L’ARTE DEI SECOLI BUI: LE INVASIONI BARBARICHE
LE CAUSE DELLA CRISI DELL’ARTE IN ITALIA DURANTE LE INVASIONI BARBARICHE
I LONGOBARDI

BAGLIORI D’ORIENTE NELLA LUNGA NOTTE BARBARICA
DIFFICOLTÀ NELLA PERIODIZZAZZIONE STORICA DELL’ARTE MEDIEVALE
ROMA BIZANTINA NELL’ALTO MEDIOEVO: LA CORRENTE AULICA
DESCRIZIONE DELLA CHIESA DI SANT’AGNESE
LE CORRENTI BIZANTINE PROVINCIALI: CORRENTI ANTIAULICHE
FORMAZIONE DELLE CORRENTI PROVINCIALI
CORRENTE GRECO-SIRIACA
SANTA MARIA ANTIQUA: LA STORIA DELL’ARTE BIZANTINA IN UNA CHIESA

CORRENTE GRECO-ELLENISTICA
CULTURA RAVENNATE NELL’ARCHITETTURA PADANA
ARTE BARBARICA
CIVIDALE E MONZA, SCRIGNI DELL’OREFICERIA BARBARICA
RADICI LONGOBARDE NEL LINGUAGGIO MEDIEVALE
I LONGOBARDI E L’ARCHITETTURA
IL TEMPIETTO DELLA DISCORDIA


L’ARTE DEI SECOLI BUI: LE INVASIONI BARBARICHE

A bordo della Nuova Argo lasciamo l’evo antico per iniziare la navigazione nell’evo medio: il Medio Evo. Come il linguaggio occidentale antico anche quello moderno, ovvero il nostro linguaggio, sorge dal buio più profondo, durante un lungo periodo di crisi in cui l’arte è come morta. Questo lungo periodo è il Medioevo. Causa della crisi stavolta però non è, come nel Medioevo antico, l’invasione di un solo popolo barbaro, i Dori, bensì le ripetute incursioni nei territori dell’impero romano d’Occidente di tante, diverse popolazioni nomadi, provenienti dall’entroterra euroasiatico. Queste incursioni si ripetono periodicamente, ad ondate cicliche, per cinque secoli. Le invasioni barbariche (così vengono definite nei libri di storia) hanno inizio ancor prima della caduta di Roma. Il loro effetto è devastante; trasformano l’Europa in terra di scorrerie e saccheggi. L’Italia, il Belpaese diventa un paese brutto e insicuro. L’arte qui, una volta di casa, sparisce dalle contrade; e senza più l’arte l’Italia scivola nei secoli più cupi della sua storia. Nel resto d’Europa le cose non vanno meglio; anche fuori dei nostri confini regna il caos e l’incertezza. Occorrerà attendere l’anno mille, l’anno della fine del mondo, perché l’arte rinasca, e con essa il primo linguaggio occidentale moderno: il volgare figurativo.

LE CAUSE DELLA CRISI DELL’ARTE IN ITALIA DURANTE LE INVASIONI BARBARICHE

La crisi dell’arte durante le invasioni barbariche va principalmente imputata al loro modo di intendere l’economia: assaltare, razziare finché si può e ritirarsi una volta esaurite le risorse. Questo sistema basato esclusivamente sulla predazione e sullo sfruttamento selvaggio provoca il crollo delle attività produttive cittadine con il conseguente abbandono delle maestranze artigiane dei centri abitati. Come lavoro all’apice dell’artigianato, nonché come fenomeno preminentemente urbano, l’arte si fa merce sempre più rara in Europa così come in gran parte della penisola. Ma non tutti i barbari sono uguali, alcune etnie non abbandonano la terra dopo averla saccheggiata, ma rimangono sul posto instaurando una sorta di convivenza con le popolazioni preesistenti fino al punto di fondare dei regni a conduzione mista: i regni romano-barbarici. Tuttavia anche in questo caso il clima di depressione culturale instauratosi nell’ormai ex impero romano d’Occidente non cambia. Per quanto concerne l’arte, il motivo della scarsa richiesta di opere risiede soprattutto nel fatto che nell’universo culturale barbarico, fondato sul nomadismo, non c’è posto per un’arte produttrice di monumenti come quella occidentale. Quanto detto esclude l’artigianato barbarico dalle cause della decadenza dell’arte durante l’Alto Medioevo. L’artigianato barbarico, infatti, produttore soprattutto di bigiotteria, non può, evidentemente, influenzare più di tanto, con i suoi motivi astratti, una cultura formale fatta di immagini realistiche come quella imperante nei territori sottomessi al dominio di Roma. Tuttavia neanche bisogna sottovalutare la responsabilità dei barbari nel determinare un clima di depressione culturale che incide negativamente su buona parte della produzione europea ed italiana e che porta gli uomini di questo periodo a pensare a tutt’altro fuorché all’arte.

I LONGOBARDI

Fra tutti i popoli nomadi che invadono l’impero romano d’Occidente, lo mettono a ferro e fuoco, ma poi rimangono sul posto, i Longobardi sono quelli che si dimostrano più “barbari”. Il loro luogo d’origine è la Scandinavia. Come tutti i barbari, non si muovono al seguito di un vero e proprio esercito, ma avanzavano in orde, un insieme di bande di guerrieri selvaggi dediti al saccheggio e alla distruzione. Come terra per fondare il loro regno scelgono l’Italia. Guidati dal re Alboino (560-572), penetrano nella penisola attraverso le Alpi Giulie, quindi occupano Aquileia, Verona, Milano. Eleggono a ruolo di capitale Pavia, che riescono a sottomettere dopo tre anni di estenuanti lotte.
Con la resa del re Desiderio (757-774), avvenuta per opera dei Franchi di Carlo Magno (768-814), ha termine la loro supremazia, durata 206 anni, dal 568 al 774. E così l’Italia passa dalla dominazione longobarda a quella carolingia.

BAGLIORI D’ORIENTE NELLA LUNGA NOTTE BARBARICA

Roma, Sant’Agnese
INTERNO (625/638)

I secoli bui del Medioevo non sono bui dappertutto, ci sono delle “oasi” dove l’arte e la civiltà continuano a prosperare. Sono quelle zone sottoposte alla potestà della Chiesa. L’isola felice per eccellenza è Roma che non cessa mai di essere un nucleo di convogliamento ed erogazione della cultura artistica più aggiornata, neanche in un periodo di depressione generale come quello alto medievale. Domina nella Città Eterna l’arte bizantina. Ma l’arte bizantina, come avremo modo di vedere fra un po’, non è costituita solo dall’arte di Bisanzio. Sotto il termine di arte bizantina sono raccolte anche quelle correnti che si sviluppano nei centri periferici della capitale dell’impero d’Oriente. Anzi saranno proprio queste correnti, più che quella aulica, a risultare di grande importanza per la storia dell’arte in Occidente, poiché saranno loro a costituire uno dei principali ingredienti della commistione culturale da cui prenderà vita il volgare figurativo.

DIFFICOLTÀ NELLA PERIODIZZAZZIONE STORICA DELL’ARTE MEDIEVALE

Prima di passare a vedere come si configura l’arte bizantina in Italia nel periodo delle invasioni barbariche attraverso l’analisi stilistica di alcune opere di questa oscura epoca, cerchiamo di far ordine nella controversa questione della suddivisione storico artistica dell’arte medievale.
L’intero arco dell’arte medievale occupa poco più di otto secoli, dalla fine del VI secolo alla fine del XIV. Dunque, cronologicamente parlando, la storia dell’arte medievale non coincide con la storia del Medioevo. Infatti in ordine di tempo l’arte medievale dovrebbe iniziare con Teodorico, ma in quest’epoca il buio ancora non c’è; anzi prima con lui e poi con Giustiniano l’Italia è degna dell’antico fulgore imperiale. Il buio arriva circa un secolo dopo, con i Longobardi.
Il lasso di tempo che intercorre dalla caduta dell’impero romano d’Occidente all’invasione dell’Italia da parte dei Longobardi dal punto di vista artistico appartiene più alla fase tardo antica dell’arte romana che non all’arte del primo Medioevo. Questo significa che la data d’inizio della storia dell’arte medievale deve essere spostata dal periodo teodoriciano-giustinianeo, che riguarda la fine del V secolo e buona parte del VI, ovvero tutta la stagione bizantina ravennate, al periodo successivo, che comprende il VII e l’VIII secolo.
I secoli VII e VIII artisticamente riguardano l’intervallo di tempo che vede circolare sul nostro territorio correnti di provenienza bizantina provinciale e barbarica; storicamente appartengono al periodo delle dominazioni barbariche. I secoli IX e X cronologicamente rientrano nell’Alto Medioevo; storicamente sono ancora secoli di dominazione barbarica, dal momento che vedono la supremazia dei Carolingi di Carlo Magno e dei Sassoni degli Ottoni, notoriamente popoli barbari. Ma la storia dell’arte li inserisce nella prima delle tre fasi con cui essa suole suddividere il periodo medievale, cioè la fase preromanica. Il Preromanico, lo dice la parola stessa, precede il Romanico; il Romanico insieme al Gotico formano i due grandi cicli storico artistici che contraddistinguono il Basso Medioevo. Il primo interessa in particolare i secoli XI e XII, il secondo i secoli XIII e XIV. Dal punto di vista socio-politico al Preromanico, Romanico e Gotico corrisponde tutto il periodo che va dalla fondazione del Feudalesimo alla nascita della moderna borghesia imprenditoriale e mercantile, fino al momento della trasformazione delle signorie in principati. Più precisamente il Preromanico è l’arte del periodo feudale; il Romanico è l’arte del periodo comunale; il Gotico è l’arte del periodo delle monarchie nazionali. Il volgare figurativo nasce nel periodo romanico, ma i primi sintomi si hanno già nell’architettura dell’VIII secolo, mentre il Gotico ne rappresenta l’ormai raggiunta maturità.

ROMA BIZANTINA NELL’ALTO MEDIOEVO: LA CORRENTE AULICA

Roma Sant’Agnese
SANT’AGNESE TRA I PAPI ONORIO E SIMMACO (VII sec.)
Calotta absidale
Mosaico

Stabilito il quadro cronologico passiamo all’analisi delle opere; approdiamo quindi con la Nuova Argo a Roma, sulla via Nomentana. Iniziamo da un edificio religioso che riveste una particolare importanza sia per la conoscenza dell’architettura che della pittura di questo periodo buio: Sant’Agnese.
Quel che resta di originale nella chiesa di Sant’Agnese costituisce una delle prove più eloquenti che dimostrano l’immunità della Città Eterna dalla depressione artistica causata dalla presenza dei barbari. Siamo negli anni della spartizione dell’Italia fra vecchi dominatori, i Bizantini, e nuovi, i Longobardi; dentro e fuori le mura dell’Urbe domina l’arte bizantina. Ma l’arte bizantina di questo periodo non è rappresentata più soltanto da quella di corte, proveniente dalla capitale Bisanzio; ci sono ora anche correnti provenienti dai grandi nuclei periferici dell’impero orientale, come Gaza, Antiochia, Cesarea, nonché da regioni come la Grecia e la Siria. Ciò dipende dalla formazione culturale dei pontefici, originari spesso delle città di provincia. Nei poco più di cento anni che vanno dal 640 al 752, su venti papi che si sono succeduti sulla cattedra di Pietro quattro sono greci e cinque siriani. A portare fisicamente l’arte delle province dentro i confini dell’Urbe sono le maestranze levantine stesse, presenti nel territorio italiano ed europeo o perché di passaggio o perché al seguito del papa o di qualche altra grossa personalità.
Il loro transito all’interno dei confini nazionali non passa mai inosservato: nei primi secoli del Medioevo, tutto quello che si trova di alta qualità è sempre riconducibile a loro. L’Italia alto medievale, ma anche romanica, sarà tutto un andirivieni di artisti di formazione levantina, i quali, con le loro opere determinano il momentaneo prevalere della cultura orientale su quella occidentale. L’orientalizzazione durerà fino a quando con la rinascita delle città non si formerà un artigianato pionieristico, espressione diretta delle nuove maestranze dei borghi. Dunque l’arte bizantina in Italia non svanisce con l’esaurirsi dell’esperienza ravennate, prosegue; anzi per un bel po’ sarà l’unica arte ad essere riconosciuta come tale a circolare all’interno dei confini della penisola. Tuttavia in suolo italico risentirà dell’influenza della cultura romana tardo-antica dando origine a degli ibridi in cui ad elementi tipici della cultura figurativa orientale si andranno sommando elementi tipici della cultura figurativa occidentale.

DESCRIZIONE DELLA CHIESA DI SANT’AGNESE

La chiesa di Sant’Agnese s’inserisce dal punto di vista stilistico, sia architettonico che pittorico, nell’ambito della corrente bizantina aulica. L’edificio è stato eretto nel IV secolo da Costanza (307-354), figlia di Costantino (306-337), sulla tomba di sant’Agnese, quindi è stata ricostruita durante il pontificato di Onorio I (protrattosi dal 625 al 638), a ricordo del martirio della santa. La chiesa sorge nella zona dove sembra abbiano trovato sepoltura Elena (250-330 c.) circa, madre di Costantino, e la stessa Costanza.
Agnese era un’adolescente di soli 12 o 13 anni, caduta vittima delle persecuzioni comandate da Diocleziano (284-305). Venne arsa (ma la cosa non è certa) il 21 gennaio, forse del 304.
L’architettura si ispira ai modelli ravennati: aspetto dimesso all’esterno; aspetto rifulgente all’interno.
La pianta è semplice, a tre navate, impostata sul rapporto di 3:1, invece che 2:1; l’aumento della larghezza è compensato dall’aumento dell’altezza, dovuto alla presenza del matroneo, cosicché l’intero edificio risulta ben proporzionato. Contrariamente dall’esterno, squadrato e compatto, in cui il pieno si impone sul vuoto, l’interno risulta arioso e leggero a causa del prevalere dei vuoti sui pieni. In questa chiesa dunque la trascendenza della materia nello spazio non è ottenuta solo con la simulazione musiva, ma anche, concretamente, con il raddoppio delle arcature, distribuite su due ordini sovrapposti.
Nel mosaico absidale, unica opera della chiesa originale del VII secolo conservatasi fino ai nostri giorni, vi è raffigurata sant’Agnese fra i papi Onorio e Simmaco (498-514). Sotto il profilo iconografico si nota subito che le figure sono ridotte al minimo indispensabile: sono solo tre; sono spariti i santi intercessori e le palme. La beata è ritta e ieratica tra le fiamme del supplizio; Onorio reca il modellino della chiesa ed è in atto di offerta; Simmaco tiene stretto fra le mani il codice costantiniano. In alto, sopra il firmamento, simboleggiato da due semicerchi concentrici dal colore blu intenso e costellati di punti luminosi, la mano del Signore si tende a porgere ad Agnese la corona del sacrificio.
Il richiamo stilistico dell’opera musiva ai precedenti bizantini ravennati è esplicito. Sono presenti tutti gli elementi linguistici che caratterizzano l’arte di Bisanzio: l’assenza di movimento drammatico, la mancanza di espressione, l’annullamento della profondità, la ricerca di un’intensa vibrazione cromatica. La santa è vestita con abiti regali, a significare l’identità d’elezione del titolo politico con quello religioso. I suoi tratti somatici e il volto non hanno niente a che vedere con la fisionomia reale di Agnese, visualizzano un’idea astratta, la santità, non una persona particolare, Agnese; le figure di Onorio e Simmaco invece ritraggono, anche se idealizzati, i due papi in persona; per il resto è tutto come da copione. Le figure si rapportano al fondo oro per una diversa qualità cromatica della luce: i due papi sono ammantati di verde, mentre Sant’Agnese veste di porpora; il contrasto delle tinte rende ben evidenti le figure. Il piano d’appoggio è ridotto a due fasce parallele, una gialla l’altra verde, che seguono l’andamento semicircolare della calotta absidale. Il movimento è ripreso in alto, sopra l’oro, dallo scalare tonale del blu del firmamento. Centro effusivo del movimento circolare è il nimbo che cinge la testa di Agnese in segno di santità.
Dal punto di vista espressivo il mosaico absidale di Sant’Agnese si qualifica come un brano liturgico pronunciato in un perfetto linguaggio aulico. Questo porta gli studiosi ad attribuire l’opera a maestri bizantini provenienti direttamente da Costantinopoli. Tuttavia, la cosa che più sorprende di questa splendida prova d’autore è che essa rimane un’opera isolata, un brano senza seguito diretto.

LE CORRENTI BIZANTINE PROVINCIALI: CORRENTI ANTIAULICHE

Roma, Foro Romano, Santa Maria Antiqua
ESTERNO (metà V sec.)
Larghezza mt. 20 – profondità mt. 30

Nella Roma dei papi orientali la corrente bizantina aulica costantinopolitana non è la corrente dominante; la curia preferisce le correnti provinciali antiauliche, più semplici e schiette. Tre sono le ragioni di tale scelta, nessuna di ordine poetico. Riguardo le prime due, una è di natura dottrinale e l’altra di natura ideologica; la terza è legata alla formazione culturale e spirituale dei pontefici del periodo. Più in particolare la prima si riferisce alla faccenda della funzione strumentale dell’arte, questione sulla quale la Chiesa ha un’idea ben precisa: l’arte serve ad educare i fedeli nonché a tonificargli l’anima con immagini che raccontano della vita esemplare di santi e dottori della chiesa, onde per cui si preferiscono quelle correnti nelle quali l’elemento narrativo prevale su quello contemplativo: e nelle correnti provinciali succede proprio questo. Riguardo alla seconda la Chiesa di Roma rifiuta il fasto e la mondanità della corte di Bisanzio, non tanto perché non si confanno ai suoi costumi o alla finalità della sua missione, spirituale e non materiale, quanto perché la sfarzosità e la raffinatezza aulica è associata dalla curia romana al potere assolutistico dell’imperatore di Bisanzio. La cosa non avrebbe alcun rilievo se non fosse per il fatto che in questo particolare momento la Chiesa non si trova affatto in buoni rapporti con l’imperatore d’Oriente, nonostante riceva da lui degli innegabili benefici sotto forma di protezione armata contro i barbari. Motivo? L’ingerenza di Sua Magnificenza nelle questioni dottrinali: cosa che alla Chiesa non va proprio giù. Il papa mal sopporta i ripetuti tentativi dell’imperatore levantino di farsi traduttore della volontà di Dio; c’è una totale incompatibilità fra la sua interpretazione e quella dell’imperatore riguardo alle relazioni fra potere civile e potere religioso. E non è da dire che le divergenze siano di poco conto: ma il papa è sempre meglio averlo come alleato che come nemico. Eppure tanta è la riluttanza del santo padre a cedere i suoi poteri che Roma viene considerata dalla corte imperiale addirittura la provincia più turbolenta di tutto il territorio ad essa soggetto. Sulla terza ragione in parte ho già detto. Per quanto riguarda invece la formazione spirituale va ricordato il fatto che il maggior numero di papi che arriva al soglio pontificio in questo periodo ha un’austera vita monastica alle spalle.
Detto ciò dirigiamoci nel cuore di Roma per sapere cosa sono esattamente queste correnti antiauliche, come e dove si formano, quali sono le loro caratteristiche precipue.

FORMAZIONE DELLE CORRENTI PROVINCIALI

Come accennato all’inizio di questa nostra visita all’arte dei secoli bui, dopo la divisione dell’impero romano in due blocchi il destino di chi si trova nella parte ovest cambia radicalmente rispetto al destino di chi si trova nella parte est. I grandi centri dei territori orientali sfuggono alla triste sorte che tocca ai centri occidentali, di conseguenza, al contrario di questi, non conoscono la decadenza, ma continuano a svilupparsi e ad essere produttivi anche in campo artistico. Anticlassiche all’epoca di Roma capitale del mondo le periferie diventano antiauliche all’epoca di Bisanzio capitale d’Oriente, cosicché il provincialismo romano diventa provincialismo bizantino. I principali nuclei di elaborazione e irradiazione della cultura provinciale si trovano in Grecia, Siria, Giordania, Turchia, Mesopotamia, Egitto, Nubia.
Diversi sono i fattori che concorrono a determinare il carattere antiaulico di queste correnti. In alcuni casi si tratta di ragioni legate all’identità nazionale; in alcuni altri dominano motivi legati al permanere delle tradizioni filo-ellenistiche; in altri ancora si tratta di dipendenza dovuta all’influenza esercitata dai monasteri, che in tale periodo sorgono numerosi un po’ ovunque nella periferia di Bisanzio. Più in particolare, riguardo a questi ultimi occorre aggiungere che da iniziali luoghi di espiazione diventano luoghi di promozione e rinnovo della fede cristiana, contribuendo in modo decisivo alla definizione della temperie culturale di provincia.
Caratteristica fondamentale e comune a tutte le correnti provinciali è quella di innestarsi sul linguaggio aulico per trasformarlo, a livello strutturale ed espressivo, in qualcosa di profondamente diverso, in un “mutante”. Dette correnti fondano le loro radici in un humus culturale contraddistinto da una forte impronta popolare: il loro “bacino d’utenza” è costituito dalla massa dei sudditi, non dai nobili della corte imperiale. Il linguaggio è sempre bizantino, ma interpretato da artisti di periferia, dove si vive con rinnovata intensità la fede cristiana. Le parole che formano questi linguaggi sono sempre stilemi schematici, ma espliciti, che fanno appello alla sensibilità comune e alla comune esperienza; colgono i segni della presenza divina nelle forme traducibili da tutti, colti e incolti, non in quelle derivanti dalla speculazione intellettualistica, comprensibili solo a pochi eruditi, educati alle raffinatezze della sensibilità di palazzo.

CORRENTE GRECO-SIRIACA

Fra i tanti dialetti riscontrabili nella capitale prevale quello della corrente provinciale greco-siriaca; una corrente non nuova a dire il vero. Infatti, in versione paleocristiana, ha già avuto modo di esprimersi in occasione della decorazione musiva dell’abside dei SS. Cosma e Damiano e nei rilievi delle formelle del portale di Santa Sabina.
La corrente greco-siriaca si distingue dalla corrente aulica costantinopolitana per avere un carattere più intensamente espressivo, una netta propensione a tradurre i segni della trascendenza mistica in fissità concettuale piuttosto che in vibrazione cromatica, nonché per avere più interesse a rimarcare, all’interno della stessa immagine bizantina, i costrutti che comunicano i momenti di partecipazione umana piuttosto che quelli che comunicano l’atarassia divina. Talvolta, nel caso della rappresentazione di vicende storiche, la narrazione degli eventi evangelici è talmente concitata e partecipata che si arriva a deformare le immagini auliche in senso espressionistico per esaltarne il motivo drammatico, raccontare il dolore senza descriverlo. Sul piano stilistico quanto detto si traduce nella tendenza ad ispessire le linee di contorno, accentuare il carattere spezzato del loro andamento, stendere uniformemente le tinte in modo da escludere qualsiasi movimento interno al colore, quindi a scuotere gli elementi strutturali dalla loro fissità mistica.
Questa tendenza espressionistica della cultura periferica greco-siriaca si esplicita sul piano tecnico col rifuggire dall’uso delle materie preziose; in sintonia con le altre culture provinciali utilizza l’affresco al posto del mosaico, la pietra dura al posto dell’avorio, il mattone al posto dei marmi rari. Cosicché, nell’ambito della figuratività bizantina, accanto alla struttura cromatica aulica, fondata sulla fusione delle tinte, fa la sua comparsa la struttura cromatica antiaulica, fondata sulla loro contrapposizione. Questo fenomeno porta, specialmente nel campo della pittura, ad un cambiamento della natura tecnica degli elementi strutturali. I pieni non sono più ottenuti con la tessitura di piccole pietruzze dalle tinte preziose, ma con larghe stesure di colore lievemente modulato nel tono, mentre le linee non sono più termini di sensibilizzazione delle figure col fondo, ma mezzi di contenimento e concentrazione delle masse tonali per dare maggior stacco ai pieni sui vuoti.

SANTA MARIA ANTIQUA: LA STORIA DELL’ARTE BIZANTINA IN UNA CHIESA

Roma, Santa Maria Antiqua, presbiterio
MADONNA COL BAMBINO FRA DUE ANGELI (primo strato, 545 c.)
ANNUNCIAZIONE (secondo strato, 565/578)
PADRI DELLA CHIESA (terzo strato, 650/707 c.)
Affreschi – frammenti sovrapposti

Per avere duecentocinquant’anni di arte bizantina dei secoli bui, a Roma, tutti in una volta, il posto migliore è Santa Maria Antiqua al Foro Romano. La chiesa è ricavata dal ventre di un enorme rudere, probabilmente strutture collegate all’accesso da basso alle sovrastanti domus imperiali palatine. Il suo tesoro più prezioso è costituito dagli affreschi residuali che vanno dall’epoca di Giustiniano all’epoca di papa Giovanni VII, conservatisi miracolosamente in discreto stato fino ai nostri giorni. Questi resti sono importanti per la storia dell’arte in quanto costituiscono alcune fra le pochissime opere rimasteci in cui è possibile rintracciare i canoni tipici delle correnti di provincia e raffrontarli direttamente con quelli della corrente aulica, nonché per il fatto che in essi è possibile ravvisare i primi segni di un cambiamento nel senso di una ricerca di trascendenza meglio comprensibile, ovvero più apprezzabile dal volgo latino: cioè, in altri termini, rappresentano i primi tentativi di occidentalizzazione del linguaggio bizantino. Infatti, contrariamente a quanto avviene in Oriente, il provincialismo a Roma risente del clima culturale latino. Questo comporta che da noi, differentemente che nei centri periferici orientali, fanno la loro comparsa alcuni elementi tipici della cultura Occidentale.

Roma, Santa Maria Antiqua, Cappella dei SS. Quirico e Giulitta
CROCIFISSIONE (741/752)
Affresco

In uno di questi affreschi in particolare è possibile apprezzare il fenomeno di contaminazione latina nei suoi caratteri più sintomatici. Si tratta dell’affresco con la crocifissione, sito nella cappella di Teodoto (zio di papa Adriano I), probabile cappella privata di papa Giovanni VII, pontefice di origini greche, sulla cattedra di san Pietro dal 705 al 707. Questo affresco si è conservato quasi completamente integro fino ai nostri giorni, cosa davvero eccezionale per dipinti di quest’epoca.
L’opera, venuta alla luce durante il dominio longobardo, raffigura Gesù Cristo in croce fra la Madonna e san Giovanni. È una delle prime immagini nella storia, se non addirittura la prima in assoluto, in cui viene raffigurato l’episodio della crocifissione secondo la versione giovannea. Nella Crocifissione di Santa Maria Antiqua si possono individuare due componenti fondamentali, una bizantina provinciale di area greco-siriaca e l’altra latina.

Roma, Pantheon
ICONA DELLA HODIGHITRIA (609 c.)
Tempera su tavola, altezza cm. 100 – larghezza cm. 47,5

Roma, Santa Maria in Trastevere
MADONNA DELLA CLEMENZA (705/707)
Encausto su tela fissata a tavole di cipresso,
altezza mt. 2,37 – larghezza mt. 1,37

Sono da attribuire a correnti provinciali anche le due preziose icone conservate al Pantheon e a Santa Maria in Trastevere; più vicina all’area culturale costantinopolitana la prima, più vicina all’area greco-siriaca la seconda.

Roma, San Giorgio in Velabro
INTERNO (682/683)

Roma, Santa Maria in Cosmedin
INTERNO (fine VIII sec.)

In architettura le cose non vanno troppo diversamente che in pittura. A Roma, per volontà dei papi, si ritorna ai modelli paleocristiani: semplici, scarni, essenziali. Ma la leggerezza che caratterizzava le costruzioni dei primi seguaci di Cristo ora lascia il posto ad un senso incombente della materia. Ad esempio in San Giorgio in Velabro, in cui si vuol ricordare Santa Sabina, lo spazio è contrito e la luce bassa, mentre in Santa Maria in Cosmedin il sobrio ritmo del colonnato basilicale viene interrotto con l’inserimento di tratti di muro per dare il senso di una maggiore solidità.

CORRENTE GRECO-ELLENISTICA

Castelseprio, Varese, Santa Maria Foris Portas
VIAGGIO A BETLEMME (VII/VIII sec.)
Particolare del ciclo di affreschi ispirati all’infanzia di Cristo

In un periodo come quello alto medievale in cui il modello dell’uomo religioso è il monaco il modello del luogo di culto è la pieve. E infatti il VII e l’VIII secolo è tutto un sorgere di pievi; ogni borghetto ha la sua. Il borgo di Castelseprio sorgeva ad ovest del castrum che faceva capo alla torre fortezza di Torba; Torba era un avamposto militare del IV secolo, sorto a difesa dei confini al di qua delle Alpi, lungo la via Como-Novara, nella valle del fiume Olona. Dell’intero complesso oggi è rimasta solo la torre fortezza e la chiesa del borgo: la chiesa di Santa Maria Foris Portas. Sui muri interni di Santa Maria Foris Portas, una pieve dalla struttura elementare, dove fra il 600 e il 700 gli arcivescovi di Milano andavano a trascorrerci i mesi estivi, si trova il ciclo di affreschi più incredibile di tutto il buio Medioevo.
Dal punto di vista dell’orientamento stilistico queste immagini non rappresentano una novità per la cultura dell’epoca. Infatti, anche se in tale periodo domina nettamente l’orientamento antinaturalistico metropolitano, correnti ellenistiche continuano a circolare per tutto il Mediterraneo. L’intero complesso costituisce la prova più eloquente della permanenza, nell’età di mezzo, di queste correnti di orientamento empiristico, accanto a correnti medio orientali più fortemente espressionistiche. Si ignora chi sia stato l’artefice del mirabile ciclo; probabilmente un greco; uno dei tanti maestri errabondi provenienti dall’Oriente iconoclasta in cerca di commissioni, chiamato dal clero locale. Comunque l’autore degli affreschi di Castelseprio non è inquadrabile nella categoria delle maestranze locali. Dall’esame della sua opera si può dedurre che si tratta di un artista colto, di formazione greca, in cui prevale un linguaggio indirizzato al recupero del naturalismo ellenistico nella cultura bizantina. Non si conoscono altri autori simili in tutto l’Occidente, né questo grandissimo, sconosciuto artista ha lasciato altra traccia di sé.
Non si nega l’appartenenza dell’insieme all’ambito culturale bizantino, evidente nella fisionomia generale, eppure, gli elementi linguistici, la maniera rapida, compendiaria, la presenza del tono come mezzo espressivo, tutto concorre a discostare quest’opera dall’indirizzo dominante. Da quel poco che si riesce a vedere, salta agli occhi una serie di particolari rilevanti che rendono, in modo quanto mai chiaro, la misura del linguaggio ancora potentemente impressionista. Ad esempio nell’episodio raffigurante il viaggio a Betlemme le pieghe del manto di san Giuseppe non seguono affatto uno schema astratto, ma accompagnano col loro andamento il movimento del corpo in marcia. L’asino, còlto nel tipico passo ad ambio, ha forme definite volumetricamente e particolari fisionomici che denotano grande vivacità e freschezza nel cogliere e rendere con immediatezza l’aspetto percettivo della realtà naturale. Il piano d’appoggio si staglia in diagonale per dare maggiormente il senso della prospettiva; l’arco disponendosi parallelamente alla direzione del piano inclinato facilita la comprensibilità dello spazio come contenitore vuoto. La Madonna è percorsa da un movimento di torsione che la fa girare verso san Giuseppe, il quale a sua volta è colto di tre quarti: segno evidente che si vogliono mettere in relazione dialogica le due figure, cioè superare il puro essere nello spazio. Gli occhi sono resi in modo empirico, non seguono il solito schema per cui risultano sempre spalancati, come di persone spiritate. Non vi sono dunque immagini piatte e disposte frontalmente, fisse, prive di qualsiasi movimento, ma immagini che danno il senso della vita; non dunque immagini che emanano luce da fonti interne, ma immagini che la ricevono da fonti esterne; e infine non punti di fuga esterni alla scena, ma interni. Così, a circa due secoli dalla fine dell’impero romano d’Occidente, l’arte ellenistica non si è ancora estinta; continua a vivere nelle remote province d’Oriente, pronta a riaffiorare all’improvviso, risuscitare dalle profondità della storia per ricordarci che il suo spirito è eterno.

CULTURA RAVENNATE NELL’ARCHITETTURA PADANA

Ravenna, chiesa di San Salvatore
ARDICA (V/VI sec. o IX sec.)
Opera conosciuta come il palazzo di Teodorico

Bagnacavallo, Ravenna, chiesa di San Pietro in Sylvis
INTERNO ED ESTERNO (VII sec.)

Pomposa, Ferrara, Chiesa abbaziale
INTERNO (VIII/IX sec.)

Pomposa, Ferrara, chiesa abbaziale
Magister Mazulo
ESTERNO (VIII/IX sec.)

In architettura la zona padano-adriatica continua ad essere dominio della cultura ravennate. Ne portano chiari i segni l’abbazia di Pomposa, fondata tra l’VIII e il IX secolo, che ricorda le più imponenti basiliche esarcali, e San Pietro in Sylvis, a Bagnacavallo, del VII secolo, dove però si parla una lingua più semplice, lontana da quella aulica (qui infatti risalta la massa). All’interno, al posto delle colonne, ci sono semplici pilastri quadrangolari, come nella scomparsa chiesa di San Vittore di Ravenna, in cui apparve questa soluzione per la prima volta. All’esterno le pareti sono suddivise da lesene; più numerose nella parte superiore dove per la prima volta compare il motivo degli archetti pensili. Le finestre sono molto ridotte, si dà abbassare notevolmente l’intensità della luce all’interno, cosicché le pareti non sembrano più schermi luminosi, privi di peso, ma corpi gravi sostenuti da potenti elementi che contrastano il carico della struttura. Il tema espressivo dominate non è più dunque la trascendenza ma la gravosità della condizione terrena a cui si reagisce con il lavoro per la salvezza eterna.

ARTE BARBARICA

Cividale, Friuli, Museo Archeologico
CROCE DI GISULFO (611 c.)
Arte merovingia longobarda
Oro laminato, granati e lapislazzuli, altezza cm. 11

Monza, tesoro del duomo
CHIOCCIA CON PULCINI (VI/VII sec.)
Lamina d’argento dorato su anima di legno, granati, vetri blu,
diametro cm. 46 – altezza cm. 27

A formare il quadro culturale da cui sorgerà il volgare figurativo concorre in parte anche l’arte barbarica. La sua dose d’influenza sulla formazione del nuovo linguaggio dei borghi è tuttora oggetto di discussione, così come pure la sua importanza storica. Più che altro ai barbari si deve la creazione delle condizioni materiali, le situazioni concrete che hanno portato alla riscoperta dell’arte antica, ma soprattutto hanno portato alla nascita di un nuovo modo d’intenderla e di raffigurarla.
Dal punto di vista lessicale ad essi si deve poco, solo un apporto marginale, confinato alla decorazione; dal punto di vista tecnico probabilmente niente. Le parole dei rari componimenti in cui si ravvisa l’intervento di maestranze barbariche rimangono quelle bizantine e tardo-antiche e la tecnica torna ad essere primitiva, come nelle prime immagini catacombali. Semmai, riguardo a questi due aspetti ci si deve domandare quanto deve l’arte barbarica a quella bizantina e tardo-antica.
Qualcosa agli artefici barbari si deve invece dal punto di vista espressivo. Essi infatti, spinti dall’entusiasmo di chi scopre un mondo nuovo, completamente ignorato prima, reinterpretano vecchi temi con una passione del tutto nuova; tale passione li induce spesso a distorcere l’ortodossia di vocaboli e trame strutturali. Ma proprio questa spontaneità, rudimentale e aggressiva, se da un lato si rende responsabile della disarticolazione di una tradizione millenaria, dall’altro contribuisce in modo decisivo ad abbandonare definitivamente schemi oramai inamidati e dare nuova vita alla cultura figurativa cristiana. Dunque ai barbari la storia non deve solo distruzione e morte. Tuttavia rimane da spiegare perché a loro si deve così poco.
Quando si parla di arte medievale la prima cosa che viene in mente sono i castelli, le grandi cattedrali romaniche, oppure la rinascita delle città dopo i terrori dell’anno mille; tutte opere imponenti, create dall’ingegno e dalla perizia del lavoratore medievale. A nessuno verrebbe mai spontaneo pensare alle opere lasciate dai barbari. Questo perché i barbari non hanno mai costruito castelli, innalzato cattedrali, edificato città, scolpito statue, né dipinto pale d’altare. La cosa è facilmente comprensibile. I barbari sono popolazioni nomadi, conoscono solo l’arte di fare gioielli; di statue, pale d’altare, muri di pietra e mattoni non sanno davvero cosa farsene; non se li possono mica portar dietro durante i continui spostamenti da una prateria all’altra. Solo con la dominazione e la conversione al cattolicesimo vengono a porsi le condizioni materiali per un cambiamento culturale, dunque le premesse per un incontro con l’arte edificatoria, scultorea e pittorica. Ma di fronte ai nuovi impegni assunti nei confronti della civiltà cristiana, Longobardi, Carolingi e Ottoni vengono a trovarsi in seria difficoltà. Ad esempio davanti ad interventi di tipo architettonico e pittorico non sanno proprio dove mettersi le mani. Come fare allora? Semplice! ci si rivolge a maestri bizantini, laddove disponibili, altrimenti si bussa alle botteghe delle maestranze locali.
Queste maestranze sono gli artigiani sopravvissuti in qualche modo alle devastazioni, mastri edificatori e lapicidi che vanno a rimpiazzare a mano a mano i maestri professionisti, emigrati altrove in cerca di miglior fortuna; non si tratta di artefici barbari, semmai di artefici imbarbariti a causa della depressione generale. Sono uomini ben diversi dai maestri bizantini; in qualcuno di loro scorre sangue barbaro. Queste maestranze sono costituite da artigiani di estrazione rurale il cui modello di riferimento più che essere rappresentato dall’arte bizantina è rappresentato dalla grande tradizione costruttiva e decorativa romana. È questa tradizione, tramandata attraverso i colossali resti delle antiche vestigia, a costituire il linguaggio figurativo dell’Italia barbarica, non già il lessico orientale, condensato nei pochi centri, per lo più religiosi, siti nelle aree sottomesse al potere di Bisanzio.
Tuttavia poco della gloriosa tradizione tardo-romana è rimasto nel modo di operare di questi artisti-contadini. Nel loro modo di operare si rileva una buona dose di libertà interpretativa rispetto all’ortodossia tardo-antica, nonché una conoscenza poco approfondita delle antiche regole. Si tratta per lo più di un artigianato impreparato, ma non incolto. La mancanza di erudizione non è tuttavia d’ostacolo all’arte. Il decadimento di una tecnica millenaria a mera strutturalità non impedisce a questi maestri rurali di fare cose degne di interesse; e poi ai barbari piacciono. Una committenza che si fregia dell’ammirazione per la cultura antica come titolo di prestigio non può non apprezzare i prodotti di un artigianato che si richiama ad essa.
L’incontro fra cultura barbarica e tardo-antica, istintiva e aggressiva la prima quanto insigne e nobile la seconda, non produce nessun trauma; e neanche quello fra barbari e bizantini. Anzi sarà proprio questo triplice incontro a dare nuova vita all’ormai spenta cultura occidentale e creare le premesse per il suo sviluppo nella nuova età feudale.

CIVIDALE E MONZA, SCRIGNI DELL’OREFICERIA BARBARICA

I primi barbari a lasciare manufatti artistici in Italia son i Longobardi. La cultura figurativa di matrice longobarda ha carattere etnografico e si esprime quasi esclusivamente attraverso la decorazione, essendo completamente assente la statuaria; l’unica forma d’arte è quella orafa. I prodotti attraverso cui si esprime l’oreficeria longobarda vanno dai gioielli alle coppe, dai manici di spade e pugnali alle corone. A volte, in caso di doni, si passa ad oggetti di tipo particolare che manifestano l’abilità tecnica raggiunta, come la deliziosa chioccia con pulcini, donata dalla regina Teodolinda (589-616) alla basilica di Monza. Nella croce di Gisulfo, ad esempio, croce votiva donata da un non meglio precisato principe Gisulfo (o Gisolfo), uno dei tanti che hanno portato questo nome dal 700 al 1035, fra Benevento, Salerno e il Friuli, intercalate alle gemme ci sono decorazioni che richiamano immagini di teste stilizzate, poste frontalmente, con abbondanti capelli ricadenti sulle spalle, dall’aspetto “cordonato”. Di queste teste non si precisano sesso né età, sono pure e semplici forme decorative. Benché lavori pregevoli, comunque, si tratta sempre di oggetti limitati nelle dimensioni: suppellettili, articoli d’arredamento, eccetera.
L’assenza di grandi opere in contrapposizione alla frequente fornitura di manufatti a carattere ornamentale astratto a complemento di realizzazioni di maggior impegno è stata la ragione fondamentale che ha indotto alcuni studiosi a ritenere il canale decorativo la principale, se non l’unica, via di penetrazione dell’arte barbarica nella cultura figurativa medievale.

Monza, tesoro del duomo
LAMINA D’ORO DI AGILULFO (VII sec.)

Monza, tesoro del duomo
CORONA FERREA (forse IV o VI sec.)

La lamina d’oro di Agilulfo non è nient’altro che il frontale di un elmo; è in bronzo dorato. La lastra rappresenta il re longobardo Agilulfo, sul trono dal 591 al 616, affiancato da due armigeri con lancia e scudi, due vittorie alate recanti un cartello con su scritto «victuria», e quattro inservienti. Sull’attribuzione dell’opera ad un artefice barbaro o ad un maestro locale il dibattito è ancora aperto. È pur vero che la rozzezza del prodotto, la mancanza di proporzioni, l’estrema schematicità, il modellato sommario e la tecnica a sbalzo fanno propendere per un artefice longobardo, ma la presenza di alcuni elementi iconografici, come le vittorie e la vitalità interiore di cui sono pervasi i personaggi che si trovano alle due estremità della lastra fanno pensare ad un artigiano formatosi in un ambito culturale decisamente latino. Il mistero aleggia invece intorno alla Corona Ferrea. Generalmente identificata con un prodotto risalente all’epoca di Costantino, oggi si propende per collocarla nel periodo teodoriciano. La tradizione, ribadita da Sant’Ambrogio (340-397) durante l’orazione funebre del 395 tenuta in occasione della morte di Teodosio, vuole che la corona sia stata forgiata con un chiodo della crocifissione per volere di Elena, madre di Costantino, con significato allusivo alla collocazione del santo chiodo sulla testa degli imperatori. In realtà la Corona Ferrea è tutt’altro che di ferro; è fatta con lamine d’oro, 26 rosette, d’oro anch’esse, 24 placchette smaltate e 22 gemme. Il disegno rimanda incontestabilmente al segno della croce.
Curiosità: oltre che sulla testa di Costantino, Teodorico, Carlo Magno, questa corona è calata sulla testa di tutti i re d’Italia, fino a Napoleone I nel 1805.

RADICI LONGOBARDE NEL LINGUAGGIO MEDIEVALE

Cividale, Friuli, duomo
PALIOTTO DELL’ALTARE DEL DUCA RATCHIS O RACHIS (744/749)
Pietra d’Istria, originariamente policromato

Solo verso la fine del dominio longobardo si iniziano a vedere opere barbariche che potrebbero aver avuto una qualche influenza nella formazione del linguaggio artistico medievale italiano. Si tratta sempre di lavori alquanto semplici e immediati nella formula espressiva, elementari nella tecnica, il cui modello ispiratore non lascia dubbi: le lamine d‘oro sbalzate.
La conversione religiosa costringe gli artigiani longobardi ad andare oltre l’oreficeria; l’inedito ruolo civile li induce a cimentarsi in nuove produzioni, nuovi materiali, nuove tecniche. Ma il loro modo di esprimersi nella pietra è uguale a quello che li vede esprimersi nell’oro; gli schemi linguistici sono gli stessi esperiti nella decorazione dei gioielli. Ciò non solo perché sono gli unici modelli che conoscono, ma anche perché sono quelli che meglio ne definiscono l’identità culturale.
Da quanto appena detto risulta dunque che in epoca di barbari solo poche opere portano la firma di artefici barbari. Una di queste è l’altare del duca Ratchis.
L’altare del duca Ratchis viene realizzato in occasione della nomina a re di Ratchis (744-749), duca di Cividale del Friuli, sede del primo ducato longobardo in Italia. C’è una somiglianza davvero sorprendente fra i volti della madonna e degli angeli raffigurati sulla lastra di marmo che decora il prospetto dell’altare e quelli cesellati sulla croce di Gisulfo: ciò potrebbe far pensare ad uno stereotipo stilistico ben preciso. Infatti, il modello dei riquadri decorativi è da ricercare più nell’oreficeria che nella statuaria; la sua tecnica va assimilata più a procedimenti di pertinenza dell’arte orafa, l’incisione o lo sbalzo, che non a procedimenti di tipo plastico, il rilievo: l’immagine scolpita più che assomigliare a quelle dei fregi classici, ricorda una lamina sbalzata.
Ad un esame superficiale si potrebbe essere indotti a giudicare di scarsa qualità tecnica il bassorilievo di questo paliotto, elementare nella composizione e ingenuo nell’espressione delle figure. In realtà esso non è rozzo, ma solo primitivo. È un lavoro che rimanda ad una tradizione diversa, prodotto di un’altra cultura, legata a condizioni di vita ancora arcaiche; una cultura etnica le cui origini si perdono nella tradizione artigianale delle genti del Nord Europa; una cultura che non vede l’arte come rappresentazione del mondo naturale, ma come costruzione di immagini che rimandano ad esso, senza che tra queste e l’oggetto reale vi sia alcun rapporto di tipo proiettivo. Espressione di un linguaggio semplice e diretto, con radici completamente diverse da quelle tardo-antiche e, ancor più, da quelle bizantine; documenti di un artigianato privo di citazioni, sottigliezze e intellettualismi.
Tecnicamente questa cultura figurativa primitiva non c’entra nulla con la costituzione del linguaggio dei borghi; tematicamente c’è la condivisione del soggetto. Tuttavia nel paliotto c’è un nuovo elemento, ma non si tratta tanto di un elemento lessicale quanto espressivo, del tutto sconosciuto al linguaggio figurativo bizantino; un elemento che rimanda al mondo romano, ma rinnovato nei modi, libero da convenzioni iconografiche, inventato e più sentito nell’esternazione: il senso drammatico della vita, che altro non sarebbe poi che un nuovo e più diretto modo di rappresentare il mondo e la storia del cristianesimo, così come viene sentito dal popolo incolto. Questo sentimento si configura oltre che con le deformazioni espressionistiche dei personaggi effigiati, particolarmente manifeste nello stiramento delle dita degli angeli, anche con l’evidenziazione delle linee, che si caricano di una incontenibile energia, nonché con la compressione dello spazio e del tempo, fino al loro quasi totale annullamento, ovvero con il cosiddetto “horror vacui” (paura del vuoto).

I LONGOBARDI E L’ARCHITETTURA

Pavia, Sant’Eusebio
CRIPTA (VII sec.)

Benevento, chiesa di Santa Sofia
PIANTA ED INTERNO (740/760)

Brescia, chiesa di San Salvatore
INTERNO (753)

Brescia, chiesa di San Salvatore
CRIPTA (756/774)

Agliate, battistero
ESTERNO (IX/X sec.)

Nell’architettura barbarica predomina la cultura tardo-antica su quella bizantina. Anche in questo caso la spiegazione è facile: i barbari non hanno una tradizione costruttiva e i bizantini sono lontani; e poi hanno sempre nutrito una certa ammirazione per le grandiose vestigia romane. Tuttavia l’influenza bizantina non sparisce e si fa sentire anche in territorio longobardo. Ma in architettura la sua purezza è spesso contaminata dalle volgarizzazioni di una cultura periferica dovuta in molti casi all’attività di maestranze locali, molto più numerose in campo edificatorio che in quello figurativo. Gli effetti di una tale situazione si vedono lucidamente nella commistione stilistica che sovente caratterizza soprattutto gli edifici padani di questo periodo. A Brescia, in San Salvatore ad esempio, fondata nel 753, i motivi esarcali si mescolano a echi tardo-antichi, così come pure a Cividale in Santa Maria in Valle o Tempietto. Più vicina ai precedenti ravennati è Santa Sofia, una chiesa sorta in una delle contrade barbariche più lontane da Ravenna: la contrada di Benevento. In Santa Sofia ci troviamo alla presenza di un edificio veramente lontano millenni dai canoni abituali; la sua pianta è a forma di stella. All’interno ci sono due anelli, uno decagono, costituito da pilastri, e l’altro esagono, costituito da colonne. Lo strano edificio viene fatto costruire nel 760 dal duca longobardo di Benevento Arechi II (734-787). Il suo intento è quello di farsi fare una piccola Santa Sofia, che ricordi l’altra, quella giustinianea di Bisanzio.

IL TEMPIETTO DELLA DISCORDIA

Cividale, Friuli, Santa Maria In Valle o Tempietto
SANTE (metà VIII sec. o prima metà XI sec.)
Particolare della decorazione scultorea dell’interno
Stucco

A Cividale, nel Friuli, c’è una chiesetta longobarda dall’aspetto alquanto insolito, tanto da essere stata ribattezzata “tempietto”. All’interno, nel timpano della parete d’ingresso, ci sono scolpite in stucco, sei sante. Niente di straordinario se non fosse per il fatto che rappresentano un enigma. Il loro aspetto, nonché il loro modo di presentarsi, frontali e ieratiche non dovrebbe lasciare dubbi: si tratta di un’opera bizantina. Eppure il forte sbalzo che ne caratterizza il modellato e la lieve torsione delle figure centrali con il braccio che si sovrappone al busto, chiaro segno di ricerca di una spazialità prospettica, fanno pensare ad un artefice di formazione latina, o per lo meno non immune dall’influenza tardo-antica.