita pure, e anche molto a giudicare dal numero di persone che vi risiedevano o si trovavano nella capitale solo per affari o di passaggio. A Roma città ci sono due tipi fondamentali di abitazioni: le domus, per i ricchi, e le insulae, per i poveri.
La domus romana deriva dalla casa ellenistica; la casa ellenistica a sua volta riprende e sviluppa la casa classica. Nella casa ellenistica la distribuzione degli spazi ripete lo schema impostato sul megaron, ma amplia nel numero e nella grandezza gli ambienti che vi si affacciano. Col passare del tempo il megaron si trasforma in hortus, mentre le sale diventano sempre più numerose e grandi. L’abitazione ellenistica non è più soltanto la dimora dove si riunisce la famiglia, cioè il nucleo di base della società democratica, ma è ormai una vetrina per rendere manifesto il rango sociale del padrone di casa.
Se ci si vuol rendere conto da presso della struttura delle domus il posto migliore non è Roma, ma sono le due cittadine campane di Pompei ed Ercolano, dove oltre ad averne una visione completa in pianta ed in alzato è possibile apprezzarne anche la dislocazione urbana. In alternativa, per chi risiede nella Roma di oggi, c’è anche Ostia Antica, sulla Via Ostiense, a pochi chilometri dalla capitale.
Se si eccettua Roma e le altre città più antiche o dalla storia più complessa, tutti gli insediamenti fondati dai Romani seguono uno stesso schema. Questo schema è di una semplicità estrema e si richiama per via diretta all’organizzazione degli accampamenti militari e per via indiretta all’urbanistica ippodamea. La città romana è strutturata intorno a due assi ortogonali principali, il cardo maximus, che corre da nord a sud, e il decumanus maximus, che corre da est ad ovest; alle due estremità opposte dei singoli assi si ergono le porte d’ingresso. La porta più importante generalmente è quella posta ad est e si chiama porta pretoria; sul lato opposto si apre la porta decumana; alle due estremità del cardo invece si aprono le cosiddette porte principali: destra a sud e sinistra a nord. All’incrocio delle due vie principali si apre il foro, cioè la piazza monumentale. Parallelamente al cardo e al decumano corre tutta una serie di vie e viuzze che va a formare dei lotti regolari in cui trovano sede le singole abitazioni. Tutto intorno, infine, poderose mura di cinta pensano a difendere gli abitanti dalle insidie esterne.
Solitamente le domus, grandi o piccole che siano, ricalcano tutte uno stesso schema di fondo. Concettualmente la dimora patrizia è un’organizzazione di diaframmi disposti in modo tale da attenuare il passaggio dal fuori al dentro, dal pubblico al privato, e, architettonicamente parlando, dalla luce diretta del sole alla penombra. L’intera abitazione gravita su due spazi interni, quadrangolari, chiusi verso l’esterno da muri perimetrali privi di finestre ma aperti verso il cielo. Questi due spazi sono rispettivamente l’atrium e l’hortus. L’atrio consiste in un cortile incentrato su una vasca, l’impluvium, e circondato da un certo numero di stanzette, i cubicoli. Nell’impluvium si raccolgono le acque piovane che discendono dal tetto, compluvium, forgiato in modo apposito per far confluire la pioggia nel bacino sottostante. Questo a sua volta è collegato ad una cisterna sotterranea che ha lo scopo di raccogliere l’acqua utile agli usi domestici. Sul lato prospiciente la strada dell’atrio si aprono le fauces, ovvero il corridoietto d’ingresso attraverso cui si accede all’interno dell’abitazione. All’interno, di fronte alle fauces si trova il tablinium, vale a dire il soggiorno. Qui il padrone di casa riceve i suoi ospiti e si intrattiene con loro in amabile conversazione. L’hortus consiste in un giardino, sempre quadrangolare, circondato sui quattro lati da un corridoio porticato, il peristilio, sul quale si aprono le camere da letto. Queste hanno dimensioni abbastanza contenute e dispongono dell’arredo strettamente necessario al fabbisogno notturno. Accanto al tablinio è collocato il triclinium, ovvero la sala da pranzo. Essa ha due ingressi, uno piccolo, che permette l’accesso dalla cucina, situata nell’ala estrema dell’atrio, e l’altro, grande, che si apre sul peristilio. Il triclinio è formato da tre rialzi di pietra, disposti a ferro di cavallo intorno ad un ceppo squadrato; su questa base è appoggiata una pietra che funge da ripiano per le vivande. Nelle grandi occasioni la tavola si fa più sontuosa e compaiono i klínai, ovvero divani particolari, appositamente forgiati per accogliere i commensali. Questi, come è ben noto, mangiano stando sdraiati; ogni klíne può ospitare due persone. Le domus spesso sono a due piani. In quello inferiore abitano i padroni di casa, in quello superiore la servitù.

SCULTURA ROMANA: IL RITRATTO VIRILE

Roma, villa Albani
RITRATTO DI DEFUNTO (forse un patrizio romano)
Copia della prima metà del I secolo da un originale della prima metà del I secolo a.C.
Collezione Torlonia
Marmo, altezza cm. 35

Nelle domus non c’è gran che. Oltre alle sedie, di vari tipi e dimensioni, figurano tavoli e armadi; in molti casi gli armadi sono degli autentici “armadi a muro”, cioè stipi incassati nei tramezzi. Sotto gli architravi dell’atrio o nei tablini, cioè nelle zone aperte al pubblico, non è affatto infrequente trovare erme con ritratti a mezzo busto come quello della collezione Torlonia, o statue come la statua Barberini: sono le foto di famiglia dell’epoca, tenute nei soggiorni dell’epoca. Alcuni busti sono custoditi in apposite bacheche addossate alle pareti che intercorrono fra una porta e l’altra dei cubicoli.
L’usanza di tenere presso di sé i busti degli antenati risale al periodo proto-storico. All’inizio al posto delle erme di marmo si custodiscono delle maschere di cera o terracotta. Queste maschere vengono ricavate dal calco eseguito direttamente sul volto del defunto da artigiani specializzati; una tradizione questa che risale ai tempi degli Atridi. Le erme come le maschere non servono a ravvivare le “vetrine” di casa, servono soprattutto a ricordare il defunto, in special modo durante il corso delle celebrazioni tenute in suo onore.

PER LE STRADE DI ROMA

Fino a poco tempo prima dell’avvento dell’impero, in occasione della ricorrenza annuale della morte di un personaggio illustre i famigliari dello scomparso erano soliti organizzare una processione lungo i vicus della città a cui partecipava idealmente anche il defunto. Per simulare la partecipazione dell’estinto si ingaggiava una persona che nell’aspetto fisico lo ricordasse. Stessa altezza e stessa corporatura bastavano allo scopo, al resto ci pensavano gli abiti del morto ed una maschera ricalcata direttamente sul suo volto per dare l’impressione che egli fosse ancora vivo tra i vivi. Le maschere una volta servite allo scopo venivano riposte negli armadi, pronte per essere di nuovo utilizzate nella ricorrenza successiva. Ma al di là dell’aspetto folcloristico queste manifestazioni contemplano un aspetto morale.
Ciò a cui i Romani, indipendentemente dalla generazione d’appartenenza, tengono di più non è tanto il prolungamento della vita del singolo individuo oltre la morte quanto l’affermazione e la continuità della civiltà romana attraverso le gesta dei suoi valorosi cittadini. E non si pensi che alla realizzazione di questo disegno politico siano chiamati solo imperatori e generali con le loro imprese eroiche, ma anche il comune cittadino con la condotta di una vita esemplare, virtuosa, priva di cedimenti, tutta domus, stato e famiglia, il cui contegno possa servire da esempio a tutti, giovani e anziani, patrizi e plebei, uomini liberi e schiavi. Si spiega così l’indirizzo moralistico particolare assunto dall’arte figurativa, soprattutto dalla scultura, ritenuta la più adatta a rendere evidenti le virtù del cittadino romano. Di qui discendono anche le sostanziali differenze della cultura figurativa romana con le due componenti fondamentali delle sue radici storiche, la greca e l’etrusca. Infatti al contrario di quella etrusca l’immagine artistica romana è fatta per rivolgersi ai vivi, non ai morti; a differenza di quella greca, invece, non mira a trasmettere valori intellettuali, bensì a rendere visibile la storia, il passato, le esperienze vissute. Questi valori si comunicano attraverso i segni concreti impressi dagli eventi sulla pelle degli individui. Per questa funzione la parte del corpo privilegiata è senz’altro il volto: ecco perché dunque nell’arte romana prospera il ritratto.
Benché molto simile al ritratto etrusco, tanto che, specialmente sul finire dell’epoca repubblicana, è facile confondere i prodotti romani dagli originali tuscanici, il ritratto virile capitolino se ne differenzia per un realismo teso a portare l’individuo sul piano del presente, al cospetto del sociale, non alle soglie dell’eterno, al cospetto dell’aldilà: quella romana è un’arte che deve trasmettere valori morali, non indizi di vita biologica.
Questo realismo biografico, che ricerca le tracce degli eventi vissuti, più che le tracce della pura esistenza biologica, non guarda tanto alla natura quanto alla capacità dell’immagine artistica di evocare nella mente dell’osservatore l’idea di civiltà romana attraverso il fenomenizzarsi dei momenti salienti della vita del cittadino. Questi momenti salienti, come è stato detto, sono principalmente tre: la dedizione a Roma, al lavoro, alla famiglia. A causa della relazione espressiva con la psicologia, in effetti il ritratto virile romano del II/I secolo a.C. sembrerebbe molto più vicino a quello greco che a quello etrusco, eppure la scarna severità con cui si raffigurano sia le soldatesche che gli illustri cittadini (imperatore compreso), esente da cedimenti e concessioni verso i legami armonici regolatori della dislocazione e dell’estensione spaziale degli elementi costruttivi, lo allontanano dal primo non meno che dal secondo.
A Roma, nel periodo tardo repubblicano, di busti come il già ricordato busto della collezione Torlonia ce ne dovevano essere tantissimi, tutti fortemente caratterizzati. L’erma in particolare esemplifica in modo assai eloquente quanto detto a proposito del ritratto virile. Non si conosce il nome del personaggio raffigurato; è probabile che si tratti di un patrizio romano, di quelli coriacei del periodo pre-imperiale. L’analisi del ritratto ci permette di rilevare il modo attraverso cui l’anonimo autore si propone di evocare visivamente il senso delle virtù romane nell’osservatore.
Ad esempio l’accenno di corazza che lo scultore ci lascia appena intravedere ci rende edotti del fatto che il ritrattato è un soldato, le rughe ci fanno capire la raggiunta maturità, mentre l’espressione severa ci racconta di un’esistenza virtuosa, impostata sulla serietà, moderazione e perseveranza, condotta all’insegna di regole rigide, immolata alle cause dello stato e della famiglia. Il viso scavato ci dice che si tratta di un uomo temprato da esperienze di vita dure; la cute spessa ci parla di costumi rustici, di un’esistenza divisa fra i campi di battaglia e quelli di grano, di una quotidianità consumata all’aperto, non di rado passata a lavorare accanto agli schiavi. Non è poi per caso che tra le rughe spesse come la corteccia di un albero si fanno strada delle evidenti cicatrici, o deformità: è la prova evidente che si vuole dar risalto ai segni lasciati dalle battaglie sostenute a difesa di Roma, o, chissà, forse per ampliarne il potere.

Roma, Campidoglio, palazzo dei Conservatori
STATUA BARBERINI (50/30 a.C.)
Marmo, mt. 1,65

Dell’epoca di Cesare è la cosiddetta statua Barberini. Questa triplice effigie marmorea, detta Barberini dal luogo di rinvenimento, i giardini di palazzo Barberini, rientra nella tipologia dei ritratti virili, anche se in realtà si tratta di un gruppo marmoreo. Essa rappresenta un patrizio romano (se ne ignora l’identità), il quale reca in mano i ritratti dei suoi antenati. Stando alla somiglianza si capisce che il volto del personaggio raffigurato per intero appartiene a qualcun altro, ma a parte questo “incidente” l’opera ci informa bene sul tipo di orientamento imperante fra la classe gentilizia nell’ultimissimo scampolo di vita della repubblica.
Già dalla prima occhiata ci si rende conto che l’autore del gruppo, sconosciuto anche in questo caso, abbia voluto unire nella statua del personaggio togato due linguaggi di diversa origine culturale: quello realistico nella resa del volto e quello greco classico nella resa del resto del corpo. Infatti nel volto ritroviamo tutti gli elementi tipici della ritrattistica ellenistico/tuscanica, mentre nel resto del corpo ritroviamo gli elementi canonici del modello classico: proporzionalità aurea, ponderazione, chiasma. Più in particolare la ponderazione è evidente nella gamba destra che fa da puntello all’intera massa, mentre l’altra gamba è leggermente piegata; il chiasma è palpabile nella corrispondenza ad X degli arti, nonché nel braccio destro, disteso a tenere ferma la testa di uno dei due antenati su di un ceppo a forma di palma, e in quello sinistro, piegato a sostenere l’altro ritratto.
La proporzionalità aurea è rilevabile nel rapporto di 1:7½ fra l’altezza delle singole parti e l’altezza dell’intera figura.

PITTURA ROMANA

Pompei, casa dei Vettii
RAFFIGURAZIONE MITOLOGICA
Decorazione parietale (I secolo)

Pompei, casa dei Vettii
ERMAFRODITO E SILENO (I secolo)
Affresco, altezza mt. 1,50

Un ruolo meno impegnativo ma ugualmente importante nel definire l’aspetto intimo di una domus lo svolge la pittura. Le pareti interne delle dimore patrizie sono spesso ornate di affreschi che, oltre ad avere il compito di rifinire gli alloggi, hanno il compito di rendere gli ambienti più caldi ed accoglienti.
A Roma la pittura è considerata assai meno che la scultura e l’architettura. Ciò non significa comunque che non abbia una storia. Purtroppo la storia della pittura romana può essere scritta soltanto per sommi capitoli, molto incompleti, poiché ci rimangono pochissime testimonianze. Ma proprio per questo le poche opere che ci restano, benché spesso di scarsa qualità artistica, si rivelano preziosissimi documenti storici. Inoltre non va assolutamente dimenticato che per la pittura romana vale lo stesso discorso ritenuto valido per la pittura etrusca, e cioè che oltre ad avere un valore come documento in sé risulta di estrema importanza perché ci permette di farci un’idea della pittura greca del periodo ellenistico, di cui pressoché nulla è giunto fino a noi.
Guardando ai brani pervenutici ci si può rendere conto come, ancor più rapidamente che in architettura e in scultura, nel suo grembo si compie il processo di disgregazione della struttura formale del linguaggio classico. Il motivo di un tale fenomeno va senz’altro ricercato nella natura stessa del linguaggio pittorico, un linguaggio meno legato all’idea di solidità e durevolezza a cui invece sono inevitabilmente legate scultura e architettura.
Come la scultura, la pittura romana ricalca l’impostazione ellenistica, ovviamente con una più spiccata tendenza alla risoluzione delle immagini per macchie di colore. Questo fatto tecnico mette in rilievo il progressivo allontanamento, in epoca romana, dell’arte dal problema dell’imitazione dell’immagine naturale. Anche la pittura capitolina, così viva, non fa altro che costruire con pochi tocchi di colore immagini mnemoniche, culturali, derivanti più da quel che si è appreso attraverso l’esercizio della disciplina che non da quello che si è sperimentato di persona.
Il posto migliore per conoscere ed apprezzare la pittura romana è senza dubbio Pompei e i suoi dintorni, da dove proviene quasi tutto quello che sappiamo della disciplina. A conservare questo patrimonio storico e culturale ci ha pensato per noi il Vesuvio con l’eruzione del 24 agosto dell’anno 79 d.C.

LA SVOLTA IMPERIALE

Roma, foro di Augusto
VEDUTA DEL FORO COL TEMPPIO DI MARTE ULTORE

Tornando all’architettura e alla scultura romana nel periodo dell’espansionismo imperialista, la vera svolta classicista, dopo la conquista dei regni ellenistici, si ha con il principato di Augusto.
Dalla storia sappiamo che dopo il 15 marzo del 44 a.C., giorno in cui Giulio Cesare viene assassinato, si scatenano una serie di avvenimenti che portano Roma dalla repubblica all’impero. Artefice della trasformazione della repubblica in principato è Ottaviano, figlio adottivo di Cesare. Ottaviano nasce il 23 settembre del 63 a.C., muore il 19 agosto del 14 d.C. quando manca poco più di un mese al compimento dei suoi 77 autunni; quando Cesare viene trucidato ha 19 anni. Diventato ufficialmente Augusto il 16 gennaio del 27 a.C. dà inizio ad una serie di interventi che cambiano per sempre il volto della capitale.
Dice Svetonio (69-126 d.C. c.) che Augusto trovò Roma fatta di mattoni e la lasciò di marmo. Retorica a parte, la frase di Svetonio ci fa capire con assoluta chiarezza che se oggi della Roma pre-imperiale non rimangono altro che i fantasmi lo dobbiamo ad Augusto. Infatti è proprio a lui che si deve la ristrutturazione massiccia del Foro Romano, il cuore vivo dell’Urbe. Taglia le antiche vie di penetrazione sud-ovest/nord-est, che dal foro Boario portavano alla Suburra con un asse perpendicolare che collega la valle del Colosseo al Campo Marzio attraverso la via Lata; abbatte i vecchi templi di legno e terracotta e li ricostruisce più grandi e più resistenti impiegando travertino, peperino e marmo cipollino; finisce di costruire gli edifici lasciati incompiuti da Cesare; fabbrica ex novo archi trionfali, dimore e un intero foro, il foro d’Augusto. In seguito ai suoi interventi la Roma di Romolo e di Furio Camillo svanisce per sempre.
Seguendo un percorso quasi rettilineo, il nuovo asse augusteo si snoda fra il tempio di Romolo e la casa delle Vestali. In prossimità della Regia si sdoppia, a sinistra passa sotto l’arco Aziaco, dritto per dritto sfocia nella piazza; passando quindi fra le quinte eccellenti del tempio del Divo Giulio e delle due basiliche, l’Emilia e la Giulia, si trasforma in via sacra. Arrivata all’altezza della curia Giulia svolta bruscamente verso il Campidoglio per andarsi a inerpicare sulle sue pendici alla volta del tempio di Giove Ottimo Massimo. Durante l’ultimo tratto si lascia alle spalle il tempio della Concordia, poi, man mano che sale, il portico degli Dei Consenti e il tempio di Saturno. Arrivata alla sommità del colle la strada si biforca per permettere l’accesso al Tabularium, l’edificio in cui venivano conservati tutti i codici legislativi dell’Urbe.

ARA PACIS AUGUSTÆ

Roma
ARA PACIS AUGUSTÆ (13/9 a.C.)
Marmo, altezza mt. 3, 68 – larghezza mt. 11,62 – profondità mt. 10,65

La svolta imperiale impone sul piano culturale la scelta di un’arte di stato. Sulla preferenza del linguaggio visivo da adottare per la nuova funzione encomiastica dell’arte Augusto non ha dubbi. Per la sua indiscussa grandezza, ma anche per la sua universalità, la scelta non può che ricadere sull’arte classica: un’arte capace di innalzare l’umanità sul piano della divinità può riuscire altrettanto bene nel compito di elevare sullo stesso piano la figura dell’imperatore. Cosicché in campo scultoreo, sotto la spinta del culto della personalità dell’imperatore, il vecchio ritratto virile dell’epoca repubblicana, commemorativo delle virtù romane, si trasforma in statua laudativa dell’integrità morale della classe dirigente. In campo architettonico ai vecchi templi che inneggiano alle divinità protettrici si vanno affiancando i nuovi monumenti celebrativi delle imprese del “divino Cesare”. Da questo quadro evolutivo resta fuori la pittura, o per lo meno così sembra dal momento che non ci sono giunte testimonianze di dipinti onorari.
In periodo imperiale dunque la figura dell’imperatore e la cronaca delle sue imprese vengono a sostituire, al livello delle tematiche dominanti nelle opere pubbliche, le divinità e le loro vicende mitologiche: è l’espressione dell’identità fra divinità e stato. Ciò che viene raccontato nei fregi e nelle decorazioni plastiche dei monumenti non è però la verità, ma solo quello che si vuol far credere ai cittadini romani, curando di trasmettere sempre e soltanto messaggi di virtù e potenza.
Nasce così, per programma, il classicismo augusteo.
Il primo monumento in cui si manifesta il nuovo indirizzo è L’Ara Pacis Augustæ. La sua importanza per la storia delle arti visive è paragonabile all’importanza dell’Eneide per la storia delle arti letterarie. L’Ara Pacis, lo dice il nome stesso, è un altare dedicato alla pace riportata da Augusto all’interno dei confini dell’impero fra i singoli regni e il potere centrale dopo che la ribellione di alcune province della Spagna e i moti per l’autonomia delle regioni d’Oltralpe ne stavano mettendo in crisi l’unità; pace ottenuta a prezzo di durissime repressioni e occupazioni militari. Quelle contro gli spagnoli sono condotte dall’amatissimo genero Agrippa (63-12 a.C.); quelle contro i francesi sono affidate alle legioni comandate dai due figli di Livia (58 a.C. 29 d.C.), Tiberio (42 a.C.-37 d.C.) e Druso (38-9 a.C.). L’Ara Pacis è dunque un altare commemorativo. Viene fatto erigere dal senato di Roma con apposito decreto emesso nel 13 a.C. Per realizzarlo ci vogliono tre anni e mezzo. I lavori hanno inizio il 4 luglio del 13 a.C.; l’inaugurazione ha luogo il 30 gennaio del 9 a.C. Il senato lo vuole collocato nella curia, ma Augusto preferisce Campo Marzio, fuori dalle mura cittadine, nella zona prescelta per la collocazione del suo Mausoleo.
All’epoca di Augusto Campo Marzio è una “zona verde” frequentata dalla gioventù romana per tenersi in forma: è una specie di Central Park, di Farnesina dei giorni nostri. Ancor prima, in epoca monarchica era un’ampia distesa acquitrinosa che si incuneava nell’ansa del Tevere compresa fra l’attuale ponte Cavour, corso Umberto e ponte Sisto. Il suo nome, che significa pianura di Marte, deriva da un altare d’origine antichissima, situato al centro della piana, dedicato al dio della guerra. A causa delle sue caratteristiche peculiari quest’area era spesso utilizzata per gli scontri armati. Sulle sponde del fiume, nei pressi dell’attuale ponte Vittorio Emanuele, si trovava anche un santuario dedicato al culto arcaico delle due divinità infernali Dite e Proserpina. Più verso l’interno, nella zona dove oggi corre dritta via Giulia, si trovava il Trigarium, una pista per le corse delle trighe, cioè i carri trinati da una terna di cavalli.
Qui Augusto vede collocata la sua Ara, accanto all’Horologium o Solarium (la più grande meridiana mai costruita) e alla sua tomba monumentale; qui doveva sorgere l’Ustrinum Augusti, il luogo dove sarebbero bruciate le sue spoglie mortali.

DESCRIZIONE DELL’ARA PACIS

Il monumento è in sostanza un recinto quadrato che si chiude intorno ad un’ara sacrificale. Ricalca la struttura dei templa minora, ovvero i sacelli arcaici posticci allestiti dagli auguri per i riti sacrificali di loro competenza. Questi erano in pratica aree consacrate e recintate, e più precisamente aree perimetrate da uno steccato rustico. Il sacello era ottenuto piantando una serie di pali su una piattaforma di legno quadrata. Il vuoto fra un palo e l’altro veniva colmato da paramenti fatti di tavole disposte verticalmente, strette le une alle altre a mo’ di doghe, il tutto coronato da una trabeazione continua che correva sulla sommità della palizzata. A decorazione della trabeazione erano posti festoni fatti con foglie di quercia intrecciate, alternati a bucrani, i teschi dei tori sacrificati. Il motivo per cui si è scelto di citare la forma di un altare arcaico è senz’altro da mettere in relazione con la politica di Augusto in fatto di religione, indirizzata a restaurare gli antichi riti.
Il recinto esterno dell’Ara Pacis sorge su un alto podio, alla cui sommità si approda tramite una rampa scalinata. L’altare vero e proprio si trova all’interno, su un secondo podio tetragradonato a forma di tronco di piramide, raggiungibile attraverso una scalea frontale. È collocato a poco più di 3 mt. di altezza ed è costituito da una mensa stretta fra due avancorpi laterali, coronati da doppie volute sorrette da acroteri dalle sembianze di leoni alati. Tra l’altare e il recinto corre un peristilio, corridoio di passaggio per gli assistenti durante lo svolgimento della funzione; chiude l’intero blocco una trabeazione bipartita e incorniciata da una modanatura rettilinea. L’ingresso con la rampa gradonata è rivolto ad ovest, così come pure il lato principale dell’altare. Le pareti esterne del recinto sono divise ai quattro spigoli da paraste corinzie. Queste si ripetono in prossimità delle “spalle” delle due aperture d’accesso all’altare. Gli spazi definiti dalle paraste sono a loro volta suddivisi in due fasce, ognuna delle quali formata da più lastre, di cui quelle poste nella parte inferiore decorate con girali di acanto su tutti e quattro i lati del recinto, mentre quelle poste nella parte superiore modellate con figure allegoriche, nei lati est e ovest, e con il Conventus sui lati nord e sud. Tra il registro superiore e quello inferiore corre una fascia decorata con un motivo a meandro (o a svastica) all’esterno e a palmette all’interno. All’interno si ripetono le stesse partiture dell’esterno, verticali e orizzontali, cambia solo la decorazione. Infatti le facce interne del recinto sono decorate nella parte bassa da incavi rettangolari evocanti le palizzate di legno che costituivano la recinzione degli antichi sacelli, mentre nella parte alta si alternano festoni e bucrani, in ricordo dei coronamenti che ne guarnivano la sommità.

IMPORTANZA STORICO ARTISTICA DELL’ARA PACIS AUGUSTÆ

I pannelli decorativi dell’Ara Pacis Augustæ rappresentano i primi bassorilievi della storia scolpiti in stile greco-romano. In essi convergono in una nuova sintesi stilistica i canoni dell’idealismo classico e quelli del realismo romano. Inequivocabile il modello ispiratore del Conventus: il fregio fidiaco del Partenone.
Sono le ragioni di stato a suggerire la scelta espressiva del fregio augusteo; i convenuti sono rappresentati tutti secondo i canoni della tradizione classica. Le dimensioni di ogni singolo partecipante sono commisurate alla proporzionalità aurea di tipo policletea; la loro postura risulta perfettamente ponderata; si avverte, anche se non è esplicitata, la corrispondenza chiastica delle parti; le figure non incedono, sostano, e il movimento si riduce a cadenza.
Stante la somiglianza con la processione panatenaica la novità romana consiste nel fatto che individui mortali prendono il posto di eroi e divinità, assurgono ad esseri immortali in un monumento pubblico. Contrariamente a quanto avviene al cospetto del fregio partenonico nel Conventus ciò che ci si para dinnanzi non è un’umanità ideale, ma una molteplicità di persone, identificate singolarmente, che si ritrovano tutte insieme per partecipare ad una inaugurazione. I volti dei convenuti non rappresentano le varie età dell’uomo, ma individui in carne ed ossa con il carico di tutti i loro anni: all’epoca Augusto aveva 50 anni e li dimostra. Naturalmente non una ruga, non una cicatrice vengono a turbare la simmetria e la dislocazione armonica delle varie parti costitutive del viso di Augusto, ciononostante la somiglianza è sconcertante. Non è la pluralità accidentale delle cose che si trasforma nella singolarità universale del principio eterno, ma è l’irregolarità del molteplice che si esprime al fine nella regolarità di un linguaggio dell’assoluto che ha il potere di conferire alla rappresentanza reale di una organizzazione storica, lo stato romano, il significato di struttura naturale ed eterna. La scultura è il mezzo, lo strumento che rende praticabile il passaggio dal contingente all’eterno, dal relativo all’assoluto.
Benché questa sia la novità di gran lunga più rilevante, non si tratta della sola. Non potendole elencare tutte, ché sarebbe lungo, mi limito a indicare le più appariscenti. Prima fra tutte è che le figure sono tessute su un telaio di tipo prospettico, non sono disposte per piani paralleli, come avviene invece nel Partenone. Quindi lo spazio in cui si collocano gli intervenuti è reso mediante la dissolvenza delle figure sul fondo liscio del fregio, per cui i personaggi in primo piano risultano più rilevati di quelli in secondo e in terzo, come avviene nei bassorilievi ellenistici più che in quelli classici (vedi Storie di Telefo). Ma a parte ciò l’Ara Pacis è importante perché rappresenta il passaggio dell’arte della capitale da lingua semplice, diretta, espressiva dell’austerità della gens repubblicana a lingua complessa, intellettualistica, espressiva del decoro attraverso cui la nuova gens al potere offre l’immagine di sé al popolo. Questo particolare ci fa capire come sotto Augusto la ricerca del bello ideale diventi ricerca del bello decoroso.

Roma
DOMUS AUREA (64/68)

«Mors tua, vita mea» recita un vecchio detto romano. A conferma della giustezza di questa massima l’incendio del 64 d.C. con cui Nerone (37-68 d.C.) spera di salvare il suo potere è all’origine della più grande domus che sia mai stata costruita, la quale in virtù della sua ricchezza di ambienti e profusione di ornamenti, viene soprannominata “aurea”.
La Domus Aurea avrebbe dovuto rappresentare una dimora monumento, e infatti lo è, ma non più alle glorie di Roma, bensì alla natura divina dell’imperatore. A dire il vero il termine domus attribuito a questo complesso edilizio non è del tutto appropriato, infatti si tratta più che altro di una grandiosa villa extraurbana, con oltre 150 stanze, tanto di boschi, pascoli e addirittura un lago, posta subito a ridosso del Foro Romano e della Suburra. L’intera area si estendeva dal Palatino all’Oppio passando per il Celio, per un totale di 80 ettari circa. Se si vuole avere un’idea della sua grandezza si pensi che Svetonio, l’autore delle vite dei primi dodici imperatori, ci racconta che il solo atrio era costituito da un triplice portico lungo un chilometro e mezzo; in esso si ergeva la statua colossale di Nerone. Per decorare gli interni oltre ai marmi preziosi si sono utilizzati oro e avorio. Spesso nei motivi ornamentali si inserivano fra gli stucchi pietre preziose di ogni tipo, inoltre per stupire gli ospiti si ricorreva ad effetti speciali, come soffitti e pareti mobili. Cotanta ostentata ricchezza però ha avuto vita breve e già nell’80 si inizia a farne scempio. Nel 104 Traiano (98-117) fa costruire al suo posto, da Apollodoro di Damasco (50-130), delle gigantesche terme. In seguito a ciò molti edifici della Domus vennero interrati, e proprio grazie a questo oggi sono ancora visibili.
La Domus Aurea venne realizzata dagli architetti Severo e Celere. Si articolava in tre locali principali: l’ala occidentale, l’ala orientale e il corpo centrale. Fulcro dell’intero sistema è la Sala ottagona. Questa è uno stanzone ottagonale circondato da cinque stanze più piccole: due a pianta cruciforme, per via delle sporgenze disposte a raggiera e collegate con dei pilastri laterali; tre a pianta rettangolare, collegate con lo spazio centrale attraverso enormi aperture. La sala principale è coperta da una cupola emisferica che si inserisce direttamente sull’ottagono di base, senza ricorrere alla mediazione di pennacchi; al centro si apre un foro che illumina le parti interne dell’intero complesso. Le stanze laterali sono coperte invece a botte, quelle a pianta semplice, e a crociera, quelle a pianta cruciforme. La cupola del vano centrale è realizzata a getto di calcestruzzo ed è considerata uno dei primi esempi di questa tecnica di copertura.
Nella Sala ottagona si accede attraverso un criptoportico, vale a dire un corridoio seminterrato, illuminato da particolari finestre dette a bocca di lupo. Queste poste sulla volta a botte convogliano la luce verso altre finestre, interne al corridoio, le quali a loro volta rimandano la luce nelle sale interne, prive di aperture.
La Domus Aurea va ricordata anche per i numerosi affreschi che ricoprivano le pareti interne delle sale. La stragrande maggioranza si sono dissolti a contatto con l’aria dopo secoli di interramento che li ha costretti all’aderenza con l’umida terra; l’intero ciclo pittorico è opera di fabullus, artista dallo stile ricco e sfarzoso. Uno dei pochi che sono riusciti a giungere fino a noi è quello dipinto in un lato della volta della sala di Achille e Sciro. L’affresco tratta di un episodio dell’Iliade e rappresenta Achille attorniato dalle figlie di Licomede mentre brandisce lancia e scudo. Per quanto riguarda il resto ce ne possiamo fare un’idea guardando ai rilievi condotti dagli artisti rinascimentali, come quello di Francisco de Hollanda, dove si riporta la volta dorata di una sala.
Nonostante rispecchiasse la mentalità di un megalomane visionario divenuto folle a causa dello strapotere la domus neroniana rappresenta il primo passo compiuto dall’arte greco-romana in direzione di modelli orientali, modelli caratterizzati dall’ostentata ricchezza di marmi preziosi, sovrabbondanza di statue, copiosità di ambienti e giardini. Si supera qui la concezione della domus come blocco chiuso e si passa a quella di organismo aperto, soluzione che diventerà regola nel futuro di questa tipologia.

IL COLOSSEO: L’OLIMPICO DEGLI ANTICHI ROMANI

Roma
COLOSSEO (80 d.C.)
Mattoni e travertino, altezza mt. 50 – asse maggiore mt. 188 – asse minore mt. 156

Il modello dell’arte pubblica dell’epoca imperiale non si identifica solo con la scelta classicista augustea; l’arte greca non è solo quella classica, ci sono anche le varie correnti ellenistiche, come la pergamena, la rodiota e l’alessandrina. A partire dall’imperatore Tito (79-81 d.C.), nei monumenti si va vieppiù affermando un nuovo orientamento figurativo, contraddistinto da un diffuso sentimento drammatico e da un più accentuato realismo, privo dei raffinati estetismi classicisti.
Il monumento con cui si inaugura il nuovo indirizzo è il Colosseo. Il Colosseo è il simbolo stesso di Roma, un simbolo pesante 100.000 tonnellate. Non si sa perché sia diventato l’emblema di Roma. Certamente per le memorie che trattiene nei suoi marmi; certamente perché ritratto in ogni immagine della Città Eterna; sicuramente perché ha una mole imponente, essenziale nella sua struttura, di facile lettura dunque semplice da ricordare. Il suo vero nome è anfiteatro Flavio. Viene eretto da Vespasiano (69-79 d.C.) della Gens Flavia, nel 70 d.C., sul luogo dove Nerone aveva fatto realizzare un lago artificiale per arricchire il parco della sua faraonica domus. Il lago copriva l’intera depressione che si estendeva fra i colli Palatino, Celio ed Esquilino. Viene inaugurato da Tito, secondogenito di Vespasiano, nell’80. Il nome Colosseo col quale è universalmente noto gli viene attribuito durante il Medioevo e fa riferimento alla statua colossale in bronzo dorato, alta più di 35 mt. che Nerone si fece costruire da Zenodoro (uno scultore greco), ridedicata da Vespasiano al dio Sole. Il termine anfiteatro gli proviene dalla struttura costituita da un raddoppiamento del teatro classico romano.
Benché si chiami anfiteatro il Colosseo non ha niente a che vedere col teatro. Sul suo palcoscenico non si recita, si fa sul serio; gli scontri che giornalmente avvengono fra gladiatori non sono finti, ci si ammazza veramente. Per la sua inaugurazione si fanno cento giorni di cerimonie e spettacoli, nel corso dei quali vengono massacrate 5.000 belve. Il termine circo gli si addice di più, anche se funzionalmente il circo presso i Romani era più che altro l’ippodromo. Tuttavia la terminologia tipologica potrebbe essere esatta se si pensa al circolo marittimo, ovvero a quella particolare struttura, creata appositamente per ospitare grandi spettacoli quali battaglie navali, abbastanza comuni presso i capitolini. Queste battaglie venivano condotte con navi fittizie, la cui caratteristica era quella di possedere uno scafo piatto, accorgimento resosi indispensabile per permettere ai natanti di galleggiare sui bassi fondi dell’arena; però gli arrembaggi erano reali, con vere e proprie carneficine. Nel 438 un editto mette fine ai combattimenti all’ultimo sangue fra gladiatori; l’ultima esibizione avviene nel 523 per volere di Teodorico (454-526), ma limitatamente alla caccia alle belve.

DESCRIZIONE DEL COLOSSEO

L’anfiteatro Flavio aveva una capienza di 45.000 posti a sedere, ma poteva contenere 70.000 spettatori se si sommavano quelli che assistevano in piedi dalla balconata. Per il suo rivestimento sono stati impiegati 100.000 mc. di travertino e 300 tonnellate in grappe di ferro per la connessione dei blocchi. A pianta ellittica, al centro si situa l’arena, larga 46×76 mt. di profondità; tutto intorno si svolge la cavea a tre ordini di spalti digradanti. Sotto l’arena, costituita da sabbia disposta sopra un tavolato di legno, Domiziano (81-96 d.C.), forse, fa disporre un complesso sistema di gallerie e cubicoli, questi ultimi aventi funzione di ripostigli per le attrezzature necessarie allo svolgimento degli spettacoli. Quindi il primogenito di Vespasiano fa installare gabbie per le belve e colonne per lo scorrimento dei montacarichi, adoperati per sollevare le fiere al livello dell’arena. Detto sistema forse viene usato anche per portare i gladiatori, ma non è certo. L’idea di sistemare sotto l’arena le belve rispondeva oltre che ad un criterio funzionale anche ad un criterio direttamente connesso con lo spettacolo circense: infatti si voleva provocare un forte impatto emotivo negli spettatori al momento dell’ingresso delle fiere. Si ricorda a tal proposito un episodio in cui comparvero nella cavea all’improvviso cento leoni contemporaneamente, i quali si misero a ruggire tutti insieme ammutolendo all’istante la folla vociante. Per il resto il Colosseo è una fitta rete di enormi corridoi, scale e ingressi disposti in modo da permettere una perfetta affluenza e defluenza del pubblico dalle 80 arcate del pianterreno ai 160 sbocchi interni. Insomma l’emblema di Roma non è nient’altro che un mirabile organismo perfettamente rispondente alle funzioni cui era preposto. Prima di essere ospitati nell’anfiteatro Flavio i gladiatori si affrontavano in una struttura provvisoria in legno, fatta allestire da Nerone dopo l’incendio del 64 d.C., in cui era andato distrutto l’anfiteatro di Tito Statilio Tauro. In epoca repubblicana gli scontri avvenivano nel Foro Romano o in quello Boario, che per l’occasione si dotavano di impalcature mobili.
Venendo all’aspetto storico artistico, innanzitutto il Colosseo è il primo edificio concepito in scala urbanistica, cioè pensato in rapporto a tutti gli altri monumenti della città. La sua immensa mole ellittica fungeva da fulcro di un fitto complesso di pieni e di vuoti, cioè a dire edifici, vie e piazze del centro di Roma. Dal punto di vista concettuale l’anfiteatro Flavio è un poderoso nucleo plastico definito nel suo spessore dalla ininterrotta serie di gallerie archivoltate che gli girano intorno. Dal punto di vista percettivo risulta come una grandissima superficie dispiegata alla luce, ma modulata nella sua intensità dalla curvatura perimetrale, alleggerita dalla sequenza degli scuri profondi procurati dalle grandi arcate esterne. Allo scopo di modulare ulteriormente il contatto della superficie ricurva con la luce tutta la facciata continua è decorata da semicolonne addossate ai piedritti d’imposta delle arcate secondo la sequenza canonica degli ordini classici: dorico al piano terra, ionico al primo piano, corinzio al secondo, per finire con paraste sempre corinzie al terzo ed ultimo, in corrispondenza del palco. La combinazione fra l’elemento strutturale composito formato dalla sequenza pilastro-semicolonna-arcata con la superficie curva determina una diversità nelle ombre portate sulla facciata, una modulazione che va a tutto beneficio dell’effetto percettivo globale di alleggerimento della massa incombente.

Roma, Teatro di Marcello
ESTERNO (11 a.C.)

Il Colosseo ha un precedente diretto: il teatro di Marcello. Il teatro di Marcello è l’unico teatro romano rimasto a Roma. Segue di soli 44 anni il teatro di Pompeo, scomparso. Viene fatto costruire da Cesare, quindi Augusto, nell’11 a.C., lo porta a termine e lo dedica a Marcello, nipote ed erede al trono, morto nel 23 a.C.
Il teatro di Marcello è costituito da una cavea semicircolare che affaccia su una scena fissa a tre ordini. Contrariamente a quanto andavano facendo i Greci, i Romani non adattano gli spalti ai declivi naturali, ma li sollevano dal pianterreno, appoggiandosi ad una struttura di sostegno semianulare costituita dai disimpegni per la distribuzione interna. Nel prospetto, ispirandosi alla basilica Giulia, riprende l’idea della sovrapposizione degli ordini secondo una sequenza che associa il dorico all’ordine più resistente, lo ionico a quello mediamente robusto, il corinzio a quello meno forte (quest’ultimo sparito dopo che gli Orsini lo trasformarono in un palazzo di civile abitazione).
Naturalmente la sequenza degli ordini non ha nulla a che vedere con l’effettiva resistenza di ognuno: ad esempio l’associazione del dorico al carico più gravoso è una pura liceità estetica. Infatti gli ordini sono usati per il loro effetto formale, o sarebbe meglio dire per il loro effetto psicologico che associa il dorico al senso di maggiore robustezza, lo ionico a quello di media vigoria, e il corinzio a quello di minore solidità, così come non hanno alcuna giustificazione statica le grandi colonne addossate ai pilastri d’imposta delle arcate. Anche in questo caso la loro presenza obbedisce esclusivamente ad una esigenza puramente estetica, per cui le forze contrapposte di peso e spinta trovano la loro espressione plastica nella contrapposizione fra il vuoto dell’arco e il pieno della semicolonna. L’effetto globale che ne risulta è quello di una poderosa struttura derivante dall’unione del sistema architravato con quello archivoltato.

Roma, Arco di Tito
IL TRIONFO DELL’IMPERATORE E IL TRASPORTO DEL BOTTINO DA GRERUSALEMME, (81 d.C.)
Marmo, altezza mt. 2

L’arte romana dell’epoca imperiale, sebbene non sia farina del sacco dei Romani e sebbene non abbia un linguaggio espressivo autoctono, non si limita comunque a impiegare il repertorio formale della cultura figurativa classica come si utilizzano le parole di una lingua, che rimangono strutturalmente inalterate qualunque sia il contenuto da comunicare. In realtà il linguaggio classico subisce una trasformazione nel senso che va ad aggiungere ad un orientamento retorico, storicistico e naturalistico, distintivo della cultura greca d’origine, forti accenti espressivi, declamatori di glorie divinizzate o drammi vissuti. Nasce così nell’ambiente socioculturale romano accanto alla tendenza che idealizza l’individuo una nuova tendenza che drammatizza la storia.
In scultura, questo nuovo orientamento, che fonda le proprie radici nello stesso humus culturale filo-ellenico classico, si esprime ai massimi livelli nei due bassorilievi che ornano la parte interna dell’unico fornice dell’arco di Tito, innalzato fra il 79 e l’81 d.C., durante la sua reggenza.
Ancora ellenistiche nell’interpretazione pittorica del rilievo, le figure hanno un’espressione più severa, si muovono in un ambito che rimanda ad un luogo reale e sono percorse da un fremito che esprime un nuovo senso del movimento. Il rilievo non si propone più come sequenza leggendaria pervasa dalla presenza del fato, ma come racconto storico pregno di umana drammaticità. La retorica ellenistica che cercava di impressionare l’osservatore con la verosimiglianza, in questi rilievi cerca di coinvolgerlo con un’eloquenza celebrativa ricca di pathos. Qui l’indirizzo realistico è ancora temperato dall’idealismo di ascendenza classica, ma sarà proprio questo realismo drammatico, anticlassico a costituire d’ora in poi il tratto distintivo più importante per l’identificazione dell’arte propriamente romana. Realismo e dramma, dunque, ecco riemergere a Roma gli ingredienti fondamentali dell’altro volto del linguaggio occidentale.